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Brucia l’aria. Intervista a Omar Di Monopoli

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Da quando è uscito l’atteso Brucia l’aria, edito da Feltrinelli editore, Omar Di Monopoli è un po’ lo scrittore italiano del momento.

In questo periodo è in giro per le città italiane con un tour promozionale che sta andando molto bene.

La sua è una scrittura complessa, impastata del miglior italiano e il dialetto più crudo. Di Monopoli ha inventato un modo di scrivere inimitabile, che lo contraddistingue e lo rende subito riconoscibile.

Come le altre della sua produzione, anche questa storia è ambientata a Languore, città inventata di una Puglia reale, spogliata dall’immagine vacanziera e commerciale. Una terra violenta, cattiva, ma anche piena di un amore sconfinato.

L’umanità che racconta Di Monopoli è pregna di tutte quelle contraddizione che rendono vivi i personaggi. Per questo i lettori lo seguono e lo sentono vicino.

Curioso della sua vita, del suo passato, del suo essere scrittore, ho avuto la fortuna di rivolgergli alcune domande.

Pierangelo Consoli

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La prima cosa che mi incuriosisce di uno scrittore sono le sue abitudini lavorative: quali sono le tue, dove scrivi, quante ore in un giorno?

Scrivo ogni giorno ma non necessariamente narrativa: recensioni per i giornali, post per i social. Sono sempre attivo sulla tastiera e anche quando non sono al tavolo ho un taccuino – anche mentale – sul quale annoto fatti, notazioni, suggestioni, aggettivi.

Come superi i momenti di blocco, se ne hai? Per esempio, Woody Allen fa la doccia, quando non riesce a trovare una soluzione narrativa apre l’acqua. Houellebecq cammina. Cosa fa Omar Di Monopoli?

Faccio ciò che consigliano di fare i manuali di scrittura creativa: rileggo ciò che ho scritto il giorno prima, o il mese prima, cerco inesorabilmente insomma di ritrovare il filo perduto. E se non funziona, apro un libro dei maestri che tengo a modello. Gli americani del Sud degli Stati Uniti, oppure gli scrittori nostrani più dotati, quelli cui voglio assolutamente somigliare. Cerco di rubare i segreti della loro arte e di farli miei.

Mentre leggevo Brucia l’aria, avevo due immagini ricorrenti: Gadda e una pistola. Ti sembra un’associazione libera sensata o solo patologica?

No, no, direi che ci stanno. La pistola per ovvi motivi: scrivo dei noir meridionali (o western gotici, vedi tu) e le armi giocoforza

Foto di Salvatore Caraglia

sono parte del mio equipaggiamento narrativo. Invece Gadda è più sottile: non è un mio riferimento immediato – lo adoro, ma guardo a modelli «altri» – eppure è il nume tutelare di tutti gli scrittori italiani, anche di quelli che non lo conoscono affatto, per il semplice motivo che nelle sue pagine l’ingegnere ha saputo codificare moduli semantici che danno ancora oggi il passo a chiunque scriva (per dire: in Adelphi guardammo a lui per l’uso del pronome atono davanti al verbo avere in forma univerbata: «ciài», «ciabbiamo», «ciavete» anziché gli equivoci «c’hai», «c’avete» ecc)

Hai mai usato un’arma da fuoco?

Sono un obiettore di coscienza ma da ragazzo mio babbo mi portava a caccia. Ogni tanto mi permetteva di usare la doppietta contro i barattoli, facendomi sentire Clint Eastwood (esperienza che in qualche maniera ho riprodotto in alcuni dei miei libri)

Alterni due registri, uno molto alto, un italiano davvero ricercato e uno basso, vernacolare, ottenendo una miscela che ti rende particolarmente riconoscibile. Quando hai realizzato che questa sarebbe stata la tua “Voce”?

Avevo fatto dei tentativi in giovinezza, quando disegnavo cercando di diventare un fumettista come A. Pazienza (che non a caso lavorava tantissimo sul linguaggio infarcendolo di dialetto) eppoi a un certo punto smisi di guardarmi l’ombelico per scrivere del mondo che mi circondava, della mia terra, delle contraddizioni che la percorrevano. E di come attraverso di essa potessi provare a parlare a chiunque, anche a chi non sapeva nemmeno dove fosse, la Puglia.

