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Case Sepolte. Intervista a Pietro Romano

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Case Sepolte è il nuovo libro di poesia di Pietro Romano edito da I quaderni del Bardo nel 2020 e leggerlo significa innanzitutto ascoltare il desiderio recondito di ogni domanda. Oscuro e pressate. Presente ma lontanissimo. Si percorrono le stanze di un esistenza che è pure la nostra. Nelle notturne risonanze delle immagini cui non sappiamo e non possiamo abitare parola che si alternano al corpo del testo. La scrittura di Pietro Romano divide in sette sezioni il suo sapienziale cortocircuito col mondo di dentro e con l’ambiente esterno, a volte cosmico. Domande, corpi, elenchi, prose in forma di flusso à la Molly Bloom, altri mondi, parentesi in cui la voce poetica oltrepassa e precede il corpo dell’autore che si spoglia, con elegante ricerca, della tradizione. Metabolizzata però nello slancio desiderante che lo abita e ci regala il dono di imparare a sapere.

Gianluca Garrapa

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«Dov’è la mia voce? Fuori? Dentro di me?»: partiamo dalla fine, anche se è l’inizio del tuo tragitto poetico in questo libro. Dalla fine perché la consapevolezza di dove sia la voce, di chi sia lo scritto che ci scrive, la coscienza della pressione fonica – interna? esterna? in-sterna? – che si fa grafia d’inchiostro è il punto finale di un percorso poetico che ci rende estranei a noi stessi, distanti da noi. Di stanze, pare fatto questo libro: quando è nata la voce, ovunque essa sia, e come, per diventare parola scritta?

Quando, dove o come la voce sia nata, questo è, come tu stesso osservi, il punto focale attorno a cui orbita tutto il percorso di Case sepolte, un viaggio per frammenti, privo di approdi definitivi, fatto di crolli, smembramenti, parole troncate in una catabasi all’interno di quella parola prima da cui soffia «la voce». Il processo che l’ha portata a parola scritta, invece, è consistito in un lungo percorso di scavo e sedimentazione interiore: ogni parola di questo libro è stata abortita per essere risanata e ricucita a un pensiero in movimento ma fisso intorno a ossessioni che mi si agitavano- e mi si agitano dentro-. L’altro dovrebbe prefigurarsi come il punto di arrivo di questo scavo compiuto dall’interiorità tutta verso l’esterno: è percepito come figura di un’assenza irrevocabile, desiderio mancato e talora irrealizzabile, se non addirittura inconciliabile con un sentire, il mio, che spesso nel libro si delinea per stanze evanescenti, fatte di pareti caduche o comunque instabili e prive di reale radicamento…

«la parola si invera nell’erranza»: erranza e mancanza: sembrano gli ingredienti adatti a una scrittura del desiderio, quale dovrebbe essere, e Case Sepolte certamente lo è, ogni poetica scrittura che si slimita, deborda nel segno grafico del disegno. cosa è il disegno rispetto alla parola scritta?

Il disegno, rispetto alla parola scritta, è ancora parola che aspira a riunirsi al circolo della voce «prima». Quando ho chiesto ad Angela Catucci di illustrare queste prose/poesie, avevo in mente l’idea di un progetto unitario nel quale, in un modo o nell’altro, il disegno figurasse come prolungamento della parola scritta. E infatti, Angela, artista pugliese di grande raffinatezza e perizia artistiche, mi ha così scritto: “Questo tuo libro è talmente profondo che entrarci dentro mi ha portato ad avere il bisogno di rileggere più volte alcuni passaggi per ritrovare sensazioni che in un certo senso mi appartengono. La tua scrittura mi fa pensare all’arte astratta, nella quale devi cogliere ciò che a una lettura superficiale passerebbe inosservato. Più leggevo e più sentivo emergere linee curve che a volte si interrompono bruscamente contro un muro nero, lame che si intersecano e si feriscono, volgono verso l’alto dove il rosso e il nero lasciano spazio al bianco, il «volto» dell’io distorto esploso, i cui occhi neri cercano i frammenti del Sé… Linee curve che si dissolvono in un volo necessario a guardare dall’alto ciò che si è cercato nell’io. Non vorrei chiamarle illustrazioni, ma piuttosto il resoconto di un viaggio che ho compiuto in me stessa attraverso i tuoi versi”.

le stanze di questa casa di parole sembrano appartenere alla forma di una prosa. «Ma la poesia non ha pareti»: si slarga, allaga e si lascia slavare o arricchire, irretire e moltiplica i suoni: cosa c’è intorno alla poesia?

Tutti i forse e i no del vivere… I volti, l’erranza, l’impossibilità di una dimora che faccia casa… Penso graviti tutto questo attorno alla poesia… Il terrore della mancanza e infine la possibilità di evocare quest’ultima in parola perché si giunga a una luce… Bisogna, credo, imparare a fidarsi del buio che giace intorno a ogni nostro confine cognitivo, sondarlo affinché vi si scorga quanta luce inespressa vi abita, senza sottrarvisi… Vi si svanisce poco per volta solo se lo si rifiuta e non lo si tramuta in canto, in qualcosa che gli dia spazio e lo faccia davvero conciliare con una forma…

«Vivere attraverso la frattura che avanza è lentamente comporsi nel cielo che divide»: mi sembra che nella tua poesia i corpi siano divisi da un sentire che oltrepassa la violenza della parola quando vuole arrestare il moto perpetuo del linguaggio e incasarlo in un abito. si vive divisi, nel viso che palesa senso e figura, significato e forma del gesto: il corpo cosa è per la scrittura poetica? intendo il corpo del soggetto che scrive, ma anche il corpo degli oggetti che avvengono nel tragitto di scrittura.

