Carla Magnani, per me, è sempre stato un delitto. Non sono un complimentoso ma sin dai suoi esordi ho intuito che è una Signora Fletcher con degli assalti narrativi frontali, degni di uno Stephen King durante un incontro con Hannibal Lecter.
Il delitto è che la grande editoria malgrado sollecitata non abbia ad oggi considerato i suoi romanzi e racconti. Questo perché Carla Magnani conosce i tempi del successo tardivo, è un Camilleri quando tutti si accorgeranno che Camilleri è una soft narrazione. Carla Magnani, e lode all’editore che l’ha pubblicata, in questi racconti inediti – come quello che qui presentiamo- riesce, dopo noir e gialli, a puntare la penna e l’inchiostro , finalmente, con ciò che Le preme e preme a tutti noi perché nessuno ne scrive. La differenza tra classi sociali (leggiamo sempre che la classe media sta scomparendo ma sono sempre freddi dati statistici) che oggi sono tornati a far parlare solo le cronache o i trattati di sociologia.
Carla Magnani, in colpa e in colpo di penna, riesce in racconti brevi, alcuni brevissimi, a comunicarci un realismo istantaneo che non ci pone domande ma neppure risposte, i suoi racconti sono disamine sociali, radiografie che evitano le digressioni, la morale, il finale a sorpresa. Perché il finale sta a noi comprenderlo e trasformare una traccia che continui a suonare sul disco rotto della nostra cecità.
Gian Paolo Serino
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L’arrampicatore
Matteo Sicuri doveva arrivare sempre prima degli altri.
Già da neonato, si era messo in posizione eretta muovendo i primi passi precocemente. Chiara anticipazione di quelli che sarebbero stati gli anni futuri.
La sua era una rivalsa nei confronti di un destino che lo aveva fatto nascere in una famiglia modesta: un padre becchino e una madre casalinga. Figlio unico dove già tre bocche da sfamare erano una sfida quotidiana.
Non poteva accettare quella condizione. Doveva porvi rimedio.
Un’ambizione sfrenata lo aveva accompagnato durante la crescita insieme alla noncuranza nei confronti del prossimo.
Andare avanti sorpasso dopo sorpasso. Quanti quelli fatti cadere e abbandonati durante il percorso!
Una continua rincorsa in vista di un traguardo che, una volta raggiunto, gli serviva da sprone per quello successivo.
Una laurea in economia e uno zio prelato avevano contribuito a fargli trovare un lavoro di tutto rispetto in una multinazionale con sedi sparse in varie parti
del mondo. Da subito, in ufficio, si era fatto notare. Brillante, intuitivo e, soprattutto, un gran leccaculo. C’era un problema da risolvere? Era il primo a offrire il suo contributo e non disdegnava di fare le ore piccole accumulando straordinari su straordinari. La maggior parte non retribuiti. Altro aspetto rilevante era la sua disponibilità a spostarsi da una sede all’altra e sempre noncurante dei disagi.
Matteo Sicuri era per l’azienda l’elemento perfetto. Quello che non creava rogne ai superiori.
Calcolatore e previdente anche nella vita privata, prima di unirsi in matrimonio, aveva voluto esser certo della scelta che stava per compiere: la compagna, seppure laureata in biologia, non doveva avere velleità lavorative. Il suo ruolo era quello di casalinga e madre premurosa di due maschi gemelli e una femmina, con l’aggiunta di mostrarsi fiera al fianco del marito nelle occasioni mondane. A lei bastava stordirsi con lo shopping compulsivo, l’aperitivo con le amiche e le partite a canasta. Lui era presidente del club del bridge, partecipava con assiduità alle riunioni del Rotary e non disdegnava qualche partita a golf. Entrambi maestri nelle stronzate della vita.
La sua ascesa nel mondo del lavoro l’aveva portato a ricoprire incarichi sempre più importanti. Un aiuto notevole lo doveva alle gravi crisi che, nel tempo, avevano interessato il mondo produttivo.
C’era da sfoltire gran parte del personale? Lui era il miglior “tagliatore di teste” sul mercato. Lo faceva con fermezza, con il pelo sullo stomaco, ma anche con quel tocco di classe che lo rendeva unico. In casa, davanti allo specchio, si era esercitato con puntualità giornaliera su come gestire i rapporti con gli altri. Lieve accenno di saluto ai sottoposti, stretta di mano cordiale con i pari grado e ossequiosa con i superiori. Cinque minuti erano dedicati ad abituare lo sguardo a fissare gli altri dall’alto in basso. Per facilitarsi il compito lo faceva stando in piedi su una sedia.
Il suo portafortuna: un portachiavi con due piccoli scarponi da arrampicata.
Promozione su promozione, da Direttore del Personale era arrivato al prestigioso ruolo di Amministratore Delegato. Solo la maledetta consuetudine di trasmettere la nomina di padre in figlio gli aveva impedito di diventare Presidente della multinazionale.
Doveva rassegnarsi.
Sarebbe stato messo k.o. al solo pensiero di dover andare in pensione. Per fortuna esistevano le consulenze, tra l’altro ben remunerate, che allungavano i tempi del suo ritiro dalla scena lavorativa.
I due figli maschi, fisicamente somiglianti alla madre, avevano preso da lui il carattere. Giovani rampanti con il chiodo fisso della carriera, occupavano già posti di tutto rispetto in Società quotate in borsa e il loro futuro in ascesa era già stato programmato con largo anticipo.
In questo suo universo costruito su misura, unica nota dolente era la figlia.
Nell’aspetto era il ritratto del padre.
Nell’indole, il suo opposto.
Fuori da ogni schema borghese, al compimento della maggiore età era andata a vivere in una comune.
Anarchia totale come massima aspirazione e disprezzo per la sua famiglia insieme a tutto quello che rappresentava, erano i princìpi che la caratterizzavano.
Viveva ai margini e con gli emarginati si trovava a suo agio. Con loro poteva guardarsi negli occhi. Da pari a pari. Con suo padre, no. Le rare volte che lo aveva incrociato all’angolo di una strada, lui aveva abbassato lo sguardo.
Sconfitto.