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Calcio & Letteratura. Intervista a Pippo Russo

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Una dozzina di anni fa, con “Il mio nome è Nedo Ludi”, Pippo Russo irruppe nella scena letteraria firmando un cult book apprezzatissimo dalla critica e osannato da uno stuolo di ammiratori che, non a torto, salutarono questo debutto come: “Il più bel libro sul calcio che sia mai stato scritto in Italia”. Dopo travagliate vicende editoriali e un’inspiegabile assenza dal mercato, questo gioiello di inventiva e competenza pallonara (e letteraria, ça va sans dire) lo scorso 2017 è tornato a disposizione in una nuova, ponderosa versione per i tipi della Clichy, arricchito di un seguito del quale ci rifiutiamo di darvi una qualsiasi indicazione per non guastare il piacere di chi avrà la fortuna di leggerlo.

Abbiamo però rivolto delle domande al suo autore (undici, naturalmente, come i giocatori di una squadra di fùtbol, come lo chiamava il grande Gianni Brera), per cercare di scoprire qualcosa in più sulla genesi e il makin of di una delle sorprese più gustose degli ultimi tre lustri.

Fischio d’inizio e parola a Pippo Russo.

In qualche modo, si può dire che “Nedo Ludi. Il Ritorno” sia stato voluto dai lettori, innamorati della tua prima opera narrativa. Eppure per molto tempo il romanzo è stato assente dagli scaffali delle librerie. Perché?

L’assenza, fondamentalmente, è stata dovuta al fallimento della vecchia Baldini&Castoldi, che quando è tornata operativa in una nuova veste, nonostante il libro fosse stato molto apprezzato, ha deciso di non ripubblicarlo. Quindi, non appena sono rientrato in possesso dei diritti editoriali e, avendone nel frattempo concepito un seguito, ho pensato di dargli nuova vita pubblicandolo in un unico volume con la Clichy.

I due libri abbracciano un arco temporale che va  dagli anni Ottanta alla metà dei Duemila. Il racconto dei fatti calcistici è stato anche un modo di addentrarti in quel quarto di secolo di storia italiana o no?

Io credo che quello preso in considerazione dai due “Nedo” sia stato un periodo storico particolarmente importante per il nostro Paese, durante il quale sono successe tante cose che si sono puntualmente riflettute sul mondo del calcio, che, quindi, va considerato un po’ come una sorta di grimaldello attraverso il quale il lettore può familiarizzare, anzi, avventurarsi sarebbe il caso di dire, in certi scenari sociali ed economici dell’epoca in cui viviamo. Per questo motivo la cornice storica del romanzo non può essere certo considerata un mero sfondo, ma invece un riferimento molto importante per comprendere certi passaggi cruciali dell’opera.

Perché hai scelto come protagonista uno stopper e non un giocatore con maggiore visibilità in campo?  E si rifà in qualche modo a un giocatore reale del recente passato?

Perché con l’avvento del modulo a zona nel calcio, insieme a quello di libero, è stato il ruolo che ha dovuto pagare lo scotto più grande e mi ha fornito automaticamente un punto di vista “resistenziale” e, dunque, assai stimolante a livello narrativo. Per quanto riguarda un diretto ispiratore del mio protagonista, no, non c’è mai stato. Nedo è un personaggio di pura fantasia.

Calcio e letteratura, un binomio che nel corso degli anni ha dato vita  a migliaia di romanzi, saggi, monografie . Ce n’è qualcuno che hai tenuto presente nella stesura di queste pagine e, se c’è, qual è?

Innanzitutto, bisogna dire una cosa molto importante: si scrivono troppi libri sul calcio e un buon 90% sono davvero di bassa qualità. Fatta questa doverosa premessa, ci sono naturalmente anche numerose, piacevoli eccezioni e tra queste mi piace ricordare soprattutto “L’angelo calciatore” di Hans-Jørgen Nielsen, uno dei più grandi capolavori che abbia letto in vita mia.

Al netto di tutto ciò che di corrotto e negativo si legge sul mondo del calcio, tu credi che le magie di certi giocatori siano assimilabili a quelle prodotte da un talento artistico o debbano essere considerate due peculiarità completamente differenti?

Certo! I grandi calciatori sono la massima espressione di creatività nel loro settore. Con i piedi sanno fare cose straordinarie, sono in grado di illuminare. Esattamente come accade con le prodezze della penna o del pennello dei grandi scrittori o dei grandi pittori. Non credo ci sia nessuna particolare differenza, possono essere considerati a tutti gli effetti degli artisti.

