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Cancogni e Pasolini

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Quando per tre volte di seguito nel giro di una settimana, senza volerlo, ti imbatti su un testo vuol dire che devi rileggerlo una quarta, anzi riscriverlo per cercare di comprenderne i motivi. E soprattutto per gli amici litterati e no che confondono la mediocrità per analisi politica. Il vino ora è talmente annacquato che anche un po’ d’aceto ci illude di trovare fiducia. Cancogni nel 1955 scrisse un articolo “Quattrocento miliardi” dentro l’inchiesta dell’Espresso “Capitale corrotta = nazione infetta”, e dodici anni dopo, il n. 50 della Fiera letteraria ospitò questa intervista che riassumo nei punti salienti. Io ho capito, era ora! perché il Capitale usa progressivamente l’incompetenza degli addetti che ha in libro paga accelerando la competizione. 

Se è possibile scrivere un capolavoro? chiede Pasolini, è una domanda senza senso, dice. È una domanda pretesto, gli dice Cancogni, invitandolo a considerarla come un punto di partenza. D’altra parte è pur vero che si scrivono libri  abbastanza modesti. Come mai? Pasolini citando Goldmann afferma “Un piccolo Paese non può dare un grande scrittore”. E tu sei d’accordo? gli chiede. E Pasolini: Sì. Ogni libro è in rapporto al suo background culturale. Se questo è mediocre anche il libro lo sarà. Possono esserci delle eccezioni, è vero, ma allora si tratta di persone culturalmente apolidi, che vivono in Italia e scrivono in italiano per combinazione. Scrittori che hanno un taglio europeo, cresciuti in un circuito culturale più vasto. L’Italia è una piccola nazione, meschina. Lo ripeto: non può dare un grande libro. Ma chi ti obbliga a vivere nella meschineria italiana? Puoi fregartene delle chiacchiere dei letterati, uscire dai condizionamenti della cultura, per così dire.

Certo, risponde PPP ci si può estraniare… respirare un’aria più vasta… Parigi, New York. Prima uno scrittore italiano, era necessariamente italiano, e quindi condannato alla mediocrità…

Tutti i miei amici a vent’anni avevano già letto Joyce, Lawrence, Proust, Kafka, Freud, Eliot, Eluard, Rilke, Trakl, Heidegger, Jaspers, ecc. Tale e quale come ora. Forse con maggiore serietà, dice Cancogni. Chissà perché, mi chiedo, si presume che in passato si sia letto con maggiore serietà. E’ la mente del lettore che conta e non il periodo della lettura, pare ovvio, ma è un inganno dove si sosta spesso. A proposito di “vivere fuori” Cancogni afferma con parole più lievi delle mie che un cretino in via del Babuino rimane un cretino anche al Village. 

Ma si dice comunemente che si tratta di una produzione incoerente, priva di un denominatore comune come è stato per altre culture, quella romantica, o illuministica tanto per dare un esempio.
Anche il nostro secolo può essere culturalmente ben definito. Te ne posso riassumere con una parabola la storia. C’era nel mondo una società molto potente, decisa a conservare il potere con tutti i mezzi. Ma che cosa c’è di più colpevole che detenere il potere? È naturale perciò che la borghesia, è di lei che si parla, si sentisse in colpa. E quando uno si sente in colpa che cosa desidera? Desidera punirsi. La borghesia oppressa dal senso di colpa, voleva suicidarsi. E l’ha fatto. Ma indirettamente, colpendosi nella cultura, cioè nella ragione. La cultura borghese infatti era all’insegna della ragione; la ragione era il grande mito della borghesia ottocentesca. Attraverso l’uccisione della ragione, la borghesia si è suicidata espiando la sua colpa, la colpa di detenere il potere.

Non ho mai pensato che chi comanda si senta in colpa. Al contrario, ho sempre avuto la sensazione che ne goda; il potere va alla testa di chi comanda, lo fa sentire importante, vivo.

E in questo suicidio la borghesia ha trovato anche il suo carnefice: Hitler. Hitler è stato il Dio dell’irrazionalismo. Tutta la poesia europea da Rimbaud a oggi è irrazionale.

In questo modo si mettono sullo stesso piano Rimbaud e Hitler, il simbolismo e il nazismo… Le idee mi si confondono.
La ragione, il culto della ragione è borghese.


Ma anche la civiltà greca è nazionalista, vuoi dire che era anch’essa borghese? Allora bisogna dire che tu intendi per borghesia la classe al potere. Se è così tutta la storia del mondo è borghese, da Atene alla Cina di Mao.

Le civiltà del passato erano religiose, non razionaliste.

Tu contrapponi religione e ragione. Ma allora dove lo metti il cattolicesimo? Il cattolicesimo, nell’epoca della sua pienezza, quando si può parlare di una civiltà improntata da esso, il Medioevo, è una delle più grandi costruzioni razionaliste (basta pensare a san Tommaso) di tutta la filosofia occidentale.
Questo vuol dire che l’essenza religiosa del cristianesimo è stata razionalizzata dalla classe al potere.

