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Antonella Ossorio anteprima. La fame del suo cuore

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Nel momento in cui la scrittrice Antonella Ossorio s’imbatte casualmente nel personaggio storico di Alexe Popova, affascinata anche dal fiero portamento che l’unica fotografia pervenuta irradiava – “a tenermi avvinta allo schermo del pc provvide l’intensità dello sguardo della piccola donna in gramaglie” – decide di raccontarne la storia. Nasce così il suo ultimo romanzo La fame del suo cuore per Neri Pozza nelle librerie dal 24 giugno, romanzo che, traendo spunto da documenti storici, è da considerarsi una narrazione di fantasia. È ambientato in una Russia in cui la donna non solo non aveva diritti perché di esclusiva proprietà dell’uomo, padre o compagno che fosse, ma non possedeva neppure propri documenti di riconoscimento: la sua stessa esistenza era alla mercè del maschio che, a seconda dell’età anagrafica, gestiva totalmente la sua vita.

Mogli e figlie vessate e stuprate – qui siamo nell’oblast di Samara tra il 1879 e il 1909 – e una persona che ha fatto proprio il dolore di ciascuna di esse e ha voluto mettere fine ai loro maltrattamenti: Madame Popova è l’epiteto con cui Alexe Popova – ma il suo vero nome di nascita non lo conosciamo – ha fatto morire uomini considerati violenti avvelenandone più di trecento in trent’anni. (E probabilmente lo scrivere oggi una storia di brutalità e abusi sul mondo femminile in una contemporaneità in cui i fatti delle cronache portano alla ribalta innumerevoli e quasi quotidiani femminicidi non è stata una decisione del tutto casuale).

In La fame del suo cuore a raccontarci in prima persona quanto accadde in quegli anni è la protagonista Nadežda che impersonifica colei che denunciò alle autorità competenti gli omicidi, ma il suo nome nasce dalla creatività dell’autrice perché nelle cronache giudiziarie è citata soltanto come “una donna”.

La sua vita e quella della figlia Elena di otto anni è nelle mani del marito Pavel, un disoccupato alcolizzato e dedito al gioco d’azzardo che spesso la picchia con furore e abusa di lei sessualmente. Dovendo scappare dal borgo rurale in cui abitano a causa di un ennesimo debito di gioco, la famiglia si trasferisce a Samara, sulle rive del Volga e qui, per un caso fortuito, lei incrocerà lo sguardo con quello di Alexa. Ne rimarrà folgorata:

Non esiste vertigine più profonda dell’avvertire che chi hai di fronte riesce a guardarti dentro. È qualcosa di simile al fulmine che ti sconquassa se, per somma sventura, accade che un fantasma attraversi il tuo corpo: di colpo comprendi di avere superato un limite oscuro e, nel sentirti una zolla porosa esposta alle intemperie, predici che per quanti sforzi tu faccia non tornerai a essere quella di prima.”

Ma grazie a questo incontro Nadežda inizierà la sua rinascita interiore e un lento percorso di affrancamento dalla propria condizione di sudditanza, conoscerà altre amiche e insieme a loro imparerà a guadagnare qualche soldo creando lapti – le tipiche calzature dei contadini russi che venivano appesi nelle stalle e in casa come amuleti di protezione dal malvagio. Imparerà a leggere e a scrivere e in lei si svilupperanno nuove forme di pensiero che la porteranno a una progressiva e costante intima crescita che rafforzerà la sua autonomia e affinerà il suo pensiero.

L’incontro magnetico con Alexa sarà il confronto tra due vittime di prepotenze che si accostano e scontrano, ciascuna con la propria morale di vita, mentre cercano di sopravvivere in una società dove il valore umano della donna non esisteva se non, come già evidenziato, come oggetto in mano all’uomo. Ma quando Nadežda, dopo aver detto a Popova di uccidere suo marito, ritratterà sconfessando questa idea – ricordandosi della nonna che le ripeteva spesso “Il male non giustifica altro male” – lei dovrà fuggire via con la figlia e in cuor suo saprà che, per rispettare la sua etica, sarà obbligata a denunciare l’amica per fermare una volta per tutte la fame di vendetta che l’ha resa una spietata assassina.

Ciò che sconcerta e al contempo ammalia nella personalità della Popova, ciò che l’autrice vuole far emergere dal personaggio e a cui vuole dare notevole risalto, è l’osservare nelle sue azioni il sottile confine tra ciò che debba essere fatto per riuscire ad aiutare e proteggere i deboli e ciò che invece si concretizza a tutti gli effetti come un crimine. La Popova infatti quando fu portata a giudizio confessò sì di aver ucciso ma di non ritenersi colpevole dei delitti eseguiti poiché lei sa di avere sempre agito con l’obiettivo ultimo di eliminare dall’intera comunità uomini violenti e abusanti per liberare le vittime indifese dal proprio aguzzino. Ritiene quindi di aver agito per il bene comune. Tanto è convinta delle sue scelte che non si pentì mai, neppure poco prima della sua esecuzione capitale:

(..) l’interminabile sequenza di uccisioni, il volto di ogni donna e di ciascun bambino e bambina che ha tenacemente voluto sottrarre a una sorte segnata, la sua rinuncia a sé stessa a sostegno di una causa superiore. E questo sacro ufficio ora dovrebbe rinnegarlo? Mai!”

