“La nostalgia è come carta moschicida. Basta accarezzarla una volta per restarci invischiato”
Sangue. Storia di Anna di Andrea Romano (Ubagu Press, pp.180, €15,60) non è solo un libro. È un esercizio di esorcismo narrativo, una catarsi impietosa che lacera il velo dell’oblio per rivelare una verità scomoda, ma dolorosamente necessaria.
Andrea Romano è nato a Roma nel 1982, è giornalista professionista e scrive per Il Foglio, Il Fatto Quotidiano, Panorama, Tempi, Esquire, Ultimo Uomo.
Tarquinia, 18 maggio 1976. Anna viene brutalmente uccisa da Stefano, un ragazzo che l’ha aiutata in un trasloco. Un femminicidio nascosto dall’oblio mediatico, con un minorenne che se la cava con una pena lieve.
Dalla morte di Anna nasce la vita di Andrea Romano, che affronta una ferita mai guarita della sua storia personale, trasformando il racconto di una tragedia familiare nell’esplorazione dell’identità, della memoria e del peso insostenibile dei non detti.
Il romanzo si apre con un prologo fulminante: una vecchia fotografia sopra un pianoforte, immagine impressa nella memoria come una cicatrice nascosta, simbolo di un mistero sepolto sotto strati di silenzio.
La scrittura di Romano è intensa e precisa. Procede con la sicurezza di chi sa di avere tra le mani una storia potente. Il ritmo narrativo è scandito da una tensione quasi cinematografica, che avvolge il lettore in un vortice emotivo sin dalle prime pagine.
Attraverso la voce di chi è rimasto, Romano svela con una crudezza poetica il trauma dell’assenza, del lutto negato, delle verità taciute. L’autore non risparmia nulla al lettore, e nemmeno a sé stesso: ogni pagina è intrisa di una sincerità disarmante, capace di far sentire sulla pelle l’angoscia di chi cresce nella penombra delle menzogne di famiglia.
La figura di Anna, donna al centro di questo noir intimo e struggente, è costruita con delicatezza e potenza insieme. Il suo volto emerge lentamente dalla foschia della memoria, emblema di una femminilità ferita, ma anche della tenacia con cui la verità si impone sul silenzio.
Romano, con un equilibrio magistrale, trasforma una storia personale in un’indagine universale sul dolore, sulla perdita e sulla difficoltà di dare forma al passato:
“«In quel momento compresi che io e lei eravamo collegati, due estremità della stessa storia, due vite rese possibili solo perché si erano escluse a vicenda. Così presi a ricostruire la sua esistenza. Un frammento alla volta, una lacrima dopo l’altra.»”
Sangue. Storia di Anna è un libro coraggioso, che scava negli angoli più oscuri delle relazioni umane. La sua forza sta proprio nella capacità di coniugare l’esame psicologico più acuto con la narrazione fluida tipica dei grandi romanzi.
Rompe il silenzio con una voce dura, senza filtri né pietà. Scava dentro le ombre più fitte della famiglia e della memoria, senza tregua o compromessi. Una testimonianza potente, che rimane addosso come una ferita aperta, perché parla di quello che, spesso, non osiamo nemmeno pensare.
Carlo Tortarolo
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Ogni anno zio mi faceva trovare una bicicletta nuova. Non me la comprava, me la costruiva. Rimediava i pezzi che mi piacevano, li puliva, li assemblava. Una volta finito andavamo insieme a prendere le bombolette spray per verniciare il nostro Frankenstein. Potevo scegliere qualsiasi colore, anche i più assurdi. Così mi divertivo a mescolarli: verde fluo, giallo fosforescente, rosso acceso, nero opaco. Passavamo ore a lavorare. Soprattutto il sabato e la domenica. Io mi stufavo quasi subito, ma pensavo a quel tempo trascorso insieme come a un risarcimento per le ore che non avevo potuto passare con mio padre.
Una sera eravamo rimasti soli a casa. Così decisi di parlargli. Mi avvicinai da dietro mentre lui tagliava i pomodori per l’insalata.
L’odore del basilico appena tritato che riempiva tutta la cucina. L’acqua del rubinetto che copriva il rumore dei miei passi. La paura che strozzava il fiato al centro della mia gola.
