Claudio Trotta, storico promoter, fondatore di Barley Arts, voce indipendente e spesso scomoda del panorama culturale italiano, non sopporta più il rumore del consenso. Dice che la critica musicale è diventata una vetrina pubblicitaria, che i giornali si limitano a copiare comunicati stampa e che la discografia, oggi più ricca che mai, produce solo vuoto. Spotify, MTV, l’illusione del “gratis” e infine il Covid hanno trasformato la musica in un sottofondo sterile, cancellando l’esperienza viva del concerto e la cultura dell’ascolto. Ma Trotta non è un nostalgico: è un testimone indignato. Ricorda quando il giornalismo musicale sapeva orientare — Romana, Bertoncelli, Fayenz, Molendini — e chiede oggi una rivoluzione culturale che rimetta al centro etica, memoria e bellezza. Contro un sistema che demolisce persino i suoi simboli, da San Siro alla socialità stessa, in nome della speculazione. La sua voce è un atto di resistenza: ricordarci che la musica, come la cultura, non serve a piacere. Serve a svegliare.
Carlo Tortarolo
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Ha dichiarato di leggere articoli sempre uguali, sui nuovi artisti, che i media cercano il consenso e che la critica musicale è sempre prona ad incensare la novità del momento. In sostanza mancherebbe un giornalismo musicale all’altezza. Ma c’è mai stato?
Sì, assolutamente si basta ricordare Cesare Romana, Giacomo Pellicciotti, Daniele Caroli, Peppo Del Conte, Riccardo Bertoncelli, Franco Fayenz, Vittorio Franchini, Piergiuseppe Caporale, Marco Molendini, Federico Guglielmi, Enzo Gentile e molti altri che negli anni 80/90 e parzialmente duemila scrivevano, recensivano, criticavano, indirizzavano e non si limitavano a pubblicare i comunicati stampa a loro forniti dagli uffici stampa.
La questione che ho posto io, tuttavia, non riguarda solo i nuovi artisti e solo la stampa ma include la maggioranza del sistema mediatico musicale italiano da molti anni e include radio, rete e tv commerciali e non.
Tutto quasi sempre si riduce a promozione dei prodotti più sostenuti economicamente e marketing spesso davvero spietato.
Parlando di discografia ha detto che il sistema è fatto solo per fare soldi. E che la discografia è non è mai stata ricca come ora. Non ha costi di produzione, di magazzino, di rete di vendita, di promozione. I prodotti sono di scarsa qualità ed è tutto un enorme giochino del nulla. Da quando è così? C’è ancora speranza o come suonava Bindi “La musica è finita”?
Tutto ha inizio soprattutto con la diffusione di Spotify dall’ottobre 2008 ma il terreno era già stato predisposto da anni di utilizzo cheap della musica ridotta prima a “video music” con il sistema omologante di Mtv poi o contemporaneamente al sistema delle “gratuitè” per vendere gelati e telefonia e per provare a tenere in piedi i quotidiani fisici allegando agli stessi di tutto e di più “vhs, cd, vinile, dvd, cassette eccetera. Il colpo finale lo ha dato la gestione scellerata durante il covid relativamente a tutto il mondo dello stare insieme dallo spettacolo dal vivo alla scuola e la pratica sportiva amatoriale. La
pervicacia con cui non si è voluto considerare alcun protocollo operativo per la riapertura in sicurezza delle attività sociali e di spettacolo dal vivo ha prodotto danni irreparabili di varia natura e peso. Un effetto primario è la diseducazione al significato e alle basi della socialità soprattutto nei confronti di generazioni di ragazzini che sono cresciuti senza alcuna reale esperienza live e che sono stati spinti a seguire e consumare streaming di spettacoli che mancano dell’elemento principale del live: la sua irripetibilità e la condivisione nello stesso spazio fisico e l’interazione delle emozioni irripetibili e non meccaniche generate dal tutto.
Si deve sperare in una rivoluzione culturale a tutto tondo e le speranze devono essere riposte soprattutto in chi non è ancora nato.
Ha fatto molte battaglie, tra le quali quella del secondary ticket. Quali sono oggi le nuove sfide dell’impresa culturale?
Trovare la quadratura fra esistere e resistere ed essere. Lavorare con creatività, passione, rispetto della esperienza, rigore, incisività e determinazione. Essere indipendenti economicamente ed operativamente e mentalmente avendo il coraggio e la unicità e la consapevolezza della Bellezza di essere nicchia in un mondo che punta solo alla omologazione culturale, gioco forza sempre più mediocre. Coltivare e difendere la propria territorialità e identità nella consapevolezza della eterna migrazione di culture e popoli e quindi di espressioni e professioni che possono convivere. Porre al centro l’etica e l’estetica del lavoro avendo il coraggio di tornare ai fondamentali. Essere umanamente necessari anche in un mondo di intelligenza artificiale con cui sapersi confrontare senza volerla demonizzare. Lavorare per una nuova alfabetizzazione delle future generazioni trasmettendo l’importanza della conoscenza del passato per il loro presente e per immaginare un loro futuro. Insomma, rimettere al centro l’umanità e non il consumo.
In una sua recente intervista hai dichiarato su San Siro: “La demolizione è l’emblema della politica al servizio del business”. Oggi tutto è business. Cosa si potrebbe e dovrebbe fare con San Siro? E cosa dovremmo chiedere alla politica per favorire lo spazio per l’impresa culturale?
Credo che tutto sia speculazione. Fare business, fare economia non è un male ovviamente. Speculare sulle passioni delle persone è invece criminale. San Siro è simbolo ed emblema di un sistema affaristico di considerare il bene pubblico, È uno stadio comunale e i principali shareholders sono i tifosi e gli appassionati di musica dal vivo che lo hanno animato e non due fondi attualmente proprietari delle due squadre meneghine che lo hanno temporaneamente in gestione. Lo Stadio Meazza si può e si deve ristrutturare e ammodernare senza alcun bisogno di costruire ulteriori palazzi e centri commerciali o consumando altro suolo, che dovrebbe invece essere destinato al verde ma di quello vivibile ed utilizzabile e non solo ornamentale. Lo abbiamo detto in
tanti dal 2019 il Meazza può diventare uno stadio dell’entertainment a 360 gradi con un tetto coperto e apribile, un terreno di gioco di tipo “retrattile” che possa rapidamente essere utilizzato per le diverse discipline sportive e spettacolari e un miglioramento complessivo dei comfort, dei servizi igienici, della ristorazione e dell’acustica sia per i partecipanti agli eventi che per i residenti. Va inoltre presa una decisione netta relativamente al divieto di circolazione di mezzi a motore con la ovvia eccezione di mezzi di servizio, di soccorso e per i portatori di handicap. Allo stadio come in tutto il mondo si fa si deve andare a piedi, in bicicletta e con i mezzi pubblici.
La politica dovrebbe tornare al suo scopo principale che è quello