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Alfred Döblin anteprima. Berlin Alexanderplatz

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A distanza di novantasei anni dalla sua prima pubblicazione e a novantaquattro dall’edizione italiana, da oggi nelle librerie fisiche e virtuali è possibile trovare una nuova versione di Berlin Alexanderplatz.

Il capolavoro di Alfred Döblin, uscito per la prima volta nella Germania del 1929, viene infatti pubblicato da Mondadori nella collana Oscar Moderni (pagg. 496, € 20,00) in una nuova veste grafica e con una nuova traduzione, opera quest’ultima della bravissima Giusi Drago.

Finora l’unica traduzione rintracciabile sul nostro territorio era quella del 1931 a firma Alberto Spaini.

Traduttore colto ed esperto, Spaini rendeva nella nostra lingua in maniera per la sua epoca impeccabile un romanzo che possiamo definire “di formazione”.

Nello stesso tempo e per certi aspetti, lo offriva in una forma che oggi valuteremmo come “parzialmente travisata”, per ragioni di posizioni ideologiche e di politica culturale.

Questo accadeva perché il capolavoro di Döblin è, sì, “uno dei grandi romanzi urbani del Novecento”, ma ancora di più si offre come una complessa polifonia di voci, parole, dialetti berlinesi. Per certi versi può apparire anche come un sostanzioso compendio di glottologia applicata alla lingua tedesca.

Il risultato perseguito dall’autore è quello allora di fondere in un crogiolo la lingua madre con le parlate, con i pensieri del popolo di Berlino, a cui si aggiungono i rumori e i suoni delle macchine, “versetti biblici, statistiche, canzonette”, la memoria della civiltà teutonica e quelle che possiamo definire come le necessità del qui e ora. Tutto reso egregiamente nella nuova traduzione.

Döblin crea perciò un romanzo che vuole essere opera-mondo e che dichiara il suo aver percepito le nuove istanze letterarie da cui l’Europa è percorsa tra fine Ottocento e inizi Novecento.

Detto in modo più spiccio, Berlin Alexanderplatz è un racconto potente, al cui centro batte forte il senso dell’epos.

Eppure tutto quello che ne crea struttura e anima lo sottrae proprio alla parte epica, come ebbe a dire Walter Benjamin. Per il filosofo dell’Angelus novus Döblin fa di Berlin Alexanderplatz prima di tutto lo spaccato di una società, quella tedesca, fra rinascita e caduta, ancora presa a curare le ferite del Primo conflitto mondiale e non ancora pronta ad affrontare il sorgente orrore nazista.

Meraviglioso come all’autore riesca nelle quasi cinquecento pagine del racconto di orchestrare il senso di una società con il senso di una metropoli, in questo caso Berlino, tirandone fuori la musica interiore. Nei nove “libri” che compongono il romanzo dichiara la sua grande capacità a mostrarle (e motivarle) come entità unica.

Crea cioè un inno alla capitale della Germania, alla sua piazza principale, riconoscendo quanto vadano di pari passo il desiderio di redenzione e il peccato nei corpi come nei palazzi come nelle macchine che la fanno vivere.

A questo punto, forse servirebbe conoscere la trama per apprezzare meglio il romanzo. Però, come scriveva Rainer Werner Fassbinder, unico regista ad aver osato adattare questo libro per il piccolo schermo nel 1980 uscendone a testa alta, “A chi vuol conoscere la storia di Berlin Alexanderplatz si dovrebbe rispondere onestamente che di per se stessa la storia non è gran che”.

È in effetti una storia semplice, di redenzione dal peccato, di nuova caduta e di ulteriore, possibile rinascita. Vi si racconta “dell’ex operaio addetto ai trasporti Franz Biberkopf”, che esce di prigione dopo aver scontato una condanna per omicidio e giura di mantenersi onesto, senza però riuscirci.

