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Ana Marìa Matute anteprima. Ricordo di un’isola

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Ana Marìa Matute. Ricordo di un'isolaAmbientato durante la guerra di Spagna, il romanzo Ricordo di un’isola di Ana Marìa Matute, vincitrice del Premio Cervantes e più volte candidata al Nobel, è il primo tassello della trilogia Los Mercaderes. Uscito per la prima volta nel 1959, Ricordo di un’isola viene ora riproposto da Fazi con la nuova traduzione di Maria Nicola.

Vi si narrano le vicende di un gruppo di isolani, perlopiù ragazzini, di cui alcuni si ritrovano forzatamente confinati a Minorca a causa dello scoppio della guerra civile sul continente. Nonostante i clamori della battaglia arrivino attutiti tramite i racconti delle donne e le lettere dal fronte, si respira un’aria tesa, infarcita di altre guerre che sotterraneamente vi si combattono. Anche tra bande di adolescenti bisogna decidere da che parte stare, quali sono gli alleati giusti e quali no.
Matia, protagonista e io narrante, ha quattordici anni e dalle prime pagine attraverso la sua memoria ricostruisce tassello dopo tassello vicende lontane nel tempo così potenti da risultare in lei del tutto attuali. Come fosse sull’isola, a mostrarcene le contraddizioni e i segreti, antri nascosti da perlustrare e indagare, e segreti da proteggere. Forti i moti dell’anima che scuotono lei e gli altri abitanti tra cui Manuel, Il Cinese, la zia Emilia, i fratelli Taronjì e soprattutto il cugino Borja, compagno di scorribande e fughe dall’attenta vigilanza della Nonna, che controlla non solo la casa, ma tutta l’isola scrutandola col suo binocolo da teatro incrostato di falsi zaffiri fino alle case oltre il declivio e il mare immobile dove non passano le navi. E ancora i piccoli furti di liquori e sigarette, le bugie non sempre a fin di bene, i silenzi imposti e le tristezze, di un’epoca e anche di un’età, quella dell’adolescenza, dove non si sa ancora bene chi si è, ma netti sono i confini che separano il bene dal male e l’amore si presenta così assoluto che a nessuno è dato metterlo in discussione.
Con una scrittura elegante, dal ritmo lento e cadenzato, in accordo con le ampie descrizioni dei luoghi, Ana Marìa Matute ci porta dritti al cuore di un isola che rapisce dove l’eco del conflitto si fonde con quella dell’Inquisizione e dei roghi di massa degli ebrei nei secoli precedenti.
Vi sono uomini che misteriosamente spariscono, donne che fumano alle finestre scrutando l’ampia distesa del mare in attesa di un ritorno e fiabe crudeli che si annidano tra gli anfratti, perché l’isola non è l’Isola che non c’è, ma un’altra isola dove si assiste alla perdita dell’innocenza e l’incanto si tinge di tinte fosche sotto il sole rovente e il vento che si abbatte sulle agavi.
Un romanzo delicato e crudele allo stesso tempo, da una delle scrittrici di spicco del Novecento.

Silvia Castellani

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Qui di seguito un estratto da Ricordo di un’isola.

