“Nella stanza di Emily” di Benedetta Centovalli (La Tartaruga, 2025 pp. 176 € 17.00) esce nelle librerie il 24 gennaio. Il libro arreda le pareti interne dell’anima, allestisce, nella cornice enigmatica e affascinante del distacco contemplativo e della solitudine spontanea, l’intensa e intima ispirazione della grande poetessa Emily Dickinson. Benedetta Centovalli approda a Homestead, la casa di Amherst (oggi museo) della poetessa, in cerca di tracce evocative, negli indizi delle emozioni irrisolte, nel viaggio in uno spazio privato e simbolico oltre la segretezza interiore dei fantasmi. La stanza, luogo familiare e privilegiato del proprio isolamento, nascosto dietro le mura dell’immaginazione, è l’ingresso alla poetica dell’esistenza, attraverso una personalissima resistenza e sovversione al mondo, un incantevole sostegno della tenacia alla propria felicità, un innovativo segnale di allontanamento dalle convenzioni sociali. L’autrice ripercorre l’itinerario espressivo della libertà e della poesia, racchiuso nella concentrazione assoluta e prestigiosa dell’impulso creativo, documenta con la struggente e prolungata suggestione delle fotografie l’emozione intangibile e inviolabile del vissuto quotidiano, ospita la prospettiva di un patrimonio letterario che ha, nell’infinita possibilità di visitare il dono devoto della parola, oltre il vizio trafitto dello smarrimento, tutta la sua inestinguibile speranza. Posa la destinazione della poetessa Emily Dickinson nella costruzione di una vita disgiunta e impressa nel sigillo di una lontananza, adottata nella previsione della fiducia e del desiderio della scelta di ritirarsi a comporre versi, sorvegliare ed esaminare il mondo dal proprio spiraglio temporale, rivolgere la sua attenzione alla cura dei fiori e al giardino. Intraprende un tragitto incisivo anche dentro se stessa tramite la figura emblematica della poetessa, nelle corrispondenze imperscrutabili tra la scrittura e la vita e nei suoi reconditi e fantasiosi significati. Da quel “osservatorio implacabile”, dalla stazione preferita di un rifugio dal quale si analizza l’alloggio spirituale e l’efficacia poetica, segregata e solitaria, nascono i germogli della riflessione e della comprensione, le fertili capacità analitiche, restituite all’autonomia e alla redenzione. La stanza, dove risiede un universo innalzato oltre il perimetro oscillante del pensiero, introduce la visita guidata delle motivazioni di un cammino privato e confidenziale, occupa il territorio della congiuntura con il magico vincolo della fantasia, nel coinvolgente magnetismo, sostenuto dall’intervento personale del sentimento intramontabile e perenne dell’appartenenza, dal raccoglimento introspettivo, dallo svelamento dell’infinità. Benedetta Centovalli consegna l’estrema riservatezza di una predilezione difesa tenacemente nel tempo come riserva emotiva, riveste l’atmosfera dei versi della poetessa nella densa sensibilità. L’opera suggerisce la finalità del superamento di ogni ingresso nelle avversità, in limine tra lo spazio e il tempo, in bilico tra le coordinate transitorie e fugaci dell’essere. Insegna come scrivere sia uno strumento nobile per salvarsi e limare la sofferenza, gestire la consapevolezza per concedere una permanenza alle proprie emozioni ed esitazioni, nell’esempio commemorativo di una presenza commovente che dal suo faro esplorativo, senza mai superare lo steccato del suo giardino, ha indicato il riverbero luminoso dell’elegia. La vocazione lirica orienta il principio cristallizzato delle parole, avvia la traversata avventurosa dell’animo umano, varca la frontiera dell’estraneità e dell’inadeguatezza al contesto culturale rigido e severo, cerca la ragione impenetrabile dell’intimità, raggiunge la riva dell’esilio dall’umanità, oltre i dolorosi turbamenti, accompagna l’entità superiore e trascendente ritratta sulla carta, suggerendo il transito medianico e ricettivo di ogni aspirazione lungo le pagine del libro.
“Ogni vita converge a qualche centro, /dichiarato o taciuto; /esiste in ogni cuore umano/una mèta/ch’esso forse osa appena riconoscere, /troppo bella/per rischiare l’audacia/di credervi.”
Rita Bompadre
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Una stanza di guerra.
Ho cercato Emily nella sua casa di Amherst, lì è scattato il gioco degli specchi e del riconoscimento. L’ombra ha finito per coincidere con il discorso della soglia, perché abitare la soglia significa abitare la possibilità, in un attraversamento che non finisce mai di compiersi. La letteratura – praticata a qualunque livello – vissuta come attraversamento, senza destinazione se non l’attraversamento stesso.
Emily avrebbe voluto uscire allo scoperto con il proprio lavoro ma per ragioni diverse – come in altri casi di altre donne, ma non solo di donne – non ha potuto farlo, lasciando dietro di sé semi destinati a crescere come baobab. Ma lei aveva una volontà fortissima che non è stata piegata dalle difficoltà. Anzi Emily trasformava
ogni sconfitta in occasione di creazione. Umiliazioni, incomprensioni, disillusioni vanno a comporre la sua mappa del mondo nella sua war room (Camille Paglia).
Sono andata ad Amherst, Massachusetts, per realizzare il mio vecchio desiderio di visitare la casa di Emily Dickinson e interrogare quella sua dedizione estrema alla poesia. Lei, Emily, una che vestiva di bianco, che girava per casa con due gigli in mano e con poesiescritte a lapis su foglietti e ricette infilati in tasca. Non ci sarebbe stato un domani per quelle poesie. Una che ha vissuto sempre nella stessa austera cittadina puritana, nell’abitazione di famiglia. Il padre Edward, duro e terribile, la madre Emily Norcross, fragile, convenzionale e incurante del pensiero, la sorella Lavinia, la governante Maggie, e, a pochi metri dalla sua casa, l’abitazione del fratello Austin e di Sue, il legame più forte di tutta la vita (“anche se per la Donna che alle altre preferisco, Qui è sempre un Giorno di Festa – Nei tagli delle mie Dita, si troveranno le Sue –”, Cambridge, circa 1864, LL 288; “Per chi è fedele l’Assenza non è altro che il condensarsi di una presenza. / Per gli altri – ma non ci sono gli altri –”, aprile 1878, LL 587; “Susan – / sarei venuta fuori dall’Eden per aprire la Porta a te se solo avessi saputo che eri lì –”, circa 1880, LL 662). Una che ha deciso a poco più di trent’anni che la sua stanza con il letto a slitta e i due ritratti di scrittrici vicino al tavolo di lavoro – quello di George Eliot e di Elizabeth Barrett Browning – potevano bastare.
Sono andata a cercarla nella sua Homestead in Main Street, ho trovato una donna con la volontà di realizzare le proprie ossessioni a qualunque costo. Passeggiava dietro la sua casa accompagnata dal fedele terranova Carlo. Davanti alla finestra dove lavoro in queste settimane di isolamento obbligato i due alberi hanno cominciato a mettere le foglie e l’ippocastano, rapido e senza ripensamenti, ha già costruito le sue architetture di fiori bianchi. La neve è un ricordo lontano.