Per Fassbinder il non riuscire a “rispettare questo proponimento è piuttosto una successione di piccole storie dissolute, in parte incredibilmente brutali, ognuna delle quali potrebbe costituire materiale pornografico per riviste oscene”. Dunque “il clou di Berlin Alexanderplatz non è insomma la sua trama.”

Probabilmente sono i personaggi.

Ma non solo Biberkopf e Reinhold, bensì tutto quello che transita nelle pagine del libro e ha diritto di rappresentazione.

Credo perciò abbia ragione Benjamin quando afferma che “il principio stilistico di questo libro è il montaggio”. Perché “il montaggio scardina il «romanzo», lo scardina sia nella struttura che nello stile”.

Così facendo rende Berlin Alexanderplatz polifonico, lo rende ferocemente tragico, lo rende umano, terribilmente umano.

Sergio Rotino

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Prospera la tratta delle bianche

Una sera quello con il cappotto da soldato, Reinhold si chiamava, si mise a parlare o a balbettare di più, gli usciva più rapido e più liscio, insultava le donne. Franz era piegato in due dal ridere, il giovanotto prendeva le donne proprio sul serio. Non se lo sarebbe aspettato da lui; anche ’sto qui ha ’na punta di pazzia, qui tutti hanno ’na punta di pazzia, uno lì, l’altro là, nessuno è del tutto a posto. Reinhold si era innamorato della moglie di un cocchiere, l’aiutante vetturino di una birreria, a causa sua lei se l’era filata dal marito, e la croce era che Reinhold adesso non la voleva più. Franz rise dal naso fin quasi a rantolare, il giovanotto era troppo buffo: «Mollala». Quello balbettava e lanciava occhiate terribili: «Mica è così facile. Le donne nol capiscono, gnanche se glielo metti per iscritto». «Be’, e te gliel’hai scritto, Reinhold?» Lui balbettò, sputò e si contorse: «Ripetuto cento volte. Dice che non capisce. Che devo essere pazzo. Una roba del genere lei non la capisce. Quindi dovrò tenermela fino alla morte». «Be’, forse.» «È quello che dice lei.» Franz fece una risata colossale, Reinhold si irritò: «Cristo, non fare lo stupido». No, Franz non si capacitava, un giovane così sveglio, con la dinamite nell’impianto del gas, e ora se ne sta lì a suonare la marcia funebre. «Toglimela di torno» balbettò Reinhold. Franz batté divertito sul tavolo: «E ’ndopo che me ne faccio?». «Be’, ’ndopo puoi piantarla.» Franz era entusiasta: «Ti faccio ’n favore, puoi contare su di me, Reinhold, ma a te le pastoie te le rimetteranno». «Prima guardala e poi mi dirai.» Erano entrambi soddisfatti.

Il giorno dopo, a mezzogiorno, Fränze si presentò da Franz Biberkopf. Appena lui sentì che si chiamava Fränze, gli venne il buonumore; erano fatti per stare insieme, visto che lui si chiamava Franz. Doveva consegnare a Biberkopf un paio di calzature robuste da parte di Reinhold; è il compenso di Giuda, si disse Franz ridendo, dieci denari. E per giunta me le porta proprio lei! Quel Reinhold l’è ’n gran sporcaccione. E un compenso vale l’altro, pensò, e la sera andò con lei a cercare Reinhold che, come convenuto, non si fece trovare, per cui accesso di rabbia della Fränze e ninnananna rilassante a due nella stanza di lui. La mattina dopo, la moglie del cocchiere si presentò da Reinhold, che non balbettò nemmeno: No, che non stia a darsi pensiero, lei non ha bisogno di lui, ha un altro. E prima che gli dica chi è, ne passerà di tempo. Appena lei esce, Franz si presenta da Reinhold con i suoi nuovi stivali, che non sono più troppo grandi perché ha messo due paia di calze di lana, e si gettano l’uno nelle braccia dell’altro e si danno pacche sulla schiena. «Potrò ben farti un favore» disse Franz rifiutando tutti gli onori.

