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Boris Akunin. L’avvocato del diavolo

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Il testo obiettivamente più godibile alla lettura – perlomeno dal mio punto di vista – che però, in certi, determinati punti, ho sentito più ostico; punti sui quali sono dovuto diverse volte ritornare, non tanto per la difficoltà stilistica in sé, né tantomeno per la traduzione non confacente al ritmo dell’originale (anzi, tutt’altro, essendo il lavoro di trasposizione dal russo all’italiano dei tre traduttori, Beretta, De Nigris e Ferosi davvero certosino) ma proprio, suppongo, per una mia personale incompatibilità di fondo, tematica, con quanto messo su carta da B. Akunin (scrivo il suo nome, che è poi uno pseudonimo, proprio in questa maniera poiché trattasi del motivo per cui l’ha scelto).

Nella presentazione editoriale in quarta di copertina il testo (anzi, il racconto, così come viene detto nel titolo) è definito “una satira spassosa e feroce contro tutti i regimi e contro ogni limitazione della libertà di espressione” e, con questa proposizione, concordo di certo, a patto però che il termine satira lo si “innalzi” – oppure, detto in altra maniera, lo si faccia tornare alle proprie origini – fino a farlo ri-collimare con la satura latina, genere al contempo letterario e teatrale che ha visto i suoi principali virtuosi (è chiaro che i nomi li si possa fare a riguardo soltanto della parte letteraria) nel quasi pre-letterario Ennio, nell’augusteo Orazio (la cui satire erano autentici Sermones) e nel Giovenale vissuto in Età Flavia. Bene, dal punto di vista stilistico/linguistico – presenza contemporanea ma mai mischiata di differenti registri – L’avvocato del diavolo si può ritenere degno erede dei lavori dei tre sopracitati (insieme ai molti altri autori di saturae contemporanei a qualcuno di quelli: Pacuvio, Lucilio, Persio…), a mancargli, però (cosa che manca certo anche alle satire dei sopra menzionati) è il risvolto teatrale nel vero senso della parola, dunque che non sia una semplice sensazione posta su carta, bensì una effettiva visione, recitata, di quanto viene narrato. Si tratta, insomma, del libro più “teatrale” che abbia finora letto, ma questo, benché ammetta che in certi, determinati passaggi, mi abbia messo quasi in difficoltà, non ha rappresentato il problema maggiore.

Ho parlato, in apertura, di incompatibilità tematica tra il mio sentire e quello che invece è quello di Akunin (al secolo Grigorij Salvovic Chartisvili, sessantanovenne scrittore russo di chiare – si possono desumere dal cognome – ascendenze georgiane: proprio come quelle di quella celebrità patria che morì nel 1953), ma sarebbe forse più corretto volgere questa incompatibilità dal punto di vista terminologico: a farla da padrone, lungo tutto il corso della narrazione, sono i riferimenti ad autoritarismo e totalitarismo, quelli della vecchia Russia del morente Leader Nazionale ma anche quelli dei nuovi governanti, presentatisi e accolti sotto i migliori auspici ma evidentemente incapaci di resistere alla tentazione autoritaria che permea quelle vastissime lande. La miglior comprensione dei due termini, che troppo spesso una semplificazione al contempo linguistica e ideologica fa passare per sinonimi, personalmente l’ho desunta dalla lettura, una decina d’anni fa circa, di uno dei tre volumi componenti La trilogia della celtica di Nicola Rao (La fiamma e la celtica, Sperling & Kupfer, 2006). Nella fattispecie, a parlare era Enzo Erra, tra gli esponenti principali e più onesti intellettualmente del mondo della destra radicale italiana, parlamentare ed extra; egli, ricordando di una sua conversazione col Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat basata su di un’intervista rilasciata dal primo al quotidiano romano Il Tempo, metterà nero su bianco la differenza tra il tiranno autoritario e quello totalitario: quello ti proibisce il dissenso, questo ti obbliga al consenso; differenza sottile ma sussistente, della quale convenne anche l’antifascistissimo socialdemocratico Saragat. Ecco, dunque: nonostante l’ovvia differenza culturale esistente tra il cosiddetto Occidente (sempre più al tramonto), del quale, ci piaccia o meno – e al sottoscritto non fa piacere più di tanto – ancora facciamo parte e la Russia, che certo può portare a considerazioni diverse su di una stessa tematica, addirittura su di uno stesso termine, ritengo che avere ben chiara quella differenza (o comunque che ci sia una differenza tra i due termini, totalitarismo ed autoritarismo, non pretendo certo che tutti facciano propria quella di Erra) sia conditio sine qua non per poter affrontare al meglio la lettura de L’avvocato del diavolo; diversamente da ciò, si rischia di uscire dalla sacca di quelle 120 pagine spiazzati e ancor più confusi.

Il diavolo del quale il protagonista del racconto, Boris Turgencikov, scrittore dissidente esule dalla Russia del vecchio Leader Nazionale ora decisosi a tornare, irretito dalle sirene dei discorsi dei “nuovi”, diviene avvocato, è nientemeno che il vicesegretario dell’autocrate da poco deposto, ora assunto a capro espiatorio di tutte le malefatte compiute in anni e anni di governo: in occasione del processo-farsa istituito contro quello, Boris si rende tristemente conto di come la giustizia finalizzata alla propaganda ideologica e i processi mentali stile lavaggio del cervello alla popolazione utilizzati da coloro che si opponevano ai vecchi governanti al grido di “Onore e Onestà!” collimino tragicamente con quelli di questi.

Un po’ quello che accadde in piena era di destalinizzazione, quando si provò ad assumere a capro espiatorio Lavrentij Berija, secondo la figlia di Stalin, Svetlana, “l’anima nera del dittatore sovietico”, considerato il vero ispiratore delle persecuzioni e dei delitti politici staliniani.

Per concludere, un riferimento a ciò che sta all’inizio, l’Introduzione di Paolo Nori: so di persone che saltano a piè pari le introduzioni ai libri, per non farsi influenzare, dicono loro. Auspico nessuno lo faccia avendo tra le mani L’avvocato del diavolo di B. Akunin, ché le parole introduttive di Nori – ad avviso di chi scrive degnissime di essere sviluppate in un saggio indipendente – sono state poste lì per un motivo, non per fare volume (come tutte le introduzioni, comunque)! Quel Paolo Nori che ha certamente da dire le proprie sugli argomenti autoritarismo/libertà di parola, quest’ultima, specie ultimamente, sempre più negata anche in quelli che vanno via via sempre più (auto)definendosi “regimi democratici”.

Alberto De Marchi

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Boris Akunin, “L’avvocato del diavolo (racconto dell’orrore)”, collana Omnibus Stranieri di Mondadori, 2025, 120 pagine, euro 17,50

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