Quando mi svegliai, prima ancora di aprire gli occhi, mi accorsi di non essere sola. Sentivo uno sfioramento, un frullo come di ali. Lentamente aprii le palpebre, con la testa rivolta alla parete, che era inondata di uno splendore giallo. Il sole entrava a strisce da quelle persiane che mi davano tanta noia, perché non si potevano chiudere. (La prima mattina che mi svegliai in quella camera, con la luce perlata dell’alba che entrava dalle fessure, mi alzai, andai a chiuderle, e non ci riuscii; provai un gran senso di oppressione e, dopo di allora, mi fu difficile abituarmi al sorgere del sole). Antonia era accanto alla finestra, con il pappagallino Gondoliero, e gli dava del miglio con la mano. Mi voltai lentamente a guardarla. Anche lei mi guardò, in silenzio, e mi tirai su. Mi vidi nello specchio dell’armadio, tagliata in due dal biancore del lenzuolo, con i capelli sciolti a cui il sole strappava uno splendore rosso. Antonia disse:
«Su, bambina, è tardi…».
Mi lasciai ricadere all’indietro. Aggiunse:
«Prima guardavo come dormivi, e mi ricordavi tua madre».
M’infastidiva essere guardata mentre dormivo, come se qualcuno potesse scoprire i miei sogni mentre io vi ero ancora impigliata, così terribilmente indifesa. Mi irritò che dicesse:
«Non assomigli a tua madre, ma quando dormi sì. Quando dormi, Matia, mi pare di vederla».
Gondoliero cominciò a mormorare qualcosa, con una vocetta gutturale, e Antonia, con infinita delicatezza, gli passava il dito sulla testolina striata.
«Sei magra, bimba, ho paura che tu sia malata». «Sto benissimo!».
«Però ti ho sentita gridare», continuava, imperterrita, con la sua voce bassa e umile. «Stavi gridando…».
«Sì, e allora? Ho sempre gridato di notte. Mauricia lo sapeva, e non ci faceva caso».
Gondoliero fuggì dalla sua mano, fece due giri di un volo basso, svogliato, e si posò sulla testiera del letto. Sembrava un fiore vivo e inquietante. Alzai un braccio per allontanarlo di lì, e anche il mio braccio brillò, attraversato da una striscia di sole. Nella stanza, che prima era stata di mia madre, tutti i mobili erano di mogano rossiccio, molto lucido, con un riflesso come di ciliegia.
«Lo sai?», continuò lei. «Anche tua madre gridava».
“Mia madre, sempre la stessa storia. Mia madre era una sconosciuta! Perché mi parlano sempre di lei?”. Saltai a terra, e distesi i piedi al sole che chiazzava il parquet. Era caldo.
Udii la porta che si apriva piano, ed entrò la zia Emilia. «Sbrigati, Matia», disse.
Andò verso lo specchio, e Antonia cominciò a raccogliere i miei vestiti, sparsi sul pavimento. Ma io sapevo che ascoltava attenta: quasi glielo si vedeva nell’orecchio, simile a una chiocciola di cera, mentre la zia Emilia si guardava allo specchio, passandosi le mani sulle guance, come se cercasse avidamente le prime rughe. Allora a me pareva una donna matura, ma doveva avere, al massimo, trentacinque anni. I suoi capelli erano biondi, lisci e molto lucidi. Aveva le anche larghe, come le mascelle. Non era bella ma molto soave, ed era di solito distratta o assorta, come se stesse sempre a domandarsi qualcosa che destava in lei un continuo stupore.
Il santo languiva nella nicchia, fra tuberose e gigli di cera, gli occhi di vetro imploranti. Le candele, mezzo consumate, si torcevano nei piccoli candelabri, e un ragno scivolò, bruno e circospetto, su per la parete.
«Sbrigati», ripeté, distratta. «La nonna ti sgriderebbe se sapesse che sei ancora a letto».
Uscì dalla stanza. Faceva sempre così: entrava, usciva, parlava senza guardare in faccia, con aria da sonnambula. “È come un fantasma”.
Antonia entrò nella stanza attigua, che era la stanza da bagno. Non avevo mai visto un bagno come quello della casa della nonna: una sala grande e malandata con strani mobili di legno scuro e marmo. L’enorme lavabo, con il suo grande specchio inclinato, che mi ritraeva in discesa, come in un sogno strano in cui mi guardassi dall’alto in basso, sembrava piuttosto un guardaroba. Aveva ripiani di vetro verdognolo, coperti di bottiglie e barattoli vuoti. Un rumore lugubre gorgogliava nelle tubature difettose dell’acqua, tiepida d’estate, gelata d’inverno. Il marmo rossiccio del lavabo, percorso da vene sanguinolente, e il nero del legno con intagli di draghi allacciati che mi riempivano di stupore, è uno dei miei ricordi più vivi di quel tempo. Nei primi giorni trascorsi molto tempo in quella strana toeletta – come la chiamava Antonia −, passando il dito lungo le fessure dei legni e dei marmi orribilmente accostati, in cui c’era sempre della polvere. La vasca era vecchia e scrostata, con zampe di leone verniciate di un bianco giallastro, e aveva grandi chiazze nere, come marchi di infamia. Sulle pareti risaltavano macchie di ruggine e umidità che formavano strani continenti, lacrime di vecchiaia e abbandono. L’acqua veramente calda doveva portarla su Antonia in brocche di porcellana, dalla cucina. La sentii armeggiare e la immaginai, come sempre, fra nuvole di vapore che appannavano lo specchio rendendolo ancora più irreale e misterioso. “Alice oltre lo specchio”, pensai più di una volta, guardandomici, nuda e desolata, con una gran voglia di oltrepassarne la superficie, che sembrava gelatinosa. Tristissima immagine quella – la mia −, con gli occhi spaventati, che era, forse, l’immagine stessa della solitudine.
© 2021 Fazi
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