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A piedi nella storia: W.G. M. Sebald e Gli anelli di Saturno

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Nell’agosto del 1992, quando i giorni della canicola erano ormai alla fine, mi misi in viaggio a piedi attraverso la contea di Suffolk, nell’Inghilterra orientale, nella speranza di riuscire a sottrarmi al vuoto che sempre mi invade dopo aver concluso qualche lavoro di un certo rilievo.

 

È l’incipit de Gli anelli di Saturno, di Winfried Maximilian Sebald, e anche l’inizio di un mettere su carta i ricordi di quel lungo viaggio a piedi (il sottotitolo è Un pellegrinaggio in Inghilterra) stando, dopo un anno da quell’estate, nel chiuso di una stanza d’ospedale a Norwich.

Ma non si tratta di un libro di viaggio (a piedi) tout court: il viaggiare a piedi sembra diventare uno spostamento continuo e contemporaneo su due piani: il suolo dei luoghi percorsi, contenitori di vestigia, monumenti, abitazioni, musei che, a loro volta, innescano il viaggio immateriale della reverie, l’esplorazione di mondi concatenati, la rammemorazione di storie, vita, gesta, eventi.

La macchina che si mette in moto con l’andare delle gambe procede per assorbimento e per saturazione, raccoglie instancabile, osserva, si fa occhio e trattiene, rielabora, collega e sviluppa.

Un esempio:

Sebald lascia al mattino il triste Victoria Hotel con lo zaino in spalla, lascia Lowestoft e, nei pressi della stazione, scorge i due passeggeri di un’auto di impresa di pompe funebri. Subito gli torna in mente il garzone di Tuttlingen che aveva visto ad Amsterdam in un corteo funebre di un commerciante, per poi tornare al piccolo centro costiero ricordando il suo conoscente Frederick Farrar, nato nel 1906.

Un altro esempio:

Sebald, dopo una sosta sulla spiaggia, decide di salire verso la brughiera di Dunwich. Inizia così a descrivere il modo in cui si sia formata la regione, rievocando le principali ragioni geologiche ed antropiche, sorvolando rapidamente l’Amazzonia per un semplice raffronto, per poi toccare nelle pagine successive la costa del Mar Baltico, la buick del nonno, Holderlin, i quadri di Leonardo Da Vinci, la rappresentazione all’aperto del re Lear nella brughiera di Westleton.

 

Sebald cammina, e camminando riconnette incessantemente apre la memoria dei luoghi, vi innesta quella personale, trasforma il percorso in un discorso, lo organizza estraendone e ricomponendone minuziosamente i componenti. Sebald scrive della pesca delle aringhe, di Borges, della tomba di San Sebaldo, di Josef Conrad, del panorama di Waterloo, del ponte di Blyth, di Caterina da Siena, del Tempio di Gerusalemme, dell’uragano del 16 ottobre 1987, della sericultura.

 

È un “metodo” che lo stesso autore descrive così:

Lavoro seguendo il sistema del bricolage, nel senso che gli dà Lévi-Strauss. È una forma di lavoro selvaggio, di pensiero pre-razionale, nella quale, si rovista fra oggetti accumulati”*.

Si tratta però solo apparentemente di pedanteria e di vertigine dell’enumerazione: annotazioni sghembe, sguardi multipli, empatie improvvise illuminano ritmicamente il testo. Come succede in un campo che si estende fino alla chiesa di Covenhite. Qui

Dietro un basso recinto elettrificato era raccolto un branco di circa un centinaio di maiali, su un terreno bruno ricoperto di alcuni sparuti cespi di camomilla. Scavalcai il fil di ferro e mi avvicinai a uno di quei pesanti animali, immobile nel sonno. Quando mi chinai su di lui, socchiuse lento l’occhietto bordato di ciglia chiare e mi fissò con un fare interrogativo. Gli passai la mano sul dorso inzaccherato, che sussultò per il contatto inconsueto, lo accarezzai sul grugno e sul muso e gli grattai dolcemente la fossetta dietro l’orecchio fino a che sospirò come un essere umano afflitto da un infinito dolore. Quando mi rialzai, richiuse l’occhio con un’espressione di profondissimo affetto”.

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