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Alex Taylor anteprima. Il giardino di marmo

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Alex Taylor, dopo il debutto con la raccolta di racconti The Name of the Nearest River (2010) arriva finalmente in libreria con il suo primo romanzo Il giardino di marmo, edito da Clichy e tradotto da Giada Diano. Un noir spietato la cui scrittura, poetica, rivela quelle pieghe più profonde e torbide dell’essere umano. Scorrono implicabili i giorni della settimana, intitolandone i capitoli del libro, ambientato nel Kentucky occidentale. E “sfilacciata sul fiume Gasping”, come acqua fangosa e colma di “detriti galleggianti che cozzano nelle secche”, prende avvio la vicenda del protagonista, il diciannovenne Beam Sheetmire, figlio di Clem e Derna, “viaggiatore disorientato” in un paese che non (ri)conosce. La sua esistenza, dopo l’omicidio accidentale di uno sconosciuto, massiccio e dai “sottili capelli a spazzola”, sul traghetto di suo padre Clem, è un’immersione totale nella fuga. Giorni e notti in fuga dalla giustizia, dalla sua “profonda solitudine che barcollava dentro di lui con passi pesanti e minacciosi”, dal suo passato che ritorna macabro con “lo sguardo fisso e gli occhi fermi, uguali agli occhi completamente vacui di un cherubino di marmo”. Un eco al lirismo vibrante di James Lee Burke e al realismo epico di Cormac McCarthy.

Claudia Caramaschi

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Beam si svegliò al crepitio di un fuoco che faceva scoppiettare i legnetti di noce aggrovigliati, l’oscurità circostante piena dei rumori dei grilli e dei fremiti degli alberi nel vento.

Era disteso sulla schiena sopra un telone verde. Qualcuno gli aveva adagiato la testa su un sacco pieno di trucioli di pino, e gli aveva lavato il sangue dal viso con del sapone alla pomice che gli aveva lasciato le guance pulite e screziate di granelli lindi.

Pete, il vecchio coglitore di ginseng, era seduto di fronte a lui su un tronco di olmo caduto, e badava al fuoco con uno spiedo a due denti. Le fiamme si diffondevano verso l’alto attraverso una griglia di metallo appoggiata sulle rocce piatte del focolare e lambivano i lati di una latta di fagioli, ma quello che stava cuocendo all’interno non erano fagioli, dal momento che odorava vagamente di lucido da scarpe. Alla luce del fuoco, i lineamenti spossati di Pete sembravano delicati e quasi angelici, al punto che Beam si chiese se non fosse entrato in un paradiso scadente e assurdo dove la notte e il fuoco erano bandiere di una salvezza sgangherata.

Beam girò la testa e scrutò l’oscurità. Oltre il margine della luce del fuoco, intravide le sagome delle pietre tombali. Marmo in sfacelo e miscela di calcestruzzo, cenotafi artigianali dei poveri e non abbienti. Cespugli di coda di volpe e iucca crescevano attorno ai cippi, e un cedro secco era caduto sopra una delle tombe facendo crollare la lapide in un caos di frammenti sparpagliati sul suolo diventato nero.

«Sei in un cimitero» disse Pete. «Nel caso te lo stessi chiedendo».

Beam si allontanò i capelli dagli occhi. Tentò di mettersi seduto, ma era troppo doloroso, così si distese nuovamente, guardando in alto il cielo notturno che, disseminato di stelle, sembrava un frammento di vasellame carbonizzato, con crepe di luce tumultuosa che zigzagavano nel vuoto e scie di comete come ossa di dita a sorreggere il bacino buio della volta celeste spaccata. Lassù le stelle si spegnevano. I pianeti venivano abbattuti, schizzando in ricami arcuati e consumandosi in pennacchi indistinti che brillavano e poi sparivano, ma lui era qui in questo mondo accanto a un fuoco nella notte tiepida.

«Vuoi seppellirmi qui fuori?» domandò Beam.

Le spalle di Pete sussultarono quando rise sommessamente. «No» disse. «Sei conciato male, ma ancora ben lontano dall’essere morto». Appoggiò i gomiti sulle ginocchia e intrecciò le mani. «Hai dolore?».

Beam si appoggiò le mani sul petto. Gli faceva male la testa e un fiotto di dolore pareva scorrergli dietro gli occhi, e forse aveva qualche costola rotta visto che a ogni respiro i suoi polmoni sembravano un paio di vecchie fisarmoniche logore.

