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Anteprima. Claire Lombardo. Mai stati così felici

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Di Claire Lombardo non sappiamo molto, se non che è nata a Chicago, vive a Iowa City e che ha lavorato come assistente sociale.

Questo perché Mai stati così felici, in uscita in Italia per Bompiani, tradotto da Silvia Castoldi, è il suo primo romanzo.

Un esordio eccezionale, nel senso letterale del termine.

Intanto per la mole, 680 pagine al primo colpo non è una cosa che si riscontra spesso; e poi per la qualità, la densità della prosa. Le frasi della Lombardo regalano un volto all’immateriale, ogni capitolo è un racconto di pregevole fattura, un nuovo punto di vista sulla vicenda narrata, sulla vita di una famiglia e sulla fragilità che si nasconde dietro le strutture più solide e armoniose.

Chiunque abbia anche solo un po’ di dimestichezza con lo scrivere, sa che gestire tanti personaggi è piuttosto difficile perché bisogna essere bravi ed equilibrati a dosare le parti, a gestire i caratteri, a non essere incongruenti.

La Lombardo dimostra una sapienza, una capacità alchemica da veterana, il che rende il suo esordio ancor più sorprendente.

Il testo è strutturato per momenti, i personaggi sono tanti e tutti sembrano attendere il proprio turno. I punti di vista, talvolta, si accavallano e ci viene regalata una prospettiva, una visuale diversa della stessa scena, o sui componenti della famiglia, il che rende il racconto coinvolgente e mai dispersivo.

Di questo esordio tanto sbalorditivo se ne sono accorti anche alla HBO, e soprattutto Amy Adams e Laura Dern, che si sono innamorate delle sorelle Sorenson al punto da volerne fare una serie tv.

Chi ha amato libri come Le correzioni di Jonathan Franzen, o lo sguardo illuminante e delicato di Zadie Smith in Grand Union, adorerà questo romanzo enorme le cui pagine volano leggere come foglie di platano nell’autunno di Maiorca.

La storia affonda le radici nella Chicago degli anni settanta, quando David e Marilyn s’incontrano e s’innamorano.

La loro è una storia incantata. Una coppia stabile, forte, capace di rinnovare il proprio amore. Quella di David – medico di famiglia ormai in pensione – e Marilyn – proprietaria di un negozio di ferramenta – è una felicità tanto semplice quanto avvilente per chi è costretto a guardare, che costringe, persino, a chiedersi se sia giusto che i genitori siano più tanto felici dei propri figli.

Questo amore è una luce abbagliante che genera ombre altrettanto solide, ingombranti, dove germogliano quattro splendide figlie, fragili e tenere, sempre sul punto di crollare.

Wendy; Violet; Liza e Grace.

Sarebbero loro le protagoniste di questo splendido racconto, se non venissero travolte da Jonah, il figlio ormai adolescente che Violet aveva avuto quando era troppo giovane per occuparsene e che aveva dato in adozione alla nascita.

Jonah ha avuto una vita difficile, sempre nel mare dell’incertezza, fino a quando la grande balena Sorenson lo inghiotte per puro caso.

Torna al suo posto, quello che avrebbe sempre dovuto occupare. La sua presenza silenziosa e gentile si dilata, si espande illuminando con una luce nuova, capace di mostrare tutte le crepe, le nevrosi, che rendono tanto umani i personaggi di questa avvincente saga familiare.

La Lombardo è strepitosa nel tracciare il ritratto di questa famiglia, a ogni personaggio regala un momento di grazia, una caduta in grande stile. La sua è una penna generosa, che non trascura, che si prende il tempo e lo spazio necessario.

Questo libro è come un cesto intrecciato da mani sapienti: tanti esili giunchi convergono in un epicentro comune, si annodano tra loro, fino a creare una solida struttura in grado di trasportare fardelli pesanti.

Chiunque sia cresciuto in una famiglia numerosa sa che il sangue, l’esperienza comune, crea legami profondi e che se ci si allontana non è mai troppo a lungo, troppo a largo. Ci saranno sempre eventi straordinari che ricomporranno il quadro, mani tese ad afferrare, e quella, persino quella, la sentiremo felicità.