La prima volta che hai detto ce l’ho fatta, sono uno scrittore?

Direi quando, dopo decine di rifiuti e silenzi infiniti, con «Uomini e cani» cominciarono a fioccare le proposte editoriali. Capii che avevo scoperto la mia «voce», che la via intrapresa era quella che mi somigliava di più.

L’ultima in cui hai detto basta, non ce la faccio, mi cerco un altro lavoro?

Capita ogni giorno, non c’è alcuna aura sacrale in questo lavoro, né si arriva mai in qualche vagheggiato Olimpo dei privilegiati. La gente pende dalle tue labbra perché proietta un sacco di roba su di te, ma in realtà è un lavoro durissimo, fatto – al pari di moltissimi altri mestieri – di dedizione, studio e applicazione. E i risultati sono altalenanti esattamente come per il resto: un traguardo irto di soddisfazione oggi, una delusione cocente domani. Un ottovolante. Pura sinusoide emozionale.

Qualcuno ha detto che scrivere di violenza è liberatorio, se questo è vero, quanto è libero Omar Di Monopoli?

Non credo lo sia in assoluto, anzi. E non mi sento più libero solo perché rifletto sul Male nei miei libri. Le ragioni che ci spingono alla violenza sono un po’ più oscure e profonde della semplice rabbia, e le implicazioni psicologiche di un simile, inestirpabile afflato sono materia assai solleticante, per uno scrittore: il rischio è di farsene sedurre tralasciando la componente nobile dell’animo umano. Io cerco di attenermi alle conclusioni di Georges Bataille: «l’uomo è capace di amarsi solo se si condanna».

A cosa serve ancora scrivere letteratura di finzione? Al di là della passione, mi piacerebbe conoscere, se esiste, una ragione più profonda che ti spinge.

Da sempre sono convinto che la letteratura – e l’arte in generale – contribuiscano a riordinare il caos della realtà. La fiction è meravigliosamente efficace nel mostrare la complessità della vita, le mille sfumature morali quotidiane in cui ciascuno di noi perde il senno e, straordinariamente, lo ritrova giorno per giorno.

Che tipo di lavori hai fatto prima di diventare scrittore?

Ero grafico e redattore all’interno di piccole realtà editoriali del Salento, dove vivo. Ma prima ancora mi sono mantenuto agli studi per mezzo di una proficua attività di muralista nei pub e ristoranti: affrescavo le mura dei locali con gigantesche immagini

Che ragazzo è stato Omar?

Curioso. Ma sempre molto discreto. Ascoltavo parecchio gli altri e tornavo a casa sentendo le loro voci risuonarmi nella testa (come un matto, o un posseduto. Ma la formazione dello scrittore è quella di un ventriloquo, o di un imitatore: guardando gli altri, i loro tic, la loro prossemica emotiva, impari a gestire le psicologie!)

Hai mai scritto una lettera d’amore?

Eccerto. Soprattutto in giovinezza. Tenere e ingenue come sono spesso quel tipo di componimento. Poi per un meridionale è davvero dura: cresciamo in una una cultura per la quale mostrare i propri sentimenti ti rende debole, diverso, quindi il trasporto verso l’altro è foriero di mille ripensamenti. Ma ho sempre trovato compagne comprensive.

Che uomo sei oggi?

Domanda complicata. Mediamente nevrotico, direi. In perenne lotta con il proprio (e soprattutto altrui) narcisismo. Corrucciato per gli anni che passano ma anche contento di aver vinto molte delle insicurezze prive di fondamento che la giovinezza comporta. E finalmente non più ossessionato dall’idea di doversi mostrare solido, granitico, macho a tutti i costi. E infine anche un po’ scassapalle, ché l’età favorisce questa deriva.

Lascerai mai la Puglia?

Ci penso ogni giorno. Poi trovo sempre un motivo, una persona, un colore del cielo che mi incatena a questa terra.

Brucia l’aria, Omar Di Monopoli, Feltrinelli editore, pp. 208, euro 17.

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