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Anteprima. Giorgio Scerbanenco. La valle dei banditi

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Giorgio Scerbanenco scrisse La valle dei banditi, romanzo fino a oggi inedito e pubblicato finalmente da La nave di Teseo – con la cura di Cecilia Scerbanenco – probabilmente tra il 1940 e il 1942 (il manoscritto non è datato), rimanendo travolto dalla Grande Guerra. Ritrovato solo di recente in un archivio privato, si tratta dell’ultimo “episodio” che ha come protagonista Jelling, appartenente a una “serie” che lo scrittore abbandonò in seguito al suo rientro in Italia.

Con uno stile estremamente conciso, asciutto, quasi spoglio, Scerbanenco racconta le vicende del timido archivista Jelling alle prese con una sorta di setta che vive a Forte Rand, in una valle fertile e rigogliosa, una sorta di oasi circondata da un deserto pietroso, ed è depositaria del culto di un fantomatico Messia. La comunità, composta da sei famiglie, era stata sconvolta dalla scomparsa della moglie di Anthony Ross il quale, pur se scagionato dalle indagini, era stato considerato colpevole di omicidio e condannato ad allontanarsi. A distanza di molti anni, il figlio di Anthony, Raffe, decide di tornare sul luogo, diventando ben presto oggetto dell’ostilità degli abitanti. Per questo motivo incarica l’investigatore Jelling per fare luce una volta per tutte su quel caso. Benché lontano dalle consuete atmosfere proprie dell’opera più conosciuta, questo La valle dei banditi è un’opera in cui Scerbanenco diede una straordinaria prova delle sue capacità di introspezione psicologica e di osservazione del sociale e delle relazioni umane. Su tutto incontrastato e immediatamente riconoscibile, aleggia un interrogativo etico e filosofico che si muove sul binario del genere umano come naturalmente buono/cattivo. E non sorprenda tuttavia l’incursione romanzesca in ambiti e tematiche millenaristici – sia sul versante religioso sia su quello politico – con cui l’autore stabilì una certa consuetudine proprio negli anni più duri della guerra. Anche in questo caso, Scerbanenco si rivela – al di là del genere o dell’ambientazione – uno straordinario talento narrativo.

Paolo Melissi

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Non so perché mio padre fu così attratto da questo tema, in quegli anni. Forse fu a causa della guerra, con le persone rinchiuse in piccole comunità nei paesi degli sfollati, nei campi profughi, negli alberghi sui laghi dove si era messa in salvo la buona borghesia del nord Italia, e dove ben presto la solidarietà e le speranze comuni si trasformarono in invidie e antipatie velenose. C’era poi una corrente escatologica nella cultura del periodo, si pensi al Nazismo esoterico, che mescolava in un unico calderone (simbolo celtico della vita) santo Graal e trionfo della razza ariana. E come non citare l’esoterismo diffuso della Belle Époque, età intellettuale alla quale appartenevano appieno il padre e la madre di Giorgio Scerbanenco? Infine, il deserto di pietra e la sua oasi ricordano anche più attuali sette protestanti, un certo Sud degli Stati Uniti, molto battuto dalla letteratura di quegli anni, con i cappucci bianchi del Ku Klux Klan e i metodi spicci: un altro mondo, fecondo scenario di crimini, di cui mio padre era innamorato. E c’è anche, nonostante la mia ignoranza in argomento, molto cinema: ricordo deserti in bianco e nero identici allo Stoner, popolati di cow-boy e indiani, o di disperati in fuga, che mia nonna mi faceva guardare da bambina raccontandomi che mio padre era stato a vederlo al cinema quattro o cinque volte.

Cecilia Scerbanenco

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La luce dell’incendio illuminava alla perfezione lo straniero alto, magro, col braccio al collo e il cane al guinzaglio. Illuminava anche i due grossi cugini, mentre le fiamme talvolta si riverberavano sulle canne dei loro fucili. Illuminava molto bene anche Raffe Ross, il figlio di Anthony Ross che aveva ucciso sua moglie, e che ora guardava l’incendio tranquillamente. Era ben visibile anche il sergente Arbel, nella sua irreprensibile divisa, secco, alto, pronto a ghermire il Disordine, l’Illegalità, ad ammanettare i Rei. Tutta la gente di Forte Rand guardava in silenzio quel gruppo di forestieri che, forse per paura, si teneva distante. Ed ecco che due uomini si staccarono dall’assembramento e si avvicinarono rapidi al piccolo gruppo coi cani e i fucili.

Erano il capitano Breston, comandante della Centrale di Polizia di Damn, e Augustine Small, figlio del cieco Terry Small. “Devo parlarvi, signor Jelling” esordì Breston. “Quest’uomo” e indicò Augustine Small, “mi ha fatto una deposizione importante.” “Dite pure, capitano Breston” rispose cortesemente Jelling. Breston prese per un braccio Augustine Small e lo spinse innanzi, mostrandolo come un documento. “Costui dice che ieri sera, nell’osteria di Tom Tampa, Raffe Ross ha detto testualmente: ‘Bisogna bruciarlo questo paese! Inzupparlo di petrolio e dargli fuoco!’” Arthur Jelling toccò una mano di Raffe per calmarlo e indurlo ad avere pazienza. “Sì, lo ha detto” rispose. “Ero presente anch’io.”Breston sorrise, soddisfatto: poteva liberarsi in poco tempo di quell’odioso lavoro. “Ha detto anche, quest’uomo,” proseguì, “di aver visto più tardi, mentre tornava da un giro d’ispezione per il suo campo, Raffe Ross vicino all’osteria di Tom Tampa.

Appena Raffe lo vide, subito scavalcò la siepe e si perse nell’oscurità.” Arthur Jelling strinse ancora più forte la mano di Raffe Ross e lo convinse a tacere ancora. La grossa mano di Raffe, ruvida, callosa, nella lunga, magra mano di Jelling si strinse a pugno ma Raffe tacque. “Interessante…” fece Jelling. “Intendete dire che dobbiamo arrestare il signor Raphael Ross?” Breston mise la mano in tasca, quasi come cercasse un paio di manette, e forse le cercava davvero. “La deposizione di quest’uomo è esaustiva, e più che sufficiente per farlo condannare. Mi riferisce anche che l’intero paese è convinto sia stato Raffe a incendiare la fattoria di Tampa.” Augustine Small, la “prova” di Breston, ascoltava, mite e modesto. Ogni tanto volgeva gli occhi verso il rogo, quando qualche parete di legno crollava, sollevando un nembo di scintille roventi, quando l’incendio friggeva più rumorosamente. “Ma c’è un errore” cominciò Jelling, affrontando Augustine Small con le sue stesse armi di mitezza e modestia. “Il signor Ross ha sì pronunziato quella minaccia, ma non può aver appiccato l’incendio alla fattoria, perché, da quando l’ha pronunziata nella locanda fino a questo momento in cui io vi parlo, non l’ho abbandonato un istante. Ieri sera ha avuto una brutta crisi nervosa, e l’ho sorvegliato tutta la notte.

© 2020 La nave di Teseo

16 luglio 2020

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