Ci sono libri che fanno paura per quanto riescono a frugarti dentro, alla ricerca di un legame. Libri come instancabili segugi, che inseguono ostinatamente una connessione diretta, abbattendo ogni distanza stilistica e autoriale pur di raggiungere il nervo scoperto. Libri che piombano addosso come meteore impreviste, con una forza empatica tale da spazzare via ogni altra priorità.
È successo anche questa volta.
Di Alcide Pierantozzi avevo letto solamente la sua opera d’esordio Uno in diviso (uscito prima per Hacca, poi ristampato da Bompiani) un libro che fin da subito mi ha dato l’impressione di metter piede all’interno di una cattedrale progettata da un architetto visionario, a tratti geniale, imbastita di affreschi maestosi e grotteschi seppur irraggiungibili. Un’opera estrema e ambiziosa come lo sono molti esordi ma che si ostinava a restare su un piano alt(r)o rispetto al proprio fruitore. Ecco, per Lo sbilico mi è accaduto esattamente l’opposto.
Fin dalla prima riga («A quarant’anni dormo ancora con mia madre»), Pierantozzi sembra volersi spogliare di tutto per travolgerci con la sua storia: il tempo presente, la prima persona, un registro diretto e senza fronzoli, una voce che trasuda di intima, privata confessione.
Il meccanismo è rodato e funziona: chi legge non può interrompersi e nel giro di pochi paragrafi ci si ritrova all’interno di un nucleo familiare che stritola e ferisce quanto la sensazione di trovarsi catapultati di colpo all’interno di un gigantesco nido di filo spinato: se ne percepisce il calore ma ogni movimento inconsueto è causa di dolore. Lo sa bene l’autore/protagonista che da anni convive con la diagnosi di svariati disturbi psichici, dal bipolarismo alla sindrome di Asperger passando per una variegata sfilza di blocchi comunicativi, sessuali e un’ipocondria che grava sulle spalle ogni giorno di più.
Pierantozzi non ne fa segreto, anzi è meticoloso nel fornirci le diagnosi mediche corredate dai numerosi siparietti mortificanti al cospetto dello psichiatra di turno che non si fa scrupoli a elargire diagnosi/prescrizioni/fatture in comunanza agli sguardi spietati e accusatori della tirocinante di turno (spoiler: c’è sempre una tirocinante di turno a scrutarci nel momento in cui siamo più vulnerabili, parola di chi c’è passato) mentre batte veloce sulla tastiera l’ennesima diagnosi.
«Rimuginazioni a carattere somatico di dubbio patologico»: questo è ciò che dicono loro.
«La mia malattia è mentale, ma riguarda il corpo»: questo è ciò che sostiene l’autore.
Il corpo è infatti elemento centrale dell’opera. Alcide si spoglia in queste pagine, lo fa più volte, si mette a nudo e non lesina dettagli di quel suo fisico impacciato e ingombrante che ripudia lo specchio, che richiede costanti manutenzioni pena la prossima raffica di input destabilizzanti. È un tempio da accudire, saturare, sfinire, sfidare, drenare, indagando centimetro per centimetro, scandagliando l’epidermide della gola o la base dello scroto, in cerca di quel bozzo sospetto o di un neo fuori posto mentre lo spauracchio della Nera Mietitrice si sfrega le mani e se la ride al cospetto di quel mortificante martirio.
«Se penso al mio corpo nella bara, un po’ mi viene un gran desiderio di cenere e un po’ me la rido, dal momento che prima delle fiamme dovrà comunque esserci il cerimoniale della vestizione. Io ho il terrore che mi si guardi il corpo dopo morto. Il corpo nudo con gli addominali rilassati e i bicipiti lessi, e con addosso le mani di qualcuno che possa dire: con tutta quella palestra, ero convinto che questo ragazzo fosse più tonico… era già in cut quando è morto o era ancora in massa?»
Ce n’è tanta di morte, in questo libro. È una scimmia bastarda che afferra le scapole e ficca i denti nelle meningi, che rimanda ai ricordi del fratellino deceduto prematuramente, il cui corpicino martoriato torna nelle notti solitarie per ricucirsi come un macabro bambolotto, assieme ai ricordi rurali che puzzano di pomodori cotti, una nonna bisognosa di attenzioni, una gatta diffidente e un nonno che non s’è fatto scrupoli a mostrare la crudezza della sopravvivenza, facendo strage di corvi davanti a un ragazzino che già a nove anni era costretto a cantilenare costantemente «dindindin!» per non “mandare l’anima a carte quarantotto”.
«Vedersi impazzire è fare buon viso ai pensieri peggiori prima di crollare del tutto, è inventarsi sentieri sempre diversi per dare un giro di volta alle cose. […] È fare a botte con la luce».
Si diceva poco sopra della nudità e dell’intimità. Ecco, per chi scrive, la parte più inspiegabile e preziosa di questo romanzo non risiede tanto nella sua autenticità o sincerità (non conosco personalmente l’autore e, anche se nei capitoli finali dichiara lui stesso di aver inventato solo la presenza delle montagne bianche nel suo soggiorno a Carpi, per quanto mi riguarda, potrebbe anche trattarsi di sola fiction e ciò non sposterebbe di una virgola il peso specifico dell’opera), bensì in una rara caratteristica: quella di far evolvere la complessità della prosa in modo progressivo, senza mai compromettere, nemmeno per un istante, l’intensità del legame emotivo creato fin dalle prime righe.
