Ti raggomitoli. Sei il tuorlo marcio di un corpo sfatto, punito, castigato dalla sofferenza. Ti fai notte anche di giorno. Cerchi il sonno che arriva dopo le lacrime, lo sfinimento. Speri di non svegliarti, di finire nella dimenticanza che evapora le idee. Resistono, però, quelle spietate che fanno a cazzotti con la bellezza che non riconosci più in niente. D’altronde richiami alla mente solo il buio, pensi che il tuo Dio non sia abbastanza pur invocandolo ad ogni passo di un dolore che si fissa in faccia come uno sfregio. Scegli il nero per distrarre il dolore con un altro dolore. Non esistono più i colori, ti infastidiscono, non li comprendi, li eviti perché ti fanno venire la nausea come i sorrisi altrui. Del resto, hai dimenticato come si stirano le labbra nell’accenno di una felicità. Incassi ogni cosa con sguardo spento, con l’indifferenza di un’egoista. Lo sei, quando non ti vuoi bene. Diventi buio con tante scalfitture. Eviti di guardarti allo specchio. Ti fa paura l’inconsistenza del corpo tramutato in carta velina. Ottusa rassegnazione di un silenzioso disfacimento di sè. Manca tutto: il pentimento, l’incoscienza, il coraggio. Esiste solo lo stallo nel vuoto, il pulviscolo dei demoni, il corrimano nell’aggressione dei pensieri feroci. La depressione ti martorizza. E’ difficile tenerla a freno, sottovuoto. Si impossessa del tuo pulito, dei granuli attaccati alle smagliature della tristezza, allo straripamento dell’anima che urla condanne e volontà in un’unica menzogna. Nel crepitio del patimento ti chiudi all’infinito, tanto grande è l’affanno verso la vita che trapassa da fiato a fiato nel componimento di una rottura, implacabile verso l’inquieto andare. Con le mani stringi l’aria. Sei stanco anche del sonno che non è pace, sollievo, ma lamento che bussa agli occhi per toglierti la follia.
In Martire a domicilio di Beatrice Beneforti per Castelvecchi Editore (pp 177) segui la protagonista, non ha nome, che fotografa, a casa loro, alcune persone con disturbi mentali. Ha iniziato con Carlo, un anziano schizofrenico incapace di qualunque interazione, che sui fogli che gli davano in ospedale scriveva “Sogno i morti di tutto il mondo”. Lungo la strada che costeggia il vecchio manicomio di Pistoia, la protagonista trova la sua cartella clinica, piena di disegni fatti con la biro. Immortala anche Alberto che ha invertito il giorno con la notte, preferisce la luna. Pare non soffrire mai. Segue, però, una terapia molto forte. Come sarebbero tutte queste anime senza psicofarmaci? Sarebbero uomini violenti, innocui? E lei, demolita dalla stesso male, ha bisogno di isolarsi, di farsi amica la solitudine, di impazzire nell’affogo di una marea di pensieri, per tornare a crescere prendendo ciò che la vita consegna con dannazione.
Il libro consacra la realtà di chi rimane ingoiato nel buio della depressione che sfocia anche nella pazzia. La narrazione svela l’autenticità del tormento e della smania di riuscire a respirare con regolarità, senza affanni, senza dolore. La scrittura di Beatrice Beneforti è salvezza e forza incontrollata, incontrollabile, assoluta.
Lucia Accoto