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Anteprima. Willy Vlautin, The free

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Willy Vlautin, The free

Il suo nuovo album è uscito da alcune settimane e Willy Vlautin è stato definito dalla critica americana il miglior portavoce del “country-soul”, dodici canzoni dove si raccontano le storie di persone al margine della società, di gente che fa a pugni con la vita.

Willy Vlautin è conosciuto, però, anche come scrittore, amatissimo da autori come Barry Gifford, Colm Toìbin, Roddy Doyle e Ursula K. Le Guin, solo per citarne alcuni – proprio per la sua capacità di descrivere un cantico dei diseredati tra le luci di un’America al neon: con molte insegne, ma poche illuminazioni e con i fari sempre puntati ovunque a esportare democrazia tanto basta per dimenticarsi della propria libertà.

Ogni nuovo romanzo di Vlautin, nato a Reno in Nevada nel 1967, è un urlo in una stanza chiusa, una poesia che diventa inchiostro, cantata come nelle ballate country di un’America che non ha ancora visto l’alba per comprendere bene la notte che sta vivendo.

In questo The free (appena tradotto in Italia da Gianluca Testani per la casa editrice Jimenez, pagg. 241, euro 18, e in libreria da oggi) Vlautin conferma davvero di essere il nuovo John Steinbeck, come in molti lo hanno definito dopo il romanzo d’esordio Motel Life (Fazi editore), confermato da La ballata di Charley Thompson (Mondadori) e da Verso Nord (Quarup editore).

Di Steinbeck ha la stessa voce narrativa, il medesimo timbro letterario, il sentire comune per uomini ai margini ma senza cadere in un’epica romantica della sconfitta che ha fatto la fortuna di molti altri scrittori (si pensi a Fante o Woody Guthrie).

Io sarò qualcuno è un dolore che si fa pagina, è la vita di un giovane metà irlandese e metà nativo d’America che come unico sogno ha quello di diventare un pugile professionista. Vagherà tra la brutalità dei ring messicani sino ai combattimenti di una squallida Las Vegas, sino a scoprire che le proprie origini non si cancellano neanche con la ricerca sfrenata del successo in un romanzo che diventa una amara metafora del nostro presente in cui è sempre difficile mettere ko la vita che ci è stata predestinata.

Vlautin, che negli Stati Uniti è anche un cantautore di successo, al di là della trama è davvero tra i pochi scrittori contemporanei in grado di descrive l’America oggi. Senza rifugiarsi nel sentimentalismo o nella melassa narrativa dei tanti, senza cavalcare l’orrore della cronaca quotidiana riesce a raccontare una storia senza tempo: quello di “loosers”, di perdenti che però combattono sino all’ultimo un’esistenza che sembra per loro segnata.

Gian Paolo Serino

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Pauline entrò nella stanza numero nove e vi trovò la madre di Leroy, Darla, seduta su una sedia accanto al letto, impegnata a leggergli un libro.

«Mi spiace interromperla» disse Pauline.

Darla posò il romanzo sulle sue ginocchia e si tolse gli occhiali da lettura. «Non mi hai interrotta» disse stancamente. «Stavo comunque per finire».

«Dicono che l’operazione è andata bene». Darla alzò le spalle. «Se lo dicono loro». «Quale libro gli sta leggendo?». «The Light Seekers». Alzò lo sbiadito volumetto di fantascienza. «Di che parla?» domandò Pauline dirigendosi al computer per controllare la cartella di

Leroy. «Preferisci la versione breve o quella lunga?». «Quella lunga» disse Pauline, e rise. «Non mi dispiacerebbe immergermi in un libro di fantascienza per un minuto o due».

«Allora, vediamo. La storia è ambientata su un pianeta che ha diverse lune» disse Darla mettendosi comoda sulla sedia. «C’è un gruppo di donne, forse una ventina, che si spostano incessantemente per tutto il pianeta. Sono nomadi. Possiedono cinque lance d’oro chiamate pozzi di luce, e questi pozzi di luce possono trovare l’acqua, che sul pianeta è praticamente inesistente.

Quando giungono in prossimità di una sacca d’acqua, le lance d’oro si illuminano. L’acqua contiene cristalli di energia. Le donne mangiano i cristalli di energia; è il loro unico cibo. Il problema è che tutte le volte vengono prese di mira da queste creature chiamate Zybons. Sono alieni armati di pistole sofisticate, e il loro unico cibo sono le donne. Oh, dimenticavo, le donne fanno sempre il bagno nell’acqua che trovano. Lo hanno già fatto cinque volte in meno di tre capitoli».

«Donne che fanno il bagno?».

«E sono tutte stupende e non fanno che baciarsi tra di loro».

«Scommetto che l’ha scritto un uomo tracagnotto di mezza età». Darla rise. «È così. Ho controllato. Quantomeno è buffo.

A me neppure piace la fantascienza, ma Leroy l’amava tanto. Questo è un vecchio libro che ho trovato in una scatola in mezzo alle sue cose. Magari gli dà un po’ di gioia sentirselo leggere».

«E ha pure una lettrice personale». «Già» disse lei. «Alquanto fortunato». «E non sono la prima. La sua ragazza, Jeanette, leggeva sempre per lui.

È stato mio fratello a introdurre Leroy alla fantascienza, e poi Leroy è entrato in contatto con lei proprio grazie alla fantascienza. Si sono conosciuti a una qualche maratona di film di quel genere, quando lui aveva quindici anni. Mi ha raccontato che per tutti gli anni del liceo lei gli leggeva i romanzi di notte, mentre erano al telefono».