Così tu pensi che la forza vitale della storia sia di natura religiosa e che la ragione sia lo strumento col quale le classi al potere piegano e utilizzano queste forze. Per un marxista è un’affermazione direi un po’ eterodossa. E la scienza?
Anche la scienza appartiene, nella sua essenza, più al mondo religioso che a quello della razionalità. Guarda lo scienziato. È un uomo religioso, non ha senso pratico, è disinteressato; è a suo modo un mistico, che supera, con l’intuito, con la fantasia, con la totalità del suo potere conoscitivo, la semplice ragione. L’errore della borghesia è di identificare l’intelligenza con la ragione, mentre essa è qualcosa di più.


Ebbene, noi viviamo in un’epoca scientifica; è la scienza oggi che domina nella cultura; si dovrebbe concluderne che viviamo in un’epoca religiosa…

No, perché oggi trionfa l’applicazione della scienza, cioè la tecnica, non la scienza. Il razionalismo borghese, che vede solo l’utilizzazione pratica delle cose, non ha nulla a che vedere con il vero spirito scientifico.

Sì, l’intelligenza come poesia, saggezza, fantasia, intuito, dice Pasolini, è la capacità di capire. La ragione la limita, perché esclude tutto ciò che non si può capire rigettandolo nell’inconoscibile. Esclude per esempio l’inconscio. Nell’inconscio non vale il principio di non contraddizione che è il pilastro di ogni logica razionalistica, e quindi la ragione borghese rifiuta l’inconscio. E dirà più avanti che il punto fermo è l’irrazionalismo, che da un lato è contestazione, scandalo, violenza contro l’ordine, i codici, la società, la morale corrente, da Rimbaud a Ginsberg, tanto per intenderci; e dall’altro è autopunizione, vedi Hitler.

Hai cominciato col chiedermi che cosa è un capolavoro. Ebbene la mia risposta è questa: è un’opera piena di imperfezioni. Più grandi sono le imperfezioni e più grandi sono le cose perfette. Ecco il motivo per cui è così difficile riconoscerlo. Davanti a un capolavoro si è fuorviati dalle imperfezioni. Il lettore va dietro all’opera perfetta, si lascia affascinare dalla sua compiutezza. Ma le opere perfette, in questo senso, sono sempre minori. Aggiungi che i capolavori sono sempre ideologici e politici, e che devono pagare lo scotto all’ideologia con grigiori, sciatterie, banalità.

Dacci un esempio.

Per l’Ottocento è semplice. Dostoevskij. L’imperfezione in opere come Demoni o i Karamazov mi pare evidente.

D’accordo. Ma Tolstoi?

Anche lui. Il suo stile è sciatto, non poetico. Intendo dire rispetto ai canoni tradizionali della perfezione. Ma forse è meglio prendere un esempio dalla letteratura italiana. I Promessi sposi. È sicuramente un capolavoro, ed è pieno di imperfezioni.

C’è una grande forza ideologica nel Manzoni? chiede Cancogni. Sì, risponde Pasolini. E qual è l’ultimo scrittore ideologico in Italia?

Montale, Gadda e la Morante. E D’Annunzio? No. Eppure c’è un’ideologia, l’estetismo. È un’ideologia mediocre.

Perciò Wilde sì, D’Annunzio no.
Esatto. In D’Annunzio poi non mi piace la sua mancanza di abilità. Sembra un paradosso ma è così. D’Annunzio scrive come va va. A parte qualche poesia, come La pioggia nel pineto, c’è poca abilità. Una volta trovata la chiave, apriva tutte le porte. Scriveva come mangiar bruscolini. Non c’è mai resistenza della pagina. Nella sua apparente mancanza di sciattezza è sciatto.

D’accordo per Montale. Ma ora vorrei che tu mi parlassi dell’ideologia della Morante.

È tutta ideologia. Dentro ci sono Freud, Jung. Come schema i suoi personaggi somigliano ai santi nelle vite dei santi scritte da un prete. Ma dentro sono pieni di vita, di irruenza. Anche Moravia è tra i pochi scrittori ideologici che ci sono in Italia, Sono, tutti quelli che ho nominato, persone che non si riconoscono come italiani. Il loro tipo di cultura si è formato altrove, in un terreno franco, europeo. Dietro a nessuno di loro c’è una formazione tipica italiana.

Ma noi ci stiamo dimenticando dell’argomento principale. Tu non scrivi più romanzi o racconti, perché?

Ho perso fiducia nel genere. Non ne sono più attratto. Io penso che uno scrittore debba essere sempre realistico, unito cioè alla realtà. Ebbene la realtà che prima m’interessava, intendo dire il sottoproletariato romano delle borgate, sta cambiano rapidamente, non lo riconosco più. II sottoproletariato romano che prima era solo esistenzialmente reale, ma non aveva realtà storica, oggi sta diventando una finzione del Terzo mondo.

Infine Pasolini si chiede quali siano i caratteri dell’umorismo. Il senso di colpa e la riduttività: il borghese si sente in colpa (perché detiene il potere) e tende a stare in ciabatte. È un uomo pratico. L’umorismo è un atteggiamento di difesa di chi ha una visione rimpicciolita, quotidiana, della vita. Ma oggi io non mi sento né di scrivere romanzi né di scrivere poesie. Non scrivo poesie perché non ha ho destinatario. Non so più a chi mi rivolgermi.

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