La moglie del cocchiere di slancio s’era innamorata pure di Franz, aveva un cuore elastico, ma fino a quel giorno non se n’era resa conto. Lui si rallegrava che lei si sentisse in possesso di questa novella forza, perché era filantropo e conoscitore del cuore umano. Osservava con piacere come lei mettesse radici da lui. Conosceva la trafila: all’inizio le donne stanno sempre a trafficare con mutande e calze rot te. Ma il fatto che al mattino lei gli pulisse immancabilmente gli stivali, proprio quelli di Reinhold, gli provocava ogni volta uno scoppio di risa. Quando lei gli chiese perché rideva, lui rispose: «Perché sono così grandi, sono troppo grandi per una sola persona. Ci entriamo tutti e due». Ci provarono anche, a infilar dentro un piede ciascuno, ma era un’esagerazione, non funzionò.

Ora Reinhold il balbuziente, il vero amico di Franz, aveva una nuova ragazza che si chiamava, o diceva di chiamarsi, Cilly. Franz Biberkopf era abbastanza indifferente alla cosa, qualche volta gli capitò anche di vedere la Cilly in Prenzlauer Straße. Ma fu colto da un oscuro sospetto quando il balbuziente, dopo circa quattro settimane, chiese di Fränze e se Franz l’avesse già cacciata via. Franz rispose che l’era stramba, ma divertente, e all’inizio non capì. Reinhold allora affermò che Franz, in verità, aveva promesso di liberarsene presto. Ma Franz negò, era ancora troppo presto. Una nuova sposa voleva trovarsela in primavera. Aveva già visto che Fränze non aveva vestiti estivi e lui non poteva comprargliene; perciò se ne andrà, appunto, in estate. Reinhold ribatté pignolo che, a dirla tutta, Fränze aveva già un’aria da stracciona e che non indossava veri abiti invernali, ma più che altro abiti di mezza stagione, non adatti alla temperatura attuale. A quel punto ci fu una lunga conversazione sulla temperatura, sul barometro e sulle previsioni del tempo, e consultarono i giornali. Franz non demordeva, non si può mai sapere che tempo farà, ma Reinhold prevedeva un gelo tremendo. Solo allora Franz capì che Reinhold voleva sbarazzarsi anche di Cilly, che aveva una finta pelliccia di coniglio. Infatti continuava a parlare della magnifica pelliccia finta. “Cosa me ne faccio io del suo coniglio arrosto,” pensò Franz “com’è assillante ’sto qui.” «Diavolo, ma te sei proprio suonato, non posso caricarmene due, ce n’ho de già una sul groppone, e gli affari mica fioriscono come i lillà. Da ’ndove li prendo i quattrini, mica che li rubo?» «Due non ti servono. Quando mai ho detto due? Non mi aspetto certo che un uomo se ne prende due. Non sei mica turco.» «È quello che dico anch’io.» «Vabbè, io non l’ho detto. Ti ho mai detto di caricarti di due? Perché non tre? Dai, su, buttala fuori – non ce l’hai uno?» «Uno chi?» Cos’è che s’inventa stavolta, il tipo, ci ha sempre dei tarli in testa. «Uno che può togliertela di torno, la Fränze.» Ecco che il nostro Franz supercontento gli allunga un colpo sul braccio: «Ma sai che sei scafato, te, si vede che hai fatto le scuole alte, diavolo, mi metto sull’attenti. Facciamo ’na catena di scambi, eh, ’na bella cresta, come durante l’inflazione?». «Be’, perché no, tanto di ragazze ce n’è troppe.» «De cisamente troppe. ’Orca miseria, Reinhold. Sei ’n furbone, mi lasci senza parole.» «Vabbè, e allora?» «Ci sto… l’affa re è buono. Ne cercherò uno. Ne troverò uno. Mi sento ’no stupido davanti a te! Mi mozzi il fiato.»

