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Chi di romanzo ferisce, di romanzo perisce.

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Per qualche tempo me ne sono andato in giro sui social network (sostanzialmente Facebook e Twitter) a spammare in giro frasi provocatorie contro il romanzo.
Poi son rimasto nell’angolo, a vedere l’effetto che faceva…
Ne ho dette di tutti i colori, sin che da un popolo di romanzieri e lettori di romanzi, abituato com’è a tenere il culo ben aderente alla sedia, o al divano, non ci si poteva certo aspettare la Rivoluzione.
Le reazioni sono state un oceano e molte piuttosto inviperite, com’era facilmente prevedibile.
Ovviamente lo scopo non era quello di calunniare il romanzo.
Ne leggo molti, con gran piacere, io stesso ho avuto il cattivo gusto – per dirla con il mio prediletto Roberto Bolaño – di scriverne due, se non tre.
Il problema era altro, come poi mi sono sforzato di spiegare, en passant, in un saggio assai meno provocatorio che uscirà su In pensiero <http://www.squilibri.it/libri/riviste/in-pensiero-306.html> nel prossimo mese di febbraio.
Il problema era la poesia, rinchiusa nel recinto di quella che chiamiamo letteratura e abbandonata ai denti ben più affilati del supposto cugino in prosa.
Da quando la poesia ha abbandonato ogni volontà, ogni speranza di abitare la voce, essa si è trasformata da poesia che era, in un prodotto letterario in versi, che è tutt’altra cosa. E per i fondamenti teorici di quanto dico, lasciatemi qui tagliar corto, rimandando all’imprescindibile studio di Gabriele Frasca, La lettera che muore (Meltemi).
Ma la lingua scritta non è la lingua madre della poesia, bensì quella del romanzo. La partita era impari, e così, pur rinchiusi nella medesima cella, nello stabbio comune, il romanzo e la poesia non hanno fraternizzato affatto e il romanzo, da quel piraña che è, ha divorato la poesia (e siccome l’appetito vien mangiando, si è pappato poi anche il saggio, la novella, il trattato e via così, masticando e deglutendo…).
Si capisce allora quanto sia nodale la questione di tener la poesia lontana da una letteratura ormai sinonimica del romanzo.
Ne va della sua vita.
O sopravviverà solo in forma Jovanotta, come qualcuno, un po’ snob, s’affanna ad augurarsi. Piuttosto la morte.
Potete immaginare la mia sorpresa quando, grazie alla soffiata dell’ottimo Paolo Melissi, ho scoperto l’esistenza di un libretto singolare, non privo di qualche qualità, se non altro d’eccentricità, L’inferno del romanzo (Transeuropa).
A scriverlo è stato quel Richard Millet, nei giorni pari difensore del Grande Stile (il Grande  Stile, perbacco!), in quelli dispari editor di un romanzo piuttosto prescindibile, come Le benevole, di Jonathan Littel.
In codesto libretto, in cui non mancano lampi di genialità, alternati a sbracature mitiche, entrambi a volte mascherati da una traduzione abbastanza claudicante da esimere il lettore dal confronto con l’originale, si legge – letteralmente -: «Uno spettro ossessiona la letteratura: il romanzo, diventato a tal punto egemonico che tutta la produzione letteraria sembra doversi ridurre ad esso. Nello specifico è il romanzo internazionale, insipido, senza stile, immediatamente traducibile in inglese, l’unico oggetto di una letteratura senza altra storia se non il gioco dei suoi simulacri, dei suoi plagi, della sua moneta falsa». E’ il romanzo della «postletteratura».
Ben detto, caro Millet! Peccato che, ad approfondire la lettura del libro, saltino poi fuori episodi di sciovinismo letterario al limite del ridicolo (La France c’est la France! Parbleu!), mescolati a una misoginia degna del peggior Baudelaire, che spesso si risolve in affermazioni che lasciano stupefatto ogni disgusto.
Un esempio tra tutti, poi passo avanti, ché non è questo lo scopo del presente scritto :«Nella postletteratura (ossia in un mondo governato dalle donne, o a loro promesso) il romanzo è femminile: le donne ne sono divenute non solo le prime consumatrici ma anche le più importanti produttrici».
Siete ancora lì?
Se non siete fuggiti per il ribrezzo, mi prendo la libertà di concludere questo mio digrediente discorrere.
Ora, se finanche un classicista di ritorno, un sincero machista della prosa, come il buon Millet si rende conto del fatto che in letteratura ormai tutto è romanzo, allora forse qualche ragione di provocare il vostro povero poeta l’aveva.
In Ytaglia poi il ‘romanzo-centrismo’ arriva a livelli memorabili, siamo la patria d’elezione di un genere letterario che s’è autonominato ‘Arte Totale’. Risparmio esempi, basta guardarsi attorno.
Peraltro, mio caro Millet, non è vero affatto che «la questione di fondo non riguarda la decadenza della letteratura, né la fine del genere romanzesco, bensì ciò che è nato con Omero e che dipende  [¿ dipende?]da ciò che noialtri scrittori continuiamo a chiamare letteratura. » Ciò che voialtri scrittori chiamate letteratura con Omero non c’entra affatto, anche se avete provato a divorare anche quello e, come può vedere, distingué Millet, lo fate anche mentre dichiarate che sarebbe il caso d’alzarsi da tavola.
Abbia un po’ di buon gusto, almeno la smetta di fare l’editor di certa roba, ché altrimenti tutta la teoria le crolla su inciampi così volgari e inglesi come la prassi.
E questo fa assai poco Rive gauche, né ha nulla a che fare con l’ostinata, testarda fedeltà stilistica del suo amato Céline, mi creda.
Lasciandola nell’ottima compagnia dell’irrinunciabile Igort e delle sue profezie, affidandola alle unghie affilatissime delle giovani e vitali graphic novel, mi lasci dire, Monsieur, che la colpa della lamentevole condizione del romanzo, come in fondo dice lei stesso, anche se fa finta di non accorgersene con Raffinatezza e Stile, è del romanzo stesso e della sua bulimia sospetta di conflitto d’interessi con le major editoriali.
Chi di romanzo ferisce, di romanzo perisce, mon ami. Un poetico au-revoir, Monsieur…

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