«Davvero?». «Sembra una cosa così noiosa» disse Darla. «La sua ragazza deve averlo amato molto» disse Pauline, e finì di scorrere la cartella clinica di Leroy.

«Erano pazzi l’uno dell’altra. Lei veniva a cena da noi tre o quattro sere alla settimana, e loro due facevano le conversazioni più strane. Tutte sulla fantascienza, come se venissero da un altro pianeta».

«Questo è divertente».

«A dire la verità, io le adoravo. Quelle cene sono state per tante volte la parte migliore della mia giornata. Lei mi aiutava a cucinare, ritagliava le ricette e poi le realizzavamo insieme. Jeanette è un’ottima ragazza. Lei e io abbiamo condiviso un appartamento quando Leroy è stato ferito la prima volta. Immagina di dover abitare con la madre del tuo fidanzato. Leroy era in un ospedale militare a San Diego, e noi due ci siamo trasferite laggiù insieme».

«Quanto tempo ci siete rimaste?» disse Pauline, poi controllò l’ossigeno di Leroy e gli sistemò i drenaggi. Guardò attentamente i tubi del torace per accertarsi che non ci fossero perdite d’aria e misurò il livello del liquido nella bombola poggiata per terra accanto al letto.

«Un paio d’anni» disse Darla. «Abbiamo preso in affitto un monolocale vicino all’autostrada. Era un posto terribile, ma era anche l’unico che potevamo permetterci. Non avrei mai dovuto portarla in quel posto. Safeway mi aveva trasferito nel negozio di Oceanside, così almeno avevo un lavoro. Anche lei ce l’aveva. Io lavoravo di notte e lei lavorava di giorno, in modo che con lui ci fosse sempre qualcuno. Per tutto quel tempo ci siamo incrociate in casa come due zombie… Io tendo a prendere molto male le cose, ma lei mi aiutava a non essere così. Mi teneva lontano dalla tentazione di piangermi addosso».

«È difficile non piangersi addosso quando passi quasi tutto il tuo tempo in un ospedale in apprensione per una persona cara» disse Pauline.

«È stato tutto un lungo incubo» disse Darla sottovoce. «Da quella prima telefonata con cui mi dissero che Leroy si trovava in coma in un ospedale in Germania a quando lo hanno trasferito a San Diego. È stato terribile… Poi i dottori ci hanno detto che Leroy non si sarebbe mai ripreso del tutto. All’inizio non volevamo crederci, ma nel frattempo era passato un anno e lui riusciva a malapena a mangiare da solo. Camminava a stento. Non parlava e non riusciva quasi ad andare al bagno da solo… Alla fine ho fatto andar via Jeanette. Ho chiamato sua madre e le ho detto di venire a riprendersela. Avrebbe dovuto passare il resto dei suoi giorni a prendersi cura di un uomo che non esisteva più? Quel compito spetta a una madre, non a una fidanzata. Io e sua madre alla fine siamo riuscite a convincerla ad andare via. Anzi, forse l’abbiamo costretta. Io sono rimasta lì altri dieci mesi, ma non è cambiato niente. Avevo nostalgia di casa. Ci ho messo un po’, ma alla fine sono riuscita a farlo trasferire qui nella casa famiglia».

«Adesso Jeanette dov’è?» chiese Pauline.

«Vive fuori Seattle. Non si è sposata. Non vuole dirmi se esce con qualcuno, ma io spero tanto di sì. So che ha un buon lavoro e ho visto delle foto del suo appartamento ed è carino e si trova in un bel quartiere. Per un po’ ce l’ha avuta con me e con sua madre, ma poi le è passato. Mi chiama sempre per il compleanno di Leroy. Chiama a Natale e il Giorno del Ringraziamento e a Pasqua. Anche il Quattro Luglio. Ma ormai non ci vediamo più. Ci fa troppo male. Però abbiamo il telefono».

«È al corrente di quello che è successo?».

«No» sussurrò Darla guardando il pavimento. «Lo so che avrei dovuto chiamarla, ma ogni volta che ci provo non ci riesco. Probabilmente non ho più la forza per fare telefonate di questo genere. Forse sono arrivata al limite. Lei vuole sempre che la chiami e che le racconti come sta Leroy. Che le dica se qualcosa è cambiato, nel bene o nel male. Ma io non lo faccio mai. Lei non ha bisogno di essere costantemente tormentata dal ricordo. Magari mi sbaglio, ma non credo. E se le dicessi cos’è successo ora, verrebbe qui di corsa e starebbe con lui giorno e notte e si rovinerebbe la vita un’altra volta. Io desidero solo che si sposi e abbia dei figli. Allora sì che si libererebbe di tutto questo. O almeno di una parte. Mi preoccupo per lei come se fosse la mia unica figlia. Abbiamo una sola regola quando ci parliamo, e cioè che possiamo parlare di tutto tranne che dell’esercito».

«Sa che io per poco non sono diventata un’infermiera militare?» disse Pauline iniziando a inserire le annotazioni nel computer. «Ti coprono il prestito studentesco, e lo stipendio di partenza è comunque più alto di quello che prendo adesso. Ma quando ho finito la scuola, qui c’era un posto libero, ed era sicuramente meglio che vedere tutti quei soldati feriti».

«Io non so come tu faccia a resistere qui dentro» disse Darla. «Io comincio a sudare freddo già solo a vederlo, questo posto».

Willy Vlautin, The Free

Traduzione di Gianluca Testani

© 2019 Jimenez Edizioni

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