Reinhold lo guardò. Non ha tutte le rotelle a posto, questo qui. È proprio un gran coglione, ’sto Franz Biberkopf. Pensava davvero di potersene accollare due alla volta?

E Franz era così entusiasta dell’affare che andò subito in cerca di Ede, l’omino con la gobba, nella sua tana: se voleva una ragazza, lui gliela cedeva, ne aveva già un’altra, e voleva liberarsi della prima.

A quello gli cascava a fagiolo, aveva voglia di prendersi una pausa dal lavoro, così aveva l’indennità di malattia e poteva un po’ curarsi, lei poi magari andava a fare la spesa per lui e passava pure alla cassa. Però piazzarsi fissa da me, disse subito, questo no, non va.

L’indomani, a mezzogiorno, prima di rimettersi in strada, Franz piantò una grana d’inferno alla moglie del cocchiere per niente, per niente di niente. Lei esplose. Lui urlò con gran soddisfazione. Dopo un’ora, era tutto a posto: il gobbo la aiutava a fare i bagagli, Franz era scappato via furioso, la moglie del cocchiere si trasferì dal gobbo perché non sapeva dove andare. E subito il gobbo andò dal suo medico, si dichiarò malato e la sera i due sparlavano di Franz Biberkopf.

Ma ecco che Cilly si fece viva con Franz. Cosa vuoi, bimba mia? Hai la bua, dove ti fa male, ah perbacco. “Devo solo darle questo collo di pelliccia.” Franz tiene in mano il collo di pelliccia, con aria da intenditore. Roba fina. Dove le scova il giovanotto tutte ’ste belle cose? L’ultima volta erano solo stivali. Cilly, l’ignara, belò candida: «Dev’essere molto amico del mio Reinhold, vero?». «Oddio sì» rise Franz. «Ogni tanto mi manda cibo e vestiti, cose che gli crescono. L’altra volta mi ha mandato degli stivali. Solo stivali. Aspetti un attimo, può giudicare anche lei.» Purché non se li sia presi Fränze, quella stupida carogna; ’ndove sono, ah, eccoli. «Vede, signorina Cilly, me li ha mandati l’ultima volta. Che ne dice di queste bocche di cannone? Possono starci dentro tre persone. Ci infili il suo piedino.» E lei ci entra dentro, ridacchia, è vestita come si deve, una creatura da leccarsi i baffi, è terribilmente carina nel suo cappotto nero con i bordi di pelliccia, che cretino quel Reinhold a cacciarla via, e dove le pesca tutte ’ste ragazze carine. Ed eccola lì, nelle bocche di cannone. Franz ripensa alla situazione precedente: sono abbonato alle donne come sono abbonato al guardaroba mensile e, tolta la scarpa, sta già infilando un piede dietro di lei nello stivale. Cilly grida, ma la gamba di lui entra, lei vuole scappare, ma saltano tutti e due e lei deve portarselo appresso. Poi, vicino al tavolo, lui si tuffa con l’altro piede nella bocca di cannone. Si stanno ribaltando. Si ribaltano, risuonano dei gridolini, signorina, freni la sua immaginazione, lasci che i due se la spassino, è una consultazione privata, per gli iscritti alla cassa malattie c’è spazio solo più tardi, dalle cinque alle sette.

«Reinhold mi aspetta, Franz, ma tu non dirgli niente, per favore, ti prego.» «Ma certo, gattina.» E di sera la vide in azione, la piccola frignona. Di sera si lamentano sempre alla grande, ma è anche una personcina molto graziosa, ha un bel guardaroba, il cappotto, che è ancora quasi nuovo, un paio di scarpe da ballo, si porta dietro tutto, accidenti, Reinhold t’ha regalato tutta ’sta roba, quello compra a rate di sicuro.

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