«Zio, ma perché io e i miei fratelli abbiamo avuto madri diverse?» domandai intimorito.
Lui posò il coltello nel lavandino d’acciaio, chiuse il rubinetto, si asciugò le mani.
«Non ti hanno detto niente di questa storia?».
«No».
«E allora perché parli così?».
«Vanda mi ha detto che io sono diverso da Guido e Paola perché abbiamo avuto madri differenti».
«Ascolta, è una faccenda vecchia, non cambia nulla».
«Ma io voglio saperla».
«Sei sicuro?».
«Sì».
«Va bene. Allora ti dico tutto. Tuo padre Alessandro era sposato con una signora che è stata uccisa. Lei era la mamma di tua sorella e tuo fratello. Poi tuo padre si è risposato con Fiorella e sei nato tu. Quindi con Paola e Guido non siete fratelli, ma fratellastri».
«È la signora che c’è in quella foto nel corridoio?».
«Non me lo ricordo, ma potrebbe essere».
Da quel momento non parlai più. Per un bel pezzo. Salii nella camera da letto al piano superiore e affondai la faccia nel cuscino. Pensavo di poter soffocare i singhiozzi, credevo di poter dimostrare a mio zio di essere forte almeno quanto lui. Invece mi ero liquefatto, dissolto. Mi rigiravo in bocca quella parola, «fratellastri». Sembrava uscita da una telenovela, oppure da una vecchia storia di cavalieri che si sfidavano per il trono del re. Aveva un suono sgradevole e un significato ancora più brutto, il disprezzo era chiaro anche al me bambino. E introduceva una realtà brutale. Ero io quello diverso, il frutto di una vita che mio padre non si era scelto, ma si era ritrovato a vivere. Mi sentivo risucchiato in un gorgo nero. Avevo paura. Di non essere amato. Di essere considerato un peso. Speravo che qualcuno venisse a consolarmi, a dirmi che non cambiava nulla, che sarebbe andato tutto bene. Invece non venne nessuno. Mi lasciarono da solo, faccia a faccia con uno strazio che nessuno sapeva maneggiare. Piansi. Mi calmai. Piansi ancora. Fino allo sfinimento. Poi scesi giù per la cena. Per tutto il tempo avevo fissato l’orologio appeso alla parete di fronte al tavolo. Non vedevo l’ora di andare a dormire. Non vedevo l’ora di dimenticare.
Da quel momento non accennai più a quella storia. Ma non ero certo riuscito a scordarla. Era diventata anche per me il grande tabù della mia famiglia. Ogni tanto ci capitava di dire che un oggetto o un vestito era appartenuto a lei. Allora ci si fermava per un attimo e si sorrideva con compassione. Poi, dopo aver scongiurato un pericoloso silenzio, si tornava a riempire il vuoto con un mare di parole.
È andata avanti così per quasi tre decenni, fino alle vacanze di Natale di due anni fa. Una notte mi svegliai di soprassalto, con la gola secca e un vago senso di vertigine. L’avevo sognata. Doveva essere lei, ne ero sicuro. Era vestita proprio come in quella vecchia foto sopra il pianoforte, ma il suo viso era velato, indefinito. Mi guardava sorridendo, senza dire una parola, fino a quando i suoi contorni eterei non svanivano mescolandosi alla nebbia che la circondava. Quella faccenda andò avanti per due, tre, quattro notti. Fino a quando accesi il computer e iniziai a cercare il suo nome negli archivi dei giornali. Vidi le foto e lessi gli articoli. Fino a quando cominciai a provare un dolore insopportabile. In quel momento compresi che io e lei eravamo collegati, due estremità della stessa storia, due vite rese possibili solo perché si erano escluse a vicenda. Così presi a ricostruire la sua esistenza. Un frammento alla volta, una lacrima dopo l’altra. Tutto quello che ora so di lei non l’ho appreso, l’ho scoperto. Ed è qualcosa che ha a che fare col ribollire del sangue. Il suo, che è stato versato in un pomeriggio di maggio del 1976, e quello dei legami che mi ha consegnato. Perché una donna che non ho mai conosciuto mi ha lasciato mia sorella Paola e mio fratello Guido.
Lei si chiamava Anna. E questa è la storia della sua vita. Ma soprattutto è la storia del suo annichilimento.