Pierangelo Consoli

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Di seguito un estratto in esclusiva da Mai stati così felici di Claire Lombardo, da domani 8 luglio nelle librerie per Bompiani.

“Se Miles fosse qui,” disse Wendy, “farebbe una bella tirata contro la decadenza dell’istruzione pubblica.”
Jonah si era lamentato dei suoi orari autunnali, del fatto di non poter avere un’aula studio perché lo costringevano a seguire una stupida serie di lezioni dal titolo Esplorare la lingua inglese, che doveva essere un corso di recupero ma lui non ne aveva bisogno, era solo che non aveva fatto l’esame quando era un ragazzino per via del mese che aveva passato con certa gente noiosissima che fabbricava pupazzetti di animali in un posto in culo al mondo, prima di trasferirsi da Hanna e Terrence.
“È una buona scuola,” disse. “Solo che non sembrano tipo prontissimi a capire che io non sono uno di quei cazzo di millennial straricchi con Princeton in testa.” Non gli era mai capitato di parlare così con nessuno.
“Potresti anche andarci, a quella cazzo di Princeton,” disse Wendy, rigirando il bicchiere di vino.
“Io non voglio andare a Princeton.”
“Neanch’io voglio che tu ci vada, ma non dovresti rinunciare a priori come se fossi una specie di abitante delle paludi che non è capace di mettere insieme una frase. Miles avrebbe ucciso per avere uno studente come te.”
Dopo qualche giorno Jonah aveva smesso di sentirsi a disagio per la frequenza con cui lei nominava il defunto marito. Essere sposati con qualcuno sembrava una cosa grossa, un piano grandioso, ed era davvero uno schifo che il marito di Wendy fosse morto così giovane.
“Ti troveremo un posto che sia meglio dei City Colleges of Chicago, però,” disse lei, e l’indignazione nella sua voce lo lusingò. “Gracie si è trovata molto bene al Reed College. Costa un botto come Princeton, però non è proprio un covo di stronzi.”
“Non stavo pensando a…”
“Ci penso io,” rispose lei, esalando una nuvola di fumo. “Quando sarà il momento.”
Jonah non sapeva bene come valutare quella gente, che proclamava di essere normale ma non aveva un lavoro normale e non sembrava in pensiero all’idea di prendersi in casa un’altra persona. Da Wendy non aveva mai sentito conversazioni come quelle da Hanna, sull’assicurazione dentistica e i soldi per la spesa al supermercato. Quell’appartamento assomigliava alla dimora di un cattivo ricco dei fumetti di Batman, al trentaseiesimo piano con vista sul lago, solo finestre, tutto marmi scintillanti, soffitti alti e grossi mobili sobri, una mostra del futuro. Wendy aveva tanto, e a lui non serviva molto. Era la prima volta che non si sentiva un peso. Finalmente le cose andavano bene. Si stava adattando alla vita con Wendy, la donna che beveva vino come se fosse acqua e dava l’idea di esistere al di fuori della struttura che avvolge persone normali, una struttura in cui ti alzi quando spunta il giorno e segui le regole. Meglio vivere con una fuori di testa piena di soldi che stare a Lathrop House. Meglio avere una camera da letto tutta tua, da dove a volte sentivi tipo la zia fare sesso con uomini che non vedevi mai, invece che far finta di dormire in una camerata con gente che si distruggeva di seghe fino a perdere i sensi e poi si svegliava pronta a fare a botte. A casa di Wendy c’erano una scorta illimitata di cereali e conversazioni a tarda notte che lo lusingavano con il loro livello di maturità ben oltre il suo. Qualcuno che lo riconosceva come una persona invece di considerarlo un numero; qualcuno che aveva letto troppi libri, il che era sempre meglio del contrario.