Sei ormai da tanti anni un apprezzato giornalista e saggista sportivo. In questa tua doppia prova legata a Nedo Ludi credi di essere riuscito ad essere solo un romanziere “puro” o pensi che la tua esperienza lavorativa abbia avuto una sua incidenza stilistica o anche solo di impostazione?

Non mi sono mai posto il problema della “purezza” in nessuno dei miei tre campi d’azione, volendo aggiungere alla narrativa e al giornalismo anche la sociologia (che insegno da anni all’università). Sono sempre state tre identità intrecciate tra loro e, al di là degli eventuali rischi di specifica efficacia nei quali sono eventualmente potuto incorrere, non ho mai voluto tenerle separate tra di loro, perché credo che proprio dalla loro sovrapposizione prenda origine la mia cifra stilistica.

Qual è o quali sono stati i giocatori più “letterari” del passato e quali quelli che calcano i campi ai giorni nostri?

Non c’è alcun dubbio possibile: Diego Armando Maradona. Oltre ad essere stato il più forte di tutti i tempi nel rettangolo verde, ha avuto una vita talmente “al cubo”, da far parte della mitografia contemporanea quando ancora è in vita. Tra i giocatori moderni, invece, non credo ci sia nessuno in grado di stimolare una qualche forma di epica letteraria o popolare: sono più che altro degli oggetti di marketing, niente a che vedere con il genio di Lanús!

Se ti chiedessero di spiegare il tuo amore per il calcio in poche battute, cosa risponderesti?

Beh, innanzitutto che in questo preciso momento storico è un amore che va scemando, soprattutto dopo le inchieste che ho condotto e che mi hanno portato a scoprire, in particolare nella cosiddetta “finanza calcistica”, delle cose che, da innamorato di questo sport, non avrei mai voluto sapere. Se però potessi astrarre e riportare il discorso su un piano puramente ideale, direi che il calcio è un grande sogno che si comincia a sognare da ragazzini e che si vorrebbe non finisse più. È una metafora meravigliosa della sfida ed è anche un gioco assolutamente equo, che regala una possibilità a tutti: nel calcio, infatti, non è detto che a vincere sia sempre il più forte. Anzi, la sorpresa è sempre dietro l’angolo e trovo che questo sia bellissimo.

Spesso nella tua carriera di saggista hai affrontato argomenti extra-sportivi e di costume. Credi che in futuro, dopo “Memo” e “La memoria dei pesci”, ci sarà ancora spazio per qualche altro romanzo lontano dai lidi calcistici?

In questo periodo ho diversi lavori aperti e, tra questi, anche di argomento extra-sportivo. Non so dare dei tempi precisi, ma sì, sono fiducioso di licenziare in un futuro prossimo qualche nuovo libro… “narrativo”.

Chi sono, se ci sono, gli scrittori fondamentali per Pippo Russo?

Quello più importante è sicuramente António Lobo Antunes. Mi piace molto il Gabriel Garcìa Mârquez di “Nessuno scrive al colonnello” e, da buon agrigentino, non posso certo dimenticare Luigi Pirandello. In ogni caso, sono sempre piuttosto restio a dare patenti di qualità agli scrittori come leggo spesso fare. Preferisco essere, diciamo così, discreto sull’argomento.

Il prossimo giugno, l’Italia calcistica vivrà il dramma della mancata partecipazione ai mondiali di Russia: è possibile secondo te spiegare le ragioni di questo fallimento epocale? E cosa proverai nel non vedere, per la prima volta nella tua vita, gli azzurri protagonisti in una rassegna iridata?

Questo disfatta parte da molto lontano, segnatamente dal principio degli anni Novanta, quando si è riusciti a disperdere il patrimonio di una ricchezza economica straordinaria nel mondo del calcio senza preoccuparsi di costruire qualcosa di duraturo e senza fare un minimo di programmazione a lungo raggio come invece è avvenuto in altri paesi. Ero sicuro che prima o poi saremmo arrivati a questo punto, perché non puoi sperare di andare sempre avanti adagiandoti sulla gloria dei fasti che furono, mentre gli altri si impegnano a migliorare e a innovare. È pura follia e la mancata qualificazione costituisce e costituirà un memo, oltre che una macchia, indelebile.

Non vedere la nazionale sarà quasi uno shock, per me come per tutti gli italiani, ma la speranza è che questa Caporetto insegni qualcosa e possa costituire un punto di ripartenza sopra al quale riedificare un nuovo sistema di organizzazione del calcio (un po’ quello che dovrebbe accadere anche per altri settori della vita pubblica, economica e sociale della nostra Italia, che nel pallone, come detto, si è sempre specchiata). Speriamo!

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