«No, non ho dolore» disse. «Neanche un po’».

Pete spinse un legno verso il centro del fuoco con uno stivale. «Continua. Raccontane un’altra».

Il fumo esalato dal barattolo si fece più denso e giunse fino a Beam che ne avvertì l’odore intenso e rancido.

«Cosa stai cucinando?» domandò.

«Unguento».

«Unguento?»

«Sì». Pete si acquattò avvicinandosi al fuoco e prese uno straccio dalla tasca posteriore dei pantaloni. Lo avvolse attorno al barattolo di fagioli e sollevò la lattina dalla griglia. Un po’ di liquido, che era di un denso marrone sciropposo, traboccò lateralmente finendogli sulle dita e lui imprecò e si ficcò il pollice in bocca. «Bollente» disse. Poi fece una smorfia e sputò. «Ma non particolarmente gustoso».

Sul fianco aveva una sacca da cacciatore che sembrava fatta di pelle di vitello. Pete ribaltò la linguetta della sacca e tirò fuori un anello di misurini di alluminio, chinandosi sul fuoco e strizzando gli occhi finché non scelse quello giusto. «Mia figlia dice che devo operarmi di cataratta ma io dico che il buon senso compensa una doppia dose di cecità ambulante» disse. «Naturalmente, i miei occhi son messi così male che devo mettermi gli occhiali per andare a dormire».

Avendo finalmente trovato il dosatore giusto, prese un sacchetto pieno di quello che sembrava peperoncino macinato. Ne misurò una dose e la mescolò all’unguento. Raffreddandosi il liquido si addensò acquisendo la consistenza e il colore del bitume ed emanando un odore intenso e legnoso.

«Appena si raffredda abbastanza, ti medico» disse Pete.

«Già» disse Beam. «Raccontane un’altra».

Pete lo guardò attraverso il fuoco. «Questo unguento è un ottimo rimedio» disse. «Nessuno ti obbliga a prenderlo ma ti sconsiglio di non farlo. Ti hanno conciato parecchio male al Daryl’s e questa roba ti aiuterà a guarire».

«Cosa c’è dentro?».

Pete sollevò un bricco di latte da un gallone pieno d’acqua e ne versò un po’ nel barattolo, facendo levare un vapore denso. «Oh» disse, «qualche salamandra e qualche rospo. L’osso penico di un procione con la schiena storta. Un po’ di diluente per vernici per l’aroma».

Beam fissò il vecchio. Non era molto in vena di scherzare al momento. Gli ultimi giorni avevano fatto schizzare la sua mente attraverso un labirinto elettrico e adesso i suoi nervi erano come le estremità logore e sfilacciate di cavi in una casa lasciata vuota troppo a lungo. Non sapeva che i guai potessero effettivamente braccare un uomo, ma sembrava che gli stesse succedendo proprio questo, visto che ogni sua mossa non faceva che farlo sprofondare sempre di più nelle sabbie mobili di cattive notizie e malefatte. All’improvvisò pensò a come lo sconosciuto sul traghetto avesse detto che il fiume non aveva fondo. Si domandò se i guai potessero avere una fine, e se lui l’avrebbe mai potuta vedere.

Il fumo del fuoco gli aveva seccato la bocca e allungò una mano verso il bricco del latte. «Posso avere un po’ d’acqua?». Pete prese il bricco e lo agitò e l’acqua sciaguattò al suo interno. «Questa?» domandò.

«Sì, fammi bere».

«Certo. Quando vuoi, è proprio qui».

Pete appoggiò nuovamente il bricco a terra e sorrise. «Ripensandoci, forse non sei così in forma da riuscire ad alzarti e prenderti l’acqua da solo. Forse tutto sommato faresti meglio a usare quest’unguento». Fissò Beam, aspettando di vedere se riusciva a sollevarsi da terra per prendere il bricco del latte. Quando non si mosse, Pete sollevò il bricco e si avvicinò al luogo in cui giaceva Beam e glielo porse. Beam svitò il tappo e bevve l’acqua fredda con lunghi sorsi rigeneranti.

«Potevano davvero spedirti al creatore, tesoro» disse Pete dopo che Beam ebbe finito e gli ebbe reso il bricco. Si sedette sul tronco di olmo e appoggiò il bricco tra i piedi.

«Perché siamo in un cimitero?» domandò Beam.

«Dovevi essere da qualche altra parte?»

«A dire la verità, non era quello che avevo in mente» disse.

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