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Antonio Carulli. Sfiducia e sragione. Trattato teologico-politico

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La verità del Cristianesimo è tutta nelle dottrine dei grandi apologeti, dei logorati mistici, dei santi folli e vaniloquenti. Oltre questi, vi sono soltanto frotte di lebbrosi e una franta risma di canaglie. Persino Lutero, il fustigatore di Santa Romana Chiesa, vide i lati oscuri del Cristianesimo e del suo Dio quando, in risposta a Erasmo, scriveva: «Ora, se potessi capire con un qualche sistema come avviene che sia misericordioso un simile Dio, che mostra tanta collera e tanta iniquità, non ci sarebbe bisogno di fede» (M. Lutero, De servo arbitrio).

È alla fede, infatti, che fa appello il Cristianesimo per tenersi ritto sulle gambe mentre Paolo di Tarso gli regge le stampelle. In una delle sue lettere apostoliche costui dà conto alla massa dei credenti della misteriosa «cosa» chiamata fede (pístis) parlandone in questi termini: «La fede è garanzia di ciò che si spera, prova di ciò che non si vede» (Eb. 11, 1). Che è come dire a un cieco di trovare la via di casa camminando nella fitta boscaglia. Tuttavia, qualche versetto dopo nella stessa lettera, anche lui si rende conto che la fede è un compito difficile da sostenere e allora ci conforta con luna lunga serie di fallimenti: quello di Adamo, di Abramo, di Sara, di Enoch e così via. Ci dice, insomma, di tenere duro.

Anche le eresie hanno alimentato e sostenuto il Cristianesimo. Sebbene solitamente siano reputate crepe scricchiolanti nella dottrina della fede, esse invece vi hanno agito da rinforzo, da collante. Anzi, proprio la loro varietà e ricorrenza nella storia del Cristianesimo ha fatto sì che esso si mantenesse solido come la Grande Muraglia Cinese.

Pascal, per esempio, alla fede diede tutto sé stesso senza vacillare neppure un attimo. Sì, le diede tutto, anche la sua straordinaria lucidità di matematico unita all’esprit géométrique. Le Lettere provinciali che egli scagliò come un dardo infuocato contro la comunità dei gesuiti non sono soltanto la pertinace difesa del Giansenismo e dei suoi amici di Port-Royal, ma il rigoroso attaccamento a una fede, quella cristiana, che lo consumò fin nelle midolla.

Eppure il Cristianesimo agonizza già da un po’, o almeno da quando De Unamuno si fece carico di farcelo sapere. Poi, che fosse agonizzante soltanto il suo o quello di tutti, poco importa. Quello che interessa davvero, invece, è che non sia morto definitivamente e che si aggiri ancora tra di noi – come, secondo Marx, lo spettro del vecchio Comunismo nella vecchia Europa – con la fiera supponenza di chi, acciaccato e malconcio, dopotutto l’ha scampata grossa. Ora, come un abito buono per ogni occasione, ce lo teniamo addosso, questo logoro Cristianesimo rispetto al quale, secondo Croce, «non possiamo non dirci cristiani». (I più permalosi accolgono questa tesi come una funesta condanna).

Ma riflettiamo: cosa ne è, oggi, di quell’impietoso accanimento, di quella pugnace forza da combattimento che caratterizzava la vita e le opere di certi gladiatori dello spirito? Cosa è rimasto di tutta quella vis, di quella vampa incandescente che divorava coscienza e intelletto? Ebbene, non si può trascurare il fatto che il Cristianesimo di oggi sia una commodité, un’abitudine, come quella di lavarsi i denti la mattina. Il Cristianesimo ridotto ad abitudine fa del cristiano un abituato, uno, cioè, a cui niente fa più specie.

Da osservatore delle cose dello spirito, anzi da colui che (di certo provocatoriamente) coltiva «[…] l’ambizione ormai manifesta di diventare puro spirito», il filosofo Antonio Carulli qualche anno fa ha ampiamente argomentato questa tesi in un saggio su cui vale la pena di meditare ancora a lungo e il cui titolo, già di per sé, rifugge ogni fraintendimento: Sfiducia e sragione. Trattato teologico-politico (La scuola di Pitagora editrice, Napoli 2018).

La sua coraggiosa disanima del Cristianesimo si consuma rompendo radicalmente con ogni forma di fideismo conciliante. Il suo Cristianesimo non è più un orizzonte di verità da custodire o da difendere, bensì una struttura svuotata, un organismo postumo che sopravvive per mera inerzia culturale. Là dove una volta bruciava il fuoco delle eresie e delle controversie dogmatiche, insomma, oggi resta il cerino spento dell’abitudine. Anzi, come egli afferma, il Cristianesimo è «[…] un’abitudine che lascia spazio alle altre abitudini. Esso è inalienabile come il Natale e le sue luci, e il Capodanno con i botti. Nessuno può levarceli. Ti investono senza che stai lì a pensarci. […] Il Cristianesimo è l’unica cosa al mondo che, […] non deve dare giustificazione o prova di sé, o cambiare paradigma, perché sembra che lo schema seguito sia quello, pur facendosi nella storia, di non cambiare» (op. cit., p. 50).

