“Se tutto crolla, forse è proprio in quel momento che possiamo intravedere chi potremmo diventare.”
In Il fulmine sulla torre, (Jimenez Edizioni 2025, pp. 152, € 15) Chiara Tartagni orchestra un assalto lucido e fulminante all’immaginario collettivo, intrecciando Tarocchi, mito, cultura pop e autobiografia in un mosaico che vibra come una corda tesa.
Il libro è un viaggio non lineare ma pulsante, un’esplorazione dell’archetipo della Torre – simbolo di shock, distruzione e rinascita – che si insinua ovunque: dalla Bibbia alla Storia Infinita, da True Detective ai Rammstein, da Jung a Jodorowsky: “Disprezzandomi, isolandomi, credendo di difendere un territorio interiore che apparteneva soltanto a me, che cosa ero io nell’oscurità di questa Torre? Padrone di che cosa? Di quale parere, di quale falsa identità? Ero soltanto l’aria rarefatta di un’oscurità egoista. E tutt’a un tratto, dall’interno e dall’esterno è scaturita la forza innominabile, l’amore che sostiene la materia. La mia cima si è aperta, e così pure le mie fondamenta.”
Chiara Tartagni, copywriter e docente, con Jimenez Edizioni ha pubblicato Le relazioni preziose (2019) e Qui giace un poeta (2020), dedicato alla storia di Heinrich von Kleist e Henriette Vogel.
L’autrice parte da una domanda semplice e potente: perché nei tarocchi l’unico edificio protagonista è quello che crolla? E chi cade davvero, sta cadendo… o sta danzando? Il libro non parla di preveggenza ma di trasformazione: la Torre, l’arcano più temuto, è in realtà una soglia di rivoluzione. Il fulmine che la colpisce abbatte illusioni, distrugge certezze, obbliga a ricominciare.
La Tartagni scrive con la precisione di un bisturi e l’estro di una performer esoterica, trasformando ogni capitolo in un’apertura simbolica. Non si limita a “spiegare” la Torre: la fa esplodere, la interroga e la incarna.
Ogni dettaglio – dalle fiammelle nei Tarocchi alle catene del Diavolo – diventa una finestra sull’inconscio, un invito alla caduta necessaria per poter “uscire a riveder le stelle”.
Attraverso arte, biografie, archetipi e cultura pop, Tartagni intreccia figure come Frida Kahlo, Alexander McQueen, Goya, Nina Sayers e Carrie White, mostrando come ogni crisi sia anche un’esplosione creativa. La Torre non punisce, rivela: “La verità è che istintivamente io cerco il cambiamento ogni minuto di ogni giorno. Dunque, la ‘tragedia’ dello sconvolgimento sul momento è un’emozione che non mi appartiene. Al contrario: la ‘tragedia’ che sento io è quella dell’eccesso di stabilità o piuttosto del trovarmi di fronte alle macerie fumanti, ferme, morte.”
Questo libro è un rito, non un saggio. Un incantesimo denso di riferimenti e confessioni che esplode nelle mani del lettore e lascia dietro di sé una domanda: quale parte di te deve ancora crollare per poter finalmente nascere?
Un’opera per chi ha il coraggio di guardare dentro il fulmine, e non distoglie lo sguardo quando la torre cede.
Carlo Tortarolo
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“Gli uomini hanno il fuoco: io voglio rubarglielo”
Nel 2019 inizio a cercare con una certa ossessività immagini di tatuaggi di serpenti, apparentemente senza motivo. Già me lo immagino, un bel rettile arrotolato intorno alla mia caviglia sinistra. Pochi mesi dopo sto leggendo Le dee dentro la donna di Jean S. Bolen. Verso la fine del libro, uno degli ultimissimi paragrafi si intitola Riappropriarsi del potere del serpente. Io sussulto per un attimo prima di ricominciare a leggere:
Quando le donne incominciano a riappropriarsi dell’autonomia o a prendere decisioni, o a farsi consapevoli di un senso nuovo del loro potere politico, psichico o personale, i sogni di serpenti si ripetono con frequenza. Il serpente sembra rappresentare una forza nuova. Come simbolo, rappresenta il potere che fu un tempo delle dee.
