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50 tentati suicidi più 50 oggetti contundenti. Intervista ad Alessandra Carnaroli

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50 tentati suicidi più 50 oggetti contundenti è il nuovo libro di Alessandra Carnaroli pubblicato da Einaudi nella collana collezione di Poesia nel 2021 dove la morte, nella forma del suicidio e dell’omicidio, appare in tutto il suo macabro umorismo. Un umorismo nero che però è anche carnevalesco, per quanto i due termini siano in contraddizione. La maschera che Carnaroli utilizza è quella di ognuno di noi che nel quotidiano, magari familiare, si trova a fare i conti con la propria debolezza e aggressività. Il desiderio ci può spingere ad azioni fatali, auto ed etero dirette, ma compito della poesia, forse, è mostrare la realtà del reale, dell’impossibile a credere, del non-potrà-mai-capitarmi. Però un conto è fare la lezioncina moralista e mediocre che critica certi gesti e un conto è assumersi moralmente l’onere di mostrare attraverso il proprio corpo e la propria parola il gesto della pulsione di morte che pure c’è, ci alita attorno e addosso. In una società letteraria sempre più protesa a fantasticare spiriti, magie e facili consumismi letterari, la Carnaroli ci offre una possibilità di fare poesia sperimentale, di giocare con la possibilità dei toni e dei luoghi poetici e comici, e di farci riflettere, prendere atto dell’essere animale che siamo. Un tema, poi, fondamentale, è quello materno: qui Carnaroli rifugge le bigotte e dogmatiche prese di posizione che vorrebbero pura la condizione della donna e, di più, della madre. Le ambiguità del sentimento amoroso, in tutte le sue forme, compresa quella dell’affetto materno, vengono parlate, scritte, di-versificate in 50 gesti e 50 oggetti. 50 modi di (far) morire e, per una sorta di sottile catarsi, rivivere, in versi.

Gianluca Garrapa

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Gli altri tuoi libri affrontavano tematiche legate al femminicidio, i traumi infantili, la gravidanza, l’Alzheimer, in queste poesie invece il tuo interesse orbita intorno alla morte, sebbene con un tono spesso ironico o da humor macabro. Secondo te la poesia oggi ha ancora la potenza necessaria per scavare nei grandi temi umani e sociali?

Credo che la poesia debba lasciarsi un poco andare, scordare di avere chissà quali cose da dire, tornare coi piedi alla terra, le mani addosso, lasciare impronte, segni di polpastrelli sul collo. Copiare dalla vita per tornare in vita, nel senso di trovare collegamenti tra il mondo intorno e il buco dentro, rimandi che abbiano una forma, un senso, tipo mentos. Farsi contagiare da quanto è reale, quotidiano, quanto a che fare col fuori, scaffale o divano, ferita o appendino, cric, katana, bambina di terza primaria o puttana per strada. La possibilità di raccontare pezzi, quarti, squarci di mondo con la voce che hanno, che danno, coi danni che procurano, coi lamenti, le ferite, gli inciampi: tutto questo immenso che abbiamo ogni giorno sotto lo sguardo, se si lascia aperto qualche buco del corpo, ci attraversa e può diventare poesia tremenda e per effetto, tipo rigurgito di vacca, cambiare un poco quanto abbiamo intorno, almeno il rumore, il gusto.

I 50 oggetti contundenti sembrano avere una loro storia. Nella predisponibilità infranta ogni oggetto diventa un destino. Vive e fuoriesce dall’anonimato della quotidiana battaglia per la sopravvivenza. Come nasce questa seconda sezione?

Leggo un articolo su La Repubblica, di quelli neppure a pagamento, qualche riga su un marito che uccide la moglie, usando 50 diversi oggetti contundenti. Cose di casa, suppellettili, utensili, bomboniere, ante di armadietto. Il giornalista comincia l’elenco: borraccia, mazza, cassa delle stereo poi si interrompe, probabilmente per motivi di spazio, il limite raggiunto del numero di caratteri. Così decido di continuare, scrivendo di 50 possibili oggetti trovati in casa tra i resti di una vita passata insieme, souvenir di viaggio, domeniche pomeriggio all’ikea, cresime e feste di compleanno, usati per uccidere, devastare un corpo, scomporlo tipo puzzle a cui mancano troppi pezzi, buono solo per essere riciclato nella carta. Immaginare la scelta di ogni singolo oggetto, questo no troppo poco violento, la tazza di mafalda sì mi ha sempre rotto il cazzo berci il caffè dentro.

Non avere più idee per continuare, cominciare a descrivere le cose che tengo in casa, appese ai muri, usate da mio marito, dai figli, quelle toccate, stratificate di pelli morte e conosciute, amate: gli zoccoli olandesi, la palla di vetro coi fiocchi neve. Confondere le storie, mia casa è tua casa, mia vita è tua vita: sfinire la donna, le donne in cucina.

