Chi è Uri? Ve lo domanderete di continuo leggendo le pagine del nuovo romanzo di Alex Ezra Fornari (quindicesimo titolo della collana Vertigo di Funambolo Edizioni).
Chi è? Ancor meglio, cosa rappresenta, questo benedetto Uri?
Ogni indizio rivelato, ogni suo comportamento inaspettato, ogni gesto incomprensibile e ogni frase pronunciata dallo scaltro tredicenne rimanda a una conoscenza, un’esperienza e una consapevolezza che non possono coesistere in un corpo così acerbo (lo ripetono più volte anche gli stessi protagonisti). Il seme del dubbio è presto piantato e il lettore, catturato nel giro di poche pagine.
Fornari è bravo a modellare la realtà come la terra umida di una fossa scavata di fresco, questo l’avevo già capito nel suo romanzo precedente (Qualcosa di naturale, Wojtek edizioni) perché anche là si parlava di periferie, gioventù sfrontata e vite intrise di quel male nero che cresce e prolifera nel cono d’ombra di un appartamento silenzioso.
Simbolica e metaforica è già la potente immagine d’apertura, con il protagonista Ferrante stordito dalla chimica che decide di scavarsi una fossa per farne la sua nuova dimora. Uri appare sul bordo della sua nuova dimora all’improvviso, sulle prime potrebbe essere scambiato per una visione, uno spiritello molesto, nulla ci è dato a sapere su chi sia e cosa voglia dal nostro eppure il suo eloquio molesto e invadente sarà in grado di catturare entrambi (protagonista e lettore) nel giro di poche battute. Uri non segue le regole, non ha orari, non sappiamo da dove provenga e perché scelga proprio la compagnia di Ferrante tra le tante anime perse che una città anonima può partorire e Fornari non ci è d’aiuto: bandisce ogni spiegone, sceglie il campo dell’ambiguità, preferisce concentrarsi sulle azioni, sui corpi, su dialoghi perennemente in bilico tra filosofia e sfacciataggine. È un terreno scivoloso e rischioso, che minaccia di franare da un momento all’altro, di sfociare nella parodia o nel feticcio gratuito non fosse che l’abilità migliore dell’autore parmigiano è proprio quella di riuscire a restare sempre in perfetto equilibrio tra le pareti sdrucciolevoli e sguscianti di questo limbo e, tra schiaffi verbali o carezze simboliche, compiere l’impresa più ardua di “creare casa”.
Ferrante è un’anima persa, un cinquantenne vedovo e senza lavoro che si trascina al pari di Milena, una donna che abita poco distante e passa le giornate tra la bottiglia e l’oblio domestico. I due non si conoscono ma sarà proprio l’apparizione del giovane fauno dall’animo libertino e la lingua tagliente, che adora camminare scalzo e perdersi nella corrente di un fiume, a farli conoscere, fiutare, a risvegliare in entrambi lo smarrito interesse per le cose semplici come una cena assieme o una carezza, che un tempo ne alimentava le vite.
L’impressione perenne è che vi sia un piano più grande, che la metodicità con cui agisce il giovane non possa esser spinta solo dall’impulso, come viene più volte ripetuto all’interno delle pagine, per quello che fa e ciò che dice, Uri è ben diverso da qualsiasi altro coetaneo. Uri non si fa scrupoli a spogliarsi e scoprire i corpi altrui, a stuzzicare e bacchettare, Uri è un folletto che si muove per contrasti: ingenuo come un bambino, onnisciente come un eremita, Uri è la fiamma spregiudicata che riporta calore alle braci sopite di esistenze infertili la cui cenere ha coperto ogni passione, amore, prospettive.
Sarebbe tutto perfetto e stimolante non fosse che Uri è anche altro. Oltre i confini della sua folgore si celano ombre mutevoli e pericolose quanto le stesse pagine di quel quaderno rosso in cui Cinzia, l’ex compagna di Ferrante passata a miglior vita, ha nascosto i suoi segreti più intimi e urge metterlo subito in chiaro, sono parole, quelle del suo diario, tra le più riuscite e dolorose dell’opera intera. Cinzia ci parla di una depressione che si insinua lenta nelle dinamiche del quotidiano, del sentirsi soli anche all’interno di una coppia, il suo malessere è una serpe che si muove silenziosa tra le piccole delusioni e i silenzi di una relazione come possono esserlo tante, forse troppe.
Nel costante senso di angoscia latente destinato a crescere con il procedere della trama, Alex Ezra Fornari impersona la sapiente maschera di un teatro le cui luci e ombre (non a caso Uri in ebraico significa “mia luce”) si alternano dando forma a una danza dal ritmo costante e dalle movenze imprevedibili.
In Uri c’è tanto, forse troppo, ogni capitolo, soprattutto quelli dell’atto finale, aprono porte su territori liminali e ipotetiche teorie di cui a volte ci viene mostrato solo un accenno ma l’impressione è che tutto ciò sia voluto dall’autore per fomentare l’atmosfera magica e claustrofobica dell’asfissiante estate in cui si muovono i nostri.
All’autore non importa fornire risposte, Alex vuole giocare con le nostre emozioni, le più represse, ambigue, nascoste. Al pari del suo giovane paggetto, non si piega mai alla facile retorica, ancor meno si lascia spaventare dall’azzardo: il suo scopo è portare il lettore proprio lì, in quel punto esatto dell’eclisse, dove ogni ombra perde la sua forma e del corpo non resta che un mero involucro.
In Uri c’è tanto, tocca ripeterlo per non cadere nel fraintendimento, ma è un tanto che porta altrettanta bellezza: chi scrive ne ha sottolineato ben più di un paragrafo e vi sono passaggi di una maestosità prosaica e una sensibilità fuori dagli schemi consoni che dimostrano ancora una volta le potenzialità di questo, ahimè, sottovalutato autore.
Uri sa essere cupo, angosciante ma anche luminoso e generoso, è una strana creatura che ti si insinua sottopelle per lavorare gradualmente nei giorni: un viaggio nell’abisso della depressione umana ammaliante, perverso, coraggioso, liberatorio e, come lo sono tutti i viaggi, un percorso in grado di portare caos e mutamento che non si può ridurre al semplice binomio amore/odio.
Uri è altro, Uri è altrove.
Stefano Bonazzi
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Uri
Alex Ezra Fornari
Funambolo Edizioni
16,00 euro — 280 pagine