Come i due serpenti stretti fra le mani delle dee madri cretesi. Io capisco di trovarmi nella piena espressione di quelle energie che prima non sapevo incanalare: ero appena diventata libera professionista, avevo ricominciato a insegnare, avevo pubblicato il mio primo libro. Da qualche parte, forse da un crogiolo grande quanto la storia dell’umanità, il mio inconscio aveva tirato fuori quell’immagine. Il 4 febbraio 2020 vado a farmi tatuare il mio serpente, con il capo sul dorso del piede sinistro e il resto del corpo arrotolato intorno alla caviglia.
Torniamo indietro nel tempo. È il 1942 e l’undicenne Marie-Agnès è in vacanza con madre e padre nel New England. Ama godersi l’erba, il cielo e le nuvole al tramonto. Un giorno, due serpenti velenosi attorcigliati in cima a una roccia le si manifestano davanti. “Non osavo muovermi né respirare. Ero affascinata, per la prima volta vedevo la morte così da vicino. Era la morte o la danza della vita?”. E la vita le risponde così:
Quella stessa estate mio padre – aveva trentacinque anni – infilò una mano nelle mie mutandine come quegli uomini infami che nei cinema adescano le bambine […]. Vergogna, piacere, angoscia e paura mi opprimevano il petto. Mio padre disse: “Non ti muovere”. Obbedii come un automa. Poi di forza e a calci, mi liberai di lui e corsi fino allo sfinimento nel campo di erba tagliata. Quell’estate ci furono diverse scene come questa […]. L’estate dei serpenti fu quella in cui mio padre, il banchiere, l’Aristocratico, mise il suo sesso nella mia bocca.
Lo racconta alla figlia Laura con una lettera-libro, Il mio segreto, che nell’edizione italiana conserva lo stile grafico dell’autrice e il serpentino avvolgersi dei pensieri più straripanti. Come quei bordi rigonfi, lucidi e neri che si incontrano nel suo Giardino dei Tarocchi. Sulla copertina del libro c’è un teschio bianco e nero da cui germogliano indisciplinati fiori multicolori. Ed è proprio così che va anche per lei: dalla fiducia spezzata di Marie-Agnès sorge Niki de Saint Phalle, l’artista-terrorista che porta il nome scelto per lei dalla madre in segno di ribellione. Del resto, mostrando già una certa sensibilità, il marito aveva voluto dare alla figlia il nome del suo primo grande amore.
Quando nel 1952 esce dalla clinica psichiatrica dove ha subito dieci elettroshock, Niki de Saint Phalle inizia a dipingere con vero furore. “Sono entrata in clinica con un esaurimento nervoso e ne sono uscita dopo sei settimane come pittrice”. Aveva già dipinto in passato. Quello che lei definisce il suo “primo gesto artistico” era stato colorare di rosso le foglie di vite sulle pudenda delle statue greche nell’atrio della sua scuola. La scuola non l’aveva presa benissimo. Il suo percorso artistico cosciente inizia fuori dalla clinica, nel momento in cui dipinge i primi quadri, mette in scena i suoi Tiri sparando alle tele e dà forma alle sue Nanas, orgogliosamente ricurve e femmine. Le sue opere sono vendette contro il fulmine che ha spaccato a metà la Torre della sua infanzia. Non si tratta però di una vendetta fine a se stessa. È la graduale riconquista del potere e della gioia.