Detto in soldoni: Pierantozzi scrive divinamente. Ne è consapevole (come si evince dalla manciata di capitoli dedicati all’importanza delle parole nella sua formazione e nel trattamento del suo scompenso, ancor prima che nella sua esistenza) eppure, questa consapevolezza non appesantisce mai la pagina: il suo talento brilla, ma senza mai abbagliare. «Affinché la scrittura diventi una conversazione a una voce, devo prima scacciare dalla testa le voci dei fantasmi. Le espettoro a colpi di tosse».
C’è un capitolo preciso in cui la situazione descritta suona come una metafora più grande. Mi riferisco all’episodio del camion che sbanda fuori strada facendo cadere una manciata di libri sul nostro. «Libri arancioni che cadevano nel vuoto, a una trentina di metri dalla mia testa, planavano sfogliandosi: fruscio di carta, una o due rotazioni nel primo tratto di volo, poi si aprivano a carciofo, facevano un tonfo acquoso nella brecciaia». La situazione, depurata di ogni aura poetica, traccia una netta linea di demarcazione tra l’Alcide di prima e quello di oggi. Sarà infatti proprio la parola, ancor prima della medicina, a fornire una nuova chiave di lettura del quotidiano.
«Mi attirava che le parole non fossero organizzate in un ragionamento. Potevo pescarne una a caso e leggerla senza dover seguire per forza l’ordine alfabetico. Quando leggevo cosí, il ticche e tacche dei pensieri si fermava, i mille canali aperti della mia mente si chiudevano, e un senso di ristoro mi penetrava. Non capivo il significato di quasi nessuna parola. Non m’interessavano quelle facili, «casa», «topo», «ospedale», mentre le alternative dei sinonimi mi sconvolgevano.»
È ciò che indirettamente è chiamato a fare anche il lettore: sconvolgersi nella bellezza di riscoprire un termine inusuale o sconosciuto. Io stesso mi sono fermato più volte a cercare il significato di alcuni termini in balìa di una frenesia conoscitiva del tutto nuova, perché spinta non da una mera esigenza stilistica, bensì da un bisogno intrinseco a non perdere la mano dell’autore: Pierantozzi non ha bisogno di farci capire che sa scrivere, basta leggere un qualsiasi paragrafo di questo testo per rendersene conto. Il suo bisogno di padroneggiare la parola equivale al nostro tentativo di correre verso un’uscita di emergenza al primo squillo di allarme o al cercare una ringhiera salda quando il vento ci sembra spingere troppo vicino al bordo.
«Se si potesse imbottigliare questo buio, mi viene da pensare, se si potesse mettere la bottiglia sotto il sole, sono sicuro che la luce, anziché smorzarlo, lo esalterebbe».
È in questo che si cresce insieme: autore e lettore, in un’alternanza di capitoli che non seguono una linearità cronologica ma un ritmo dialogico, fatto di rivelazioni progressive, mai forzate. Non c’è il ricatto emotivo della lacrima facile, ma una capacità sottile di stemperare il dolore, spesso virando verso un registro tragicomico (come nell’episodio in cui l’autore manda in tilt il climatizzatore della palestra) che finisce per mettere ancora più in luce i meccanismi sociali entro cui, sani o malati che siamo, ci muoviamo ogni giorno, spesso senza nemmeno accorgercene.
Parlar del proprio parlando a tutti. Parlar del proprio lasciando un pezzetto di sé al mondo: in questo vi è la potenza, in questo vi è la bravura. Alcide Pierantozzi ci mostra una voragine che mette i brividi tanto è profonda, nera e fa riflettere, senza ipocriti abbracci bensì con la freddezza di un resoconto autistico che in qualche modo -magico e meraviglioso- riesce comunque a commuovere, avvicinare, nonostante i piani, nonostante le distanze, le mura.
Nel decennio dei cabaret mediatici sostenuti a colpi di perbenismo, (finti) elogi e sviolinate politically correct, Lo sbilico si assesta con il suo ingombrante peso specifico in quella narrativa (non chiamatela “pornografia”, ve ne prego) del dolore che passa dal malessere fisico (Everyman, Philip Roth) a quello psicologico (L’uomo che trema, Andrea Pomella), inerpicandosi nei vicoli più autobiografici (Svegliami a mezzanotte, Fuani Marino). Mettendo il punto di vista dell’outsider al centro di tutto, sfidando e sfondando l’intreccio e il costrutto sociale a colpi di mannaia. Senza preoccuparsi di risultare scomodo, a tratti urticante, come le controindicazioni di un bugiardino medico ma sempre limpido, al pari di quelle arcaiche, utopiche, conversazioni sorrette sul perno della schiettezza.
La sua “vergogna di essere solo” è la vergogna di un individuo incapace di trovare supporto in un sistema sanitario strozzato dai ruoli, in una famiglia asfissiata dalla malattia, in un padre Negazionista che ha smarrito le parole, in una società che pur di starlo a sentire alza il volume della musica al massimo, sia mai che il silenzio, per una volta, possa metterci al cospetto di qualcosa di nuovo, ancor prima che “diverso”.
Eppure, nonostante i bassi delle casse sparati a palla, la voce de Lo sbilico è destinata a imporsi. Se non oggi, di certo negli anni a venire. Al pari delle opere che riverberano di una voce unica e riconoscibile, al pari di quei libri che una volta finiti vorresti tenere a portata di mano sullo scaffale, nella borsa, in un posto vicino dove sai che potrai trovarli rapidamente quando toccherà tener testa alla vita “attraverso il ludo stregato della scrittura”.
Stefano Bonazzi
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Lo sbilico
Alcide Pierantozzi
Einaudi
19,50 euro — 240 pagine