Il verso è libero e spesso però vi si rintraccia una musicalità sotterranea. Che rapporto hai invece con la misura tradizionale e chi sono i tuoi riferimenti letterari? Rispetto al passato come si è evoluta e come, invece, credi evolverà la tua poetica e la tua scrittura?

Il riferimento che continuo a citare è Nanni Balestrini per la violenza furiosa che attacca cose e persone alla vita, per la descrizione della superficie, per il copia e incolla che trasforma il mondo in letteratura, la velocità di passare radente e pieno di luce tipo proiettile, caricare il reale, sparare.

Sia misura che tradizionale sono termini che fatico a usare, perché tenersi saldi a un peso, a un’altezza quando si può esondare, coprire di limo i limiti? Limonare è meglio di limare.

Credo che nel tempo la mia scrittura si sia progressivamente scarnificata, abbia perso artifici e forme imposte, sia diventata più semplice, attaccata al quotidiano, ad una voce comune e a qualche rima. Spero continui in questo processo di dimagrimento forzato, in questa perdita di culo e seno cara alla dottoressa Tirone, questa tensione al grado zero. Sarà una dolce fine, questo smettere di scrivere.

Nel tuo libro si racconta di suicidi e di modi di uccidere, di morte dunque, ma anche, in realtà, si racconta del desiderio: nella tua scrittura quanto c’è di desiderante e quanto di tecnica? Insomma, come nasce una tua poesia e quando senti che sia pronta per stare lì, definitiva o quasi, sulla pagina?

La poesia nasce velocissima, spinta da qualcosa che dondola, proprio tipo danza nella testa, nenia, lamento, un gancio per appendere quarti di vitello alla trave quando l’animale ancora stride, voce o parola lanciata dentro al pozzo come monetina o bambina di filastrocca, che risuona fino al fondo poi silenzio. Un trafiletto di cronaca, una parola in dialetto, un post su Facebook costruiscono rapidi un ponte, qualcosa che mi riporta alla sponda dell’infanzia, a quella di mia madre e per risalita tipo salmone, di donna in donna, di uovo in uovo, catena di antenate nella storia verticale che ci impala, ci immola.

Quindi qualcosa che risuona, che per qualche verso mi somiglia e dal verso pare scorrere rapidissima tipo torrente: due o tre giorni per comporre una cinquantina di versi, qualche settimana per trovargli posto, dargli la forma definitiva di libro.

La tua scrittura traccia un filo che collega famiglia, società e televisione. Contraddizioni affettive, barlumi di vendetta, ripensamenti. L’oggettività della tua scrittura cela una complessità indicibile. Come hai lavorato per coniugare verso e cronaca?

Credo che ci siano testi, articoli di giornale, liste della spesa, pubblicità di centri benessere, discorsi ai tavoli vicini, in coda davanti a qualche posta italiana, che sono poesia in potenza: a volte basta trascriverli su un nuovo documento e andare a capo, modificare qualche parola per creare rime, assonanze, sterzare alla fine, creare l’inciampo, la sgommata che ribalta la corsa all’ultima riga. Restare fedeli alla voce condivisa è copiare, tendere l’orecchio al massimo, aderire alla parete con uno di quei bicchieri all’orecchio per sentire bene. C’è poesia nelle cose, attraverso la plastica, l’inchiostro, il metallo, la ceramica, la carta, l’osso di cui sono fatte, senza cercare altro, alcun rimando: sono pezzi di vita che sfregano, sfregiano braccia e facce, raccontano storie d’infanzia o semplicemente stanno, splendono immobili e fisse sulle mensole come stelle.

Che domanda faresti a un lettore o a una lettrice della (tua) poesia?

Ti senti un poco a casa?

Ci lasci un paio di poesie cui sei particolamente affezionata?

43*

mi occupo delle piccole cose

la piega del lenzuolo

un dito

scomposto dal resto

della mano

presto dovrò pensare

a barba e capelli

unghie

che ricrescono

le cellule fanno il loro compito

si moltiplicano

o muoiono

c’è continuo

movimento

su questo letto

hai aperto gli occhi

ma è un effetto

bambolotto

52*

mantieni le funzioni

di base dormire russare

ora per me dovrebbe essere sempre

notte nel mondo

le luci spente poche auto

sveglio solo l’infermiere di turno

che chatta con la compagna moldava

così che tutto sembra uguale

a una notte normale.

Da telecroniche, poesie inedite

Le amo tanto, perché stanno su un letto d’ospedale come corpi quasi morti e niente altro.

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