In questi anni nei quali mi sono spostato senza mai un radicamento, ho preso maggiore coscienza di che cosa significhi l’essere isole. Le mie origini insulari, in un modo o nell’altro, hanno influito sulla percezione che ho del mio corpo, come isola che slitta convulsamente tra un dove e l’altro, senza però mai arrestare il proprio moto. Ho preso maggiore coscienza delle parole di Bufalino, quando dice che ogni siciliano è figlio di un irrimediabile dissidio, quello tra claustrofilia e claustrofobia, odio e amor di clausura. Il modo in cui ho vissuto e vivo lo sradicamento è metafora di un sentire che non riesce a esprimersi se non sulla fissità di una soglia dalla quale osservare da un lato ciò che è rimasto dietro e dall’altro ciò che invece gli pone dinanzi. Credo inoltre che vi sia un legame indissolubile tra poesia e corporeità, perché in un certo qual modo la prima si accompagna ai mutamenti e agli stravolgimenti che la seconda vive senza nessuna possibilità di sottrarvisi. Il corpo degli oggetti che avvengono nel tragitto di scrittura viene a configurarsi, in questo processo, come un di più cui ancorare senso, pur con la consapevolezza che anch’esso è isola impossibilitata a un approdo definitivo. In tal senso, ogni corporeità vivrebbe in sottrazione, giacché impossibilitata a una permanenza stabile, condizione che neanche la parola poetica sembra potere consentire…

«Paralisi Notturna»: una prosa di verbi. elenco infinito che produce l’egli della scrittura. egli sono. io è. non c’è spazio tra le azioni e il ritmo sotterraneo non smette di porre la questione di cosa sia musica in poesia: che rapporto esiste tra ritmo e prosa?

Per le mie prose cercavo un ritmo che riproducesse esattamente l’interno di ciascuna delle stanze che ho abitato in questi anni: il vuoto, l’assenza di geografie, il declino dei volti, la caduta, l’accensione, il respiro, l’incalzare degli eventi…Il rapporto che esiste tra ritmo e prosa è determinato dal modo in cui io, durante le fasi di scrittura e di riscrittura, ricado in me: è espressione dello spazio di risonanza interiore, dell’eco che si rinfrange nel vuoto, in quel senso di mancanza che infine spinge a desiderare… E in ogni caso, come altrove è stato già segnalato, è per me imprescindibile il confronto con la tradizione, ragion per cui prediligo l’uso dell’endecasillabo che, in Case sepolte, si presta a scandire un ritmo che varia toni o si arresta a seconda delle geografie che lo scrivere mi fa attraversare…

«Costellazioni, pianeti, fotoni: l’infanzia è canto del vuoto che stringe. Campi di luce sopra l’avanzare dei cirri.»: anche quel che non si vede, anche l’invisibile che pur ci fa vedere, e «tra l’invisibile e il nulla, il visibile accade»; vedere è pure ascoltare. e il passato è proprio il trapasso cosmico di una stella: vediamo ora il passato, tutto accade dopo. alla fine. è dalla fine che si inizia a capire. dopo: che rapporto ha la tua scrittura con il futuro del passato?

La mia scrittura si colloca, credo, in quella dimensione temporale che tu accortamente definisci “futuro del passato”, perché figlia di un divenire nel quale è sempre e solo presente una costante: io che mi scandaglio dentro, attraversando tutte quelle zone d’ombra o di silenzio nelle quali l’occhio, nel quotidiano, non posa se non per brevi scorci e poi risalire senza essersi realizzato in un’espressione compiuta. È l’intensità con cui lo sguardo decide di proiettarsi entro sé stesso a determinare una svolta dal passato, un punto di continuità con quest’ultimo e quindi la parola.

immaginiamo che la tua opera potesse, oltre che essere letta, anche sentita con tutti gli altri sensi, allora: che gusto avrebbe, che odore, che suono sarebbe, che suono farebbe? e se fosse… un dipinto?

Case sepolte emblematizza l’erranza, per questa ragione, presumo, non potrebbe, se percepibile con tutti gli altri sensi, essere a propria volta percepita in un modo univoco: è un continuo intrecciarsi di geografie, interiori ed esteriori, vissute o immaginate ma comunque sentite, e quindi di luoghi nei quali non è mai possibile fissare radici se non nell’ottica per la quale ogni cosa è destinata a errare in cerca di un’espressione o di un mondo dal quale attingere una parvenza di senso… Se fosse un dipinto, penserei alla Composizione VI di Kandinskij: anche Case sepolte, che a una prima lettura può apparire come un’opera aggrovigliata in sé stessa, in verità ha, come nella Composizione VI, tre nuclei distinti da cui origina poi l’intero discorso poetico. A proposito del suo dipinto, Kandinskij sosteneva infatti di potere riconoscere un primo nucleo, dolce e rosaceo e poi un secondo, dissonante, e tra i due, per l’appunto, un terzo, al centro, da cui proveniva il suono interiore dell’opera. Allo stesso modo, Case sepolte è costruito su tre coordinate essenziali, che poi ne reggono l’intero impianto: una costruzione ritmica atta a rappresentare i punti di saldatura e disgiunzione dell’esistenza, l’incontro tra due voci (la seconda, quella dei disegni, che incarna l’urgenza di un ritorno al mondo e comunque di un’espressione al di fuori del Sé) e infine la suddivisione in stanze tra loro solo apparentemente isolate.

Pietro Romano, Case Sepolte, I quaderni del bardo edizioni, 2020

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