Ma Nadežda denunciando l’amica comprenderà appieno quanto il male sia presente e respiri in ogni essere umano e quanto la linea di confine tra fare del bene o procurare dolore, foss’anche per proteggersi e tutelarsi, sia un confine troppo sottile e labile tanto quanto rischioso. Lei stessa convive con i propri fantasmi:

Sennonché, ogni santa notte viene a trovarmi in sogno un’altra me; quella che un tempo ricacciai nell’abisso dal quale era salita e che in quello sprofondo ancora vive, respira e senza requie sussurra: “Fallo ancora, Popova. Torna a farlo finché nel mondo ci sarà anche una sola di noi maltrattata, umiliata o uccisa per l’unica colpa d’essere donna”. E in quel bisbiglio, del quale ho terrore e che tuttavia non so rinnegare, ancora una volta riconosco il confine incerto tra bene e male”.

È quindi pienamente consapevole che una volta che il male si è fatto pensiero dentro di noi, una volta che si è sconfinati nel territorio delle tenebre, anche se solo come ipotesi, è oltremodo arduo riuscire a farne ritorno. Il nero è lì sotto la nostra pelle e talvolta ci chiama.

Chiara Gilardi 

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Si fa presto a dire “io ricordo”, ma nessuno potrà strapparmi mai dalla testa l’idea che certe presunte esperienze di vita vissuta siano favole inventate allo scopo di ritagliarsi un ruolo sul palcoscenico dell’esistenza. Mentre i più si arrabattano a trarre il meglio dal loro opaco talento, santi o demoni che siano, la Storia la fanno i protagonisti. Ci sono poi torme di comparse sempre intente a sgomitare pur di splendere di luce riflessa; salvo sentirsi il sale della Terra, se per combinazione a divi e primedonne viene tolta la parte. Potrò sembrarvi cinica, però datemi retta: da che mondo è mondo, a rallegrarsi della morte del lupo sono soprattutto le mosche accorse a banchettare sulla sua carcassa.

Non a caso, quando l’inconcepibile venne a galla, molti tra gli abitanti di Samara sostennero di rammentare con precisione le circostanze in cui Alexe Popova era entrata nelle loro vite. E chi, associando il momento fatale a un aroma di maiale arrosto in salsa di mirtilli e senape, sosteneva d’averla conosciuta nel corso dei riti pasquali del 1890; e chi invece andava blaterando che Madame Popova – così la donna era stata ribattezzata dai giornali che cavalcarono a lungo l’ondata di orrore sollevata dai suoi crimini – s’era stabilita là almeno quattro decenni prima. A meno che non ci fosse vissuta da sempre, considerato che della sua nascita non si conosceva il luogo né l’anno: storia vecchia come le montagne, data la facilità con la quale a tutt’oggi nella nostra Santa Madre Russia – se ancora ci è concesso chiamarla in questo modo – i registri parrocchiali finiscono smarriti, rosicchiati dai tarli o addirittura arsi assieme alle antiche chiese di legno che li custodivano.

Fatto sta che, negli ultimi giorni del 1909, finirono per turbinare nell’aria più chiacchiere senza costrutto che fiocchi di neve. Qualcuno giunse addirittura a spergiurare sui figli di avere appreso da un fantomatico carteggio che l’omicida era entrata a far parte della comunità samarese appena una quindicina d’anni prima dello scoppiare del bubbone, reduce dalla rocambolesca fuga da un’imprecisata colonia penale della Siberia. Ma a dire il vero, riguardo a quello che sarebbe rimasto per molti lustri uno dei più clamorosi casi di cronaca nera avvenuti nell’intero continente, il grosso della cittadinanza si limitò a ripiegarsi nelle spalle: a conti fatti, che valore potevano mai avere il come, il quando e soprattutto il perché di fronte all’evidenza che a un dato momento, con un vasto pianeta a sua totale disposizione, il Maligno avesse ben pensato di piantare radici proprio sulla riva sinistra del Volga?

Quanto a me, in questo tempestoso settembre del 1939 messaggero di nuovi venti di guerra pronti a spazzare le strade d’Europa, posso soltanto ripetere la mia versione dei fatti in una forma riveduta e corretta che lascia intatta la sostanza; a iniziare, a titolo di doverosa presentazione, da quanto all’epoca dichiarai sotto giuramento davanti ai giudici del tribunale di San Pietroburgo: mi chiamo Nadežda Ivanovna Sorokina, vidi la luce nel 1881 presso la comunità rurale di Gnezdov, oblast´ di Samara, e del passato remoto di Popova so meno di niente per il semplice fatto che quando la conobbi mi ero da poco trasferita in città. Ciò che invece alla sbarra dei testimoni non dissi è che – io sì! – realmente porto inciso nella memoria come se fosse avvenuto ieri ogni impercettibile dettaglio del primo incontro con colei che nel bene e nel male mi cambiò la vita. Pesante condanna non potermi raschiare dalla mente l’abisso intravisto dietro quegli occhi neri puntati dritti su di me. La fitta al capo che ne seguì fu talmente violenta da farmi vacillare, tanto che per dominare il turbamento potei soltanto sconfessarlo: e adesso che ti prende? Rientra in te, sciocca ragazza!

Che clamoroso errore di valutazione. Non esiste vertigine più profonda dell’avvertire che chi hai di fronte riesce a guardarti dentro. È qualcosa di simile al fulmine che ti sconquassa se, per somma sventura, accade che un fantasma attraversi il tuo corpo: di colpo comprendi di avere superato un limite oscuro e, nel sentirti una zolla porosa esposta alle intemperie, predici che per quanti sforzi tu faccia non tornerai a essere quella di prima. Mai, mai più.

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