“Sono stata come attraversata da un raggio cosmico. devo creare un parco come questo un giorno. Sarà una fonte di gioia per le persone. È il mio destino!”. Così reagisce di fronte al Parco Güell di Antoni Gaudí, con la sua salamandra iridescente e quel rivoluzionario gioco di relazioni fra arte e natura. La gioia non dev’essere solo sua. Dev’essere condivisa. Il Giardino dei Tarocchi è per lei una “autobiografia astrale”, ma soprattutto la prova di due cose: che è possibile esplorare la propria interiorità senza soffrire e che una donna può creare un’opera diffusa, di dimensioni gargantuesche. È un’impresa titanica, che richiede quasi vent’anni di lavoro e molte, inestimabili collaborazioni. Il primo a credere in lei è Jean Tinguely, artista e marito (seppure solo di nome da un certo punto in poi): realizza tutte le strutture in metallo che rendono vivi i “Mostri” abitanti del Giardino. Per volontà di Niki de Saint Phalle, non esiste direzione precisa per esplorarlo. Si vaga e si scopre, come nella “danza della vita”. Non esiste nemmeno un’interpretazione negativa degli arcani. Tutto è gioco. Per questo sceglie di far costruire una soglia circolare sul muro di recinzione che circonda l’opera: vuole che le persone sentano di abbandonare la vita frenetica e malsana per prendersi una “pausa magica”. “Se la vita è un gioco di carte noi nasciamo senza conoscerne le regole. Nonostante questo, tutti dobbiamo giocare la nostra mano”: sono le parole che l’artista sceglie di incidere all’entrata.
Non può mancare la Torre, cui la sua creatrice attribuisce un’identità molto precisa:
Alcuni chiamano questa carta la Torre di Babele. Essa rappresenta le costruzioni sia fisiche che mentali che non sono fondate su basi solide. La Torre non è unicamente negativa poiché impartisce una lezione importante: le complesse fabbricazioni mentali devono crollare. Bisogna rompere le mura della mente in modo da poter guardare oltre. Jean Tinguely ha creato una scultura che simboleggia il fulmine che spacca la torre.
Quando lei fa notare che la Torre è ormai troppo alta, è Tinguely a romperne la sommità, quasi una decapitazione. La cosa non la entusiasma: ha timore che quella frattura possa attirare la malasorte. Una reazione interessante da parte di chi ha già subito in prima persona l’assalto del fulmine.
Niki de Saint Phalle fa in tempo a vedere l’attacco alle Twin Towers, che la sconvolge non solo per l’evento in sé, ma per la visionaria profezia che aveva creato nel 1962. King Kong è un assemblaggio lungo sei metri in cui spiccano le maschere di maschi potenti, da Castro passando per Babbo Natale (!), fino a Kennedy. Ed è già abbastanza inquietante che il volto di Kennedy sia trapassato da un proiettile (e infatti morirà l’anno dopo). Guardandola meglio ci rendiamo conto che King Kong sta assaltando i grattacieli di New York… mentre su di essi precipitano tre aerei.
Prima di morire nel 2002, l’artista chiede che nulla del suo amato Giardino venga finito o cambiato, e la sua richiesta viene esaudita. Sa che la sua opera è già finita insieme a lei ed è giusto così. Abbigliata di un blu accecante, l’oracolo che sorveglia con occhi bui il suo boschetto è abbracciata dalle spire di un grosso serpente dorato e rosso, che pare autoriprodursi su di lei. Le sue braccia sono a loro volta serpenti. Non è minacciata da nulla, perché lei stessa è diventata la minaccia. È ormai la dea dei serpenti. Non è l’unica scultura in cui incontriamo di nuovo questo animale- simbolo. I rami dell’albero dentro cui alberga l’Appeso sono teste di serpe. Un’altra si attorciglia intorno al bastone dell’Eremita. Quella che però più sento dentro di me è il Mondo, e per ovvie ragioni. Una donna balla sopra una sorta di uovo cosmico avvolto da un serpente, la cui testa sale su per la sua caviglia sinistra. Con l’ultimo arcano maggiore il viaggio è completo. Niki de Saint Phalle non ha più paura di quel potere che il padre ha voluto esercitare su di lei. L’ha fatto suo: “Gli uomini hanno il potere, le donne la forza creatrice. Gli uomini hanno il fuoco, io voglio rubarglielo”.