Si ricordò che la sua mamma aveva morbidi capelli rossi, e che le lenzuola del suo letto avevano una fantasia di gente che faceva windsurf. Si ricordò i waffle appena usciti dal tostapane, con i quadratini annegati nello sciroppo. Si ricordò delle corse in costume da bagno dentro il getto di un irrigatore. Si ricordò che la sua mamma sapeva sempre di pane. E che gli automobilisti suonavano sempre il clacson al suo papà, perché lui stava sempre troppo fermo allo stop.
E un giorno avevano smesso di esserci. Una signora con i capelli raccolti in una crocchia gli aveva detto che la loro macchina era finita contro un viadotto. Dopodiché Jonah era andato a stare dalla sua prima famiglia affidataria, in una città che puzzava di mucca, e la notte si addormentava ascoltando le cicale e chiedendosi se la sua mamma e il suo papà le sentivano anche loro. E poi si era trasferito da un’altra famiglia, e da un’altra ancora. E qualche volta la gente di quelle famiglie urlava, o picchiava il cane, o si dimenticava che era ora di cena. E due anni prima uno di loro l’aveva portato a Lathrop House, e lui era finito in camerata insieme ad altri quattro ragazzi.
“Sei scomparso,” disse Wendy. Gli sorrise dalla parte opposta del terrazzo, il volto addolcito dal vino. “Stai bene?”
Lui annuì. Non si sentivano le cicale a casa di Wendy, solo il fruscio del traffico che scorreva giù in basso, e il sibilo spettrale del vento che soffiava dal lago. Se andavi dentro e chiudevi le porte scorrevoli era come stare sottovuoto; i rumori svanivano del tutto, a parte quelli dentro, quelli di Wendy: canzoni stonate di Mariah Carey, e ogni tanto i rumori che venivano dalla sua camera da letto, ed era meglio non pensarci.
“Ehi, Wendy. Tu lo sai chi è mio padre?” le chiese.
Wendy tossì e sputò un po’ di vino. “È meglio se avverti prima di sparare.” Ma tornò subito seria. “È una domanda scomoda, J,” rispose, accendendosi una sigaretta. Gettò indietro la testa e soffiò fuori il fumo. “Sì, lo so chi è. È venuto in casa dei miei con Violet il Secondo giorno del Ringraziamento. È stata l’unica volta che l’ho visto. Sono stati insieme per un paio d’anni quando lei era al college.”
Jonah la fissò, in attesa.
“Il fatto è che non spetta a me darti questa informazione.”
“Sei stata tu a trovarmi, giusto?” Una volta, origliando, l’aveva sentito dire da Hanna. “Dire a Violet che mi avevi trovato non è come dire a me chi è mio padre?”
“No,” gli rispose Wendy. “Le lo sapeva che c’eri, visto che ti ha messo al mondo.”
“Hai capito benissimo cosa voglio dire.”
Wendy bevve un altro sorso di vino. “Sì. E non hai torto. Ma perché non facciamo un passo alla volta? Non è il caso che tu ti metta a scavare chissà cosa. Pensa che non hai nemmeno ancora conosciuto Gracie.”
“Puoi dirmi almeno che tipo era?”
Wendy ci pensò. E poi: “Non me lo ricordo bene. Non era cattivo, era solo un po’ banale. Come al solito con Violet; la vaniglia è un gusto acquisito. Studiava qualcosa di scientifico. Ti piacciono le materie scientifiche?”
Lui scosse la testa.
“Magari diventi un fisico tardivo. Ho un vago ricordo di un tipo pallido con una camicia a maniche corte. Davvero, non mi viene in mente altro. Mi dispiace. Vorrei riuscire a dirti di più.” Sospirò. “Sai, mio marito è cresciuto con la sua matrigna. La mamma era morta di parto. Suo padre si era risposato un anno dopo, e Miles non si ricordava niente. Non sapeva nemmeno che la sua mamma non era la sua mamma, l’ha scoperto solo da ragazzo.”
“Bel casino,” disse Jonah.
“Sì, abbastanza. Ma quello che voglio dire è che la genetica non è tutto.”
Lui si era stancato, era deluso dal fatto che Wendy non avesse altre informazioni. “Che cos’è il Secondo giorno del Ringraziamento?” chiese, e lei rise.
“Oh, non hai idea delle sorprese che ti aspettano,” gli rispose.

© 2020 Bompiani

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