Per capire l’importanza di questo “Il diavolo, probabilmente. Vita di Robert Johnson” (Il Saggiatore, 2024, pp. 329, € 28. Traduzione di Marco Bertoli) di Bruce Conforth e Gayle Dean Wardlow è necessario innanzitutto partire dal tempo impiegato dai due autori per darlo alle stampe: più di 50 anni! Oltre mezzo secolo di instancabili ricerche e severo vaglio di documenti e fonti a disposizione per cercare di far luce sulla misteriosa parentesi terrena e artistica di colui che, a ragione, può essere considerato una delle figure più importanti nella storia della musica popolare del Novecento e non solo.
Scomparso per avvelenamento a soli 27 anni nell’agosto del 1938 (e si noti che Gayle Dean Wardlow, nel 1968, è stato anche lo scopritore del suo inizialmente introvabile certificato di morte), il formidabile chitarrista di Hazlehurst è, come sappiamo, rimasto praticamente sconosciuto ai più fino al 1959, quando la pubblicazione del capitale “The Country Blues” di Samuel Charters, cioè quello che può essere considerato il primo saggio scientifico interamente dedicato al blues, cominciò a far (ri)circolare il suo nome e dette il la ad una progressiva riscoperta che, nel corso dei decenni successivi, per quanto penalizzata dall’esiguità delle sue incisioni e dalle poche notizie biografiche, lo ha fatto assurgere non soltanto al ruolo di “eminenza” assoluta del genere, ma anche, in qualche modo, a padre putativo del rock. Status, quest’ultimo, riconosciutogli sì per i funambolismi sullo strumento e per le innovazioni apportate che tanto ispirarono e continuano a ispirare milioni di chitarristi in ogni angolo del globo, ma anche per aver sdoganato più di chiunque altro prima di lui un certo stile di vita improntato alla dissolutezza più sfrenata da parte di un musicista (in particolar modo per la compulsiva propensione al sesso e all’alcol). E poi, ovviamente, per essere stato il protagonista di un presunto aneddoto “diabolico” che lo avrebbe visto ricevere all’improvviso il suo talento unico sulla sei corde dopo aver venduto l’anima al diavolo. Ecco, è proprio sull’analisi di quello che a tutti gli effetti può essere ritenuto il tòpos più chiacchierato della “letteratura musicale” di ogni tempo, che la serietà demistificante della trattazione dei due autori si dimostra maggiormente all’altezza: a fronte, infatti, di un continuo, a volte anche compiaciuto sfruttamento narrativo e pubblicitario di questo leggendario patto tra Johnson e il “maligno”, riscontrabile in modo più o meno evidente in decine e decine di pubblicazioni precedenti (per non parlare del mito alimentato intorno ad esso sia per via orale che scritta da centinaia di migliaia di appassionati delle sette note), il rigore dell’indagine, nonché la ricchezza delle testimonianze e dei dati messi a confronto, danno vita ad alcune delle pagine più illuminanti del testo. In particolar modo per la chiarezza con la quale riescono a far emergere l’insussistenza storica del famigerato incontro, dimostrando come la perizia strumentistica di Johnson fosse in realtà dovuta non soltanto ad un’innata dote naturale, favorita anche da una prodigiosa memoria eidetica, ma anche ad un severo apprendistato fatto di interminabili esercitazioni quotidiane e di una felice assimilazione delle lezioni sui generis avute da Willie Brown (proprio quello reso famoso dal verso dell’immortale Crossroads johnsoniana) e da altri meno conosciuti bluesman, fino a quelle definitivamente strutturanti carpite dal misterioso Ike Zimmerman. Per riuscire in questo intento, Conforth e Wardlow mettono in campo una ricca serie di testimonianze di persone che con Robert Johnson avevano avuto a che fare quando era in vita (alcune delle quali completamente inedite fino all’uscita di questo volume), nonché a un lavoro di certificazione di luoghi, date e nomi a dir poco maniacale. Tale rigore, d’altronde, è riscontrabile in modo uniforme pressoché in ognuno dei sedici capitoli che compongono questo “Il diavolo probabilmente”, dove, nei limiti del possibile e del possibilmente ricostruibile, emerge un’impostazione improntata al massimo scrupolo e, quando ciò non è possibile, al buonsenso più cauto e meno favolistico. Senza per questo che lettura si faccia mai meno che appassionante, visto che il profilo di Johnson che viene a delinearsi non perde nulla dell’aura mitica e maledetta della quale è da sempre ammantato e della quale, inevitabilmente, sempre sarà ammantato.
Come viene specificato in premessa e nell’epilogo dagli autori, con ciò che si ha a disposizione oggi, questa può essere più che ragionevolmente considerata come la biografia definitiva del creatore di Sweet home Chicago, Love in Vain e di un altro esiguo manipolo di canzoni che sono state in grado, forse come nessun altro, di segnare un momento di svolta epocale nella musica contemporanea. È chiaro che nuove, per quanto a questo punto difficilissime, scoperte in materia potrebbero dirci e darci qualcosa di più in futuro, però, ad oggi, questa è da considerare senza esitazioni una vera e propria “bibbia”. Ragion per cui è tassativamente vietato rovinarne il piacere della lettura addentrandosi in qualsiasi tipo di anticipazione su quello che racconta, ed è tassativamente vietato, per ogni persona che ami definirsi un appassionato delle sette note, non averne una copia a casa.
Domenico Paris