Se per secoli l’esistenza di Dio ha dovuto sottoporsi a svariate prove (ontologica, cosmologica, teleologica, fisico-teologica…) per essere convincente e razionalmente accettabile, il Cristianesimo le ha passate tutte senza nemmeno affrontarne una. Cosicché al Cristianesimo, al quale siamo ormai abituati, non chiediamo niente, mentre a Dio mai facciamo mancare bestemmie «[…] e stiamo sempre ad indirizzargli i nostri patetici e insulsi cahiers de doléances» (op. cit., p. 51). E tutto questo perché il cristiano abituato non si fa domande. Per lui ogni cosa è data e fatta così com’è, come l’abete addobbato a Natale, la colomba e il ramoscello d’ulivo a Pasqua, la stretta di mano in segno di pace in chiesa o a maggio la dedica di un “fioretto” alla Madonna. Tuttavia, avverte Carulli, il cristiano abituato «[…] non è il vile agnostico: l’agnostico sa che in fondo in fondo Dio c’è, ma vuole recitare la parte odiosa dell’astenuto; l’accostumato a Dio invece sente nel fiato degli altri l’alito di Dio, del quale neppure si sogna di mettere in discussione – salvo rarissimi casi di rabbia che subito rientrano – l’esistenza. […] Il cristiano abituato è preceduto dagli altri, dalla società che fabbrica al volto di Dio, che precede, quella maschera che l’uomo odierno guarda fisso. L’agnostico finge di esercitare una opzione di scelta, l’Abituato è scelto da quella finzione (dietro cui potrebbe celarsi l’Immane) che da sempre gli hanno fatto scegliere» (op. cit,, p. 68).

In verità, la predisposizione dell’uomo all’abitudine era già stata sgamata da Bergson in Le due fonti della morale e della religione in cui poneva la questione nei termini che io qui sintetizzo à bâtons rompus: l’abitudine, questa attività dapprima intelligente e poi via via sempre più imitazione dell’istinto a cui l’uomo si concede beatamente e senza indugi, è possibile soltanto perché è giustificata dall’obbligazione morale. Questa è la forma che prende il lui – nell’abituato, natürlich – l’imperativo categorico che si annuncia con la frase «Si deve perché si deve».

Carulli rovescia tutto questo nell’attuale Cristianesimo che si perpetua con formule ripetitive, stantie, convenienti «[…] non perché si sa qualcosa, ma perché non si sa mai» (op. cit., p. 91). Come quando si entra in chiesa «[…] non per alzare gli occhi al cielo e scorgervi la perfezione divina, o per inginocchiarsi dinanzi a un altare, ma per una coazione a ripetere, per trovare la ripetizione di una spocchia, la prosecuzione di una masturbazione, l’allargarsi di un commiserevole solipsismo, la rivendicazione delle malattie dell’io…» (ibid.).

Tuttavia questo Cristianesimo che ha abituato le società occidentali alla comodità di una religione tutto sommato “innocua” e “sostenibile” non ha perso il fascino di una certa convenienza. Se il Cristianesimo “forte” dei secoli passati si scontrava frontalmente con altre religioni e culture (l’Islam, per esempio), questo Cristianesimo “debole” e abitudinario paradossalmente non oppone resistenza ideologica, e proprio per questo ingloba tutto e tutti, indistintamente. In altre parole, il dolce richiamo dell’Occidente è irresistibile perché irresistibili sono i piaceri e il vizio.

Questa è la tesi che Antonio Carulli sostiene nel Libro secondo (De motu migrantium) della sua opera e soprattutto nel Compendium finale. Qui egli rovescia la lettura comune e superficiale dei cosiddetti flussi migratori per restituirci la sua idea paradossale del fenomeno. La debolezza apparente dell’Occidente cristiano-democratico, sostiene il filosofo, è una strategia di sopravvivenza storica, capace di trasformare migranti ferventi in cittadini abituati. Nessuna paura di essere convertito all’Islam dai migranti che provengono da oltremare deve temere il cristiano abituato di oggi: «L’Occidente ha già il suo dispositivo di sicurezza: l’apatia» (op. cit., p. 193).

Addendum

Sebbene per sua stessa ammissione «ambisca a diventare puro spirito», Antonio Carulli ha anche un’idea lucida e precisa del corpo che ha espresso in un precedente e originalissimo saggio da affiancare a questo nella lettura. Si intitola Metafisica delle mestruazioni (Il melangolo, Genova 2017, pp. 99 – EAN: 9788869831065).

Vincenzo Liguori 

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Antonio Carulli, Sfiducia e sragione. Trattato teologico-politico, La scuola di Pitagora, Napoli 2018, pp. 231 – EAN: 9788865426630

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