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Christiane Hoffmann anteprima. Quello che non ricordiamo

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Quello che non ricordiamo” di Christiane Hoffmann (Exòrma Edizioni, 2025 pp. 328 € 18.50), nella traduzione di Gaia Bartolesi esce nelle librerie il 23 maggio. La storia narra l’itinerario compiuto dall’autrice dal villaggio di Różyna, in Polonia, al villaggio ceco di Křižovatka, lo stesso percorso di 550 chilometri che il padre attuò durante la sua fuga dall’Armata Rossa nell’inverno del 1945. Christiane Hoffmann traccia, lungo la sua ricognizione letteraria, una linea di confine interiore, delimitando la spaventosa angoscia dei ricordi e riconoscendo l’influenza sconvolgente e distruttiva della guerra, la sua spietata attualità, ripercorre l’impressionante e dolorosa esperienza degli eventi drammatici. Si fa portavoce di una coscienza collettiva, sospesa nella nemesi di ogni persecuzione rimossa, ascolta il richiamo della solitudine nel solco di ogni testimonianza alla non appartenenza, prigioniera nei fantasmi del passato, mostra lo spettro di un mondo devastato che alberga ancora nel cuore della gente. Rafforza la partecipazione emotiva nel recupero storico della memoria nazionale, attraverso una desolata, abbandonata, perduta geografia dei luoghi, interpreta il suo viaggio come un percorso di scoperta, nella rivelata conoscenza del padre, un dissotterramento di tutto ciò che allontana e cancella dalla consapevolezza della guerra.

L’autrice condivide, nello spazio precipitoso ed esiliato delle parole, le sofferenze e i tormenti dell’umanità, adattando alla volontà di non ricordare il disegno della sopravvivenza, rinnova l’avvertimento disperato e indifeso dell’esistenza, consegna una suggestiva narrazione nella dichiarazione autentica del tempo, motivo indistinguibile della dispersione, nella furtiva attesa di vivere. Una commovente documentazione autobiografica che unisce le prospettive ideologiche, sociali e morali della storia, ricucendo nel sostegno dell’evocazione familiare l’estensione alla macabra attualità, all’inquietudine minacciosa dell’epoca presente, congiunge la corrispondenza del destino crudele dei suoi congiunti a quello di un intera popolazione, nella resistente rivendicazione alla difesa per schivare il delirio malvagio della guerra. “Quello che non ricordiamo” riporta alla luce l’invisibile eredità inconscia della salvezza, il retaggio degli incubi che emergono ovunque, nella insidiosa traiettoria dell’evasione, per distanziare il conflitto nel suo orrore, restituisce l’evidenza efferata del significato criminoso della Seconda Guerra Mondiale in relazione a ogni educazione storica del mondo, reduce e combattente, nel desiderio di comprendere le conseguenze, parlarne ancora oltre la dimenticanza, preservare la commemorazione comune.

Christiane Hoffmann è reporter di guerra, capace di incidere nella responsabilità narrativa l’approfondimento coraggioso e fiero della sua missione, comunica il sentimento tragico sullo sconfinamento di una terra annientata, smarrita nelle rovine della complessità delle ostilità, identifica nel tragitto della fuga il passaggio implacabile del trauma, il varco inesplorato di tutto quello che non è mantenuto nell’anima ma trasferito nell’inespresso. Riemerge dal buio dell’angoscia, affonda nella confidenza della parola il segno di una profetica urgenza contemporanea, ritrova l’origine della sofferenza e della perdita, accoglie la crepa infuocata di ogni ferita oltre l’espulsione del risentimento. La scrittura dell’autrice è una fotografia privata, in prima linea sull’immagine logorata, nella lacerante e affranta ricerca della verità, un monito necessario per sfuggire alla follia delle spirali violente e per indirizzare l’interferenza dell’oblio.

