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Al punto in cui è necessario voltarsi

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Giono-JeanMettiamola così: io il mondo lo vedo come qualcosa che procede complicandosi, un po’ come una palla che nel suo rotolare ingloba in sé tutto quel che trova lungo il cammino. Avete presente il lavoro paziente dello stercoraro? Ecco, c’è insomma questo peso che si ha sempre meno voglia di spingere.

Ad esempio i libri.

Mi sono reso conto che ho già superato il punto in cui ogni cosa nuova ne schiaccia una vecchia; ne assottiglia la profondità. Ci sono dei romanzi di cui fatico addirittura a ricordare la trama. Quando entro in una libreria mi prende una sorta di panico, sono assalito dalla consapevolezza che non potrò mai sapere che una parte infinitesimale di tutto ciò che si produce, e che la produzione avanza sempre più velocemente. Ebbene, che cosa potrebbe fare un singolo stercoraro davanti a tutta questa materia?

È ovvio che qui vi sto parlando di qualcosa che ha a che fare con la responsabilità della scelta. Serve insomma un dispositivo che ci aiuti nella selezione, ad esempio una mappa. Ce ne sono di già pronte all’uso, buone un po’ per tutti, basta comprarle. Oppure si può scegliere di fermarsi e volgere lo sguardo indietro, come ho deciso di fare io dal punto in cui mi trovo. Potremmo definirlo quel punto in cui la palla rischia di rotolarci addosso se non operiamo con un minimo di discernimento. Ad esempio quando si fa l’ennesimo trasloco e le scatole coi libri occupano più posto di tutto il resto. Quando si rimette mano alla propria biblioteca la letteratura diventa una questione geografica, un po’ come tracciare i confini del proprio mondo.

Questo è il mio punto d’arrivo, ma anche il luogo dal quale provo a parlare.

Mi ritrovo con questa piccola montagna di pagine creata da un’orogenesi tutta particolare, dove lo studio si è scontrato con la natura affatto nobile delle mie origini. Insomma, chi vi scrive non viene certo da una famiglia di letterati o di professori, questo è bene saperlo prima di avventurarsi col sottoscritto in questa scalata.

Prendete ad esempio un protagonista come il disertore di Jean Giono (Il disertore, Guanda, 1997), un uomo che «sbuca fuori dai boschi tutto sbalordito», con una faccia che dovetti avere anch’io quando mi sedetti tra i banchi dell’università. Non si sa quale giro egli abbia fatto per raggiungere la Svizzera, se venga dal Nord o dal Sud, se in precedenza sapesse già dipingere oppure no. Non sappiamo neanche quale sia il suo delitto, da chi o che cosa fugga. L’autore, però, c’informa fin dalle prime righe che «ha le mani bianche e va al popolo», e in una sola frase ci dice tutto del personaggio e dello stile dello scrittore, che ha il tocco dell’impressionista. La scrittura di Jean Giono avanza per pennellate, per accostamenti di sensazioni che devono tutto all’ambiente circostante – la grandiosità e la solitudine della montagna, la generosità dei suoi abitanti – prima ancora che al carattere del disertore. Si potrebbe anzi dire che qui la vera protagonista sia proprio la natura e che il tema del libro non sia tanto la fuga in sé, l’erranza, quanto la resistenza del corpo, la dura disciplina dell’artista.

«È in tal modo, come si diceva all’inizio, che il Disertore resta tutta la vita un personaggio dei Miserabili. Sceglie aristocraticamente le sue combinazioni di colori, e allora lo si immagina un aristocratico. E certo lui lo è, ma solo di animo. Ma l’animo non basta ai contadini di Haute-Nendaz.»

Quest’uomo arrivato da un luogo senza nome, che non ha importanza, sceglie di fermarsi definitivamente tra questi pochi paesi battuti dal vento e dalla neve, dorme nelle stalle, mangia il poco che trova, dipinge infaticabilmente. È un personaggio che si porta dietro qualcosa di me; c’ho infatti messo poco a capire che aveva a che fare con la necessità d’inventarsi, che è la spinta che non abbandona mai l’autodidatta.

Il disertore lo scovai qualche anno fa, a caso tra i libri scontati, ed è rimasto per diverso tempo chiuso nella mia libreria. Io faccio sempre così; se entro in una libreria non resisto, devo prendere qualcosa che mi chiama a sé. Che cosa sarà stato: il titolo? Penso proprio di sì, che il libro di Giono mi abbia fatto pensare subito agli anarchici, a un certo modo di stare al mondo che dalle mie parti, in Maremma, ha avuto una bella tradizione. Ho avuto fortuna, perché rischiato di ritrovarmi per le mani uno di quei libri in cui la politica si esaurisce tutta nel suo contenuto, uno di quei libri noiosissimi in cui l’autore cerca di convincerci in tutti i modi della giustezza delle proprie idee e riempie pagine d’inutile retorica.

«Come tutti i veri miserabili, come quelli che non lo sono per caso, ma per predestinazione, egli fugge la polizia, perché non ha documenti, perché è sicuro di essere in torto; si trova a suo agio soltanto nascosto e presso gli umili, presso chi non ha un lunghissimo cammino spirituale da compiere per arrivare a capirlo.»

Giono ci fa capire presto come la pensa, ma non ci tornerà più su, perché la sua politica passa attraverso l’esempio, la vita del disertore che è anche il suo modo di dipingere e di stare al mondo.

«Ricorda appena che era morto di fatica e di fame. Durante quei tre giorni sembra che non abbia mangiato. Com’era il tempo? Non lo sa, non c’era più tempo per lui.»

Nella mia libreria questo piccolo libro ha trovato un posto importante, proprio sullo scaffale più basso, dove mettere il piede per iniziare l’arrampicata.

Sulla tomba di Jean Giono, a Manosque, sta scritto: Dove vado nessuno va, nessuno è mai andato, nessuno andrà. Vado da solo. Il paese è intatto e sfuma dietro ai miei passi.

I suoi sono passi da gigante, che lasciano il solco e dietro a Giono, al suo paese che sfuma, evapora anche quella mole di libri che non lasciano niente.

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