Rita Bompadre

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Al tuo funerale ero così raffreddata che non riuscivo a cantare, la cappella era piena, tutti i posti a sedere vennero subito occupati, la gente stava appoggiata alle pareti, dal matroneo cantava il coro in cui hai fatto il tenore per quarant’anni.

Quando tornammo a casa dalla clinica, la mamma andò subito a prendere i documenti in soffitta, tra questi c’era anche un foglietto in A5 su cui avevi annotato quali erano i brani che dovevano essere cantati al tuo funerale. A me il foglietto non serviva, sapevo già cosa volevi: il corale finale del mottetto di Bach Jesu, meine Freude che cominciava con il verso “Weicht Ihr Trauergeister” e finiva con la parola “Freude”, un accordo maggiore alla fine di un corale in minore in cui il tenore contribuiva con il decisivo intervallo di terza maggiore. Era adatto a te, tu che volevi abolire la tristezza anche nei funerali. Come secondo brano doveva essere cantato Wer nur den lieben Gott lässt walten.

Non eri legato a nessun’altro brano come a questi, immagini dalle profondità della tua infanzia, ti vedevo seduto sulla panca a cantare con trasporto le lodi della fede in Dio e della placidità, sentivo la sicurezza e il conforto che c’erano dentro

per cui nulla poteva davvero andare storto. L’esortazione a non prendere niente troppo sul serio nella vita, né la perdita e il dolore, né la fuga e la morte. A cosa ci servono le grandi preoccupazioni. La tua serenità di fondo. La disponibilità ad

abbandonarsi al destino, senza aspettarsi né pretendere troppo, il dono di essere soddisfatto. L’altra faccia della medaglia era: è meglio non combattere e a volte rimanere anche al di sotto delle proprie possibilità.

Forse è stato un mio pensiero magico infantile a farmi credere che tra walten e Walter ci fosse una particolare connessione che ti legava così strettamente a questo brano.

Il brano, infatti, non era sul foglietto. Probabilmente avevi immaginato il tuo funerale in maniera diversa rispetto a me.

Prima della fuga da Rosenthal non eravate una famiglia particolarmente credente. Nelle annotazioni di tuo fratello Manfred – una settantina di pagine – la religione non

è praticamente presente, a Natale si andava in chiesa e il giorno dei morti si mettevano corone di fiori sulle tombe dei parenti. Per la cresima di Manfred venne macellato un maiale, il nuovo parroco dopo la predica invocò la benedizione di Dio

per il Führer, il popolo e la patria, il suo predecessore si era arruolato nelle SS.

La vostra religione era un’abitudine, una credenza contadina, Dio c’era, per il resto non aveva nessun ruolo degno di nota. Tuo padre, a cui piaceva cantare, aveva un grande repertorio che comprendeva canzoni popolari, marce che raccontavano fatti di sangue e canzonacce moderne fino a opere e operette. Di brani di chiesa non ne son stati tramandati.

Sei diventato davvero credente solo dopo la fuga nella Gioventù evangelica con le loro gite e le loro serate di musica, il lavoro sulla Bibbia e le discussioni. La Gioventù evangelica era parte del tuo grande successo con la gente, una parte importante. Credere per te significava comunità e impegno, la cerchia di amici con cui discutevi concretamente e in senso politico di questioni di etica cristiana, le tante cariche

onorifiche, lo studio della Bibbia, le preghiere prima dei pasti, la messa domenicale. Eri stato eletto nel consiglio ecclesiastico, dopo le messe contavamo le offerte nell’ufficio della chiesa, arrotolavamo le monete in fogli prestampati e le infilavamo

nella cassetta di ferro di cui tu avevi la chiave. Conoscevi la comunità e sapevi chi aveva messo le banconote più grosse nel sacco della questua. A volte facevi loro anche una visita di persona, per ringraziare a nome della comunità. Successivamente

hai cominciato a cantare nel coro della chiesa. La chiesa era patria, era parte di quella

rete di sicurezza che hai cominciato a costruire da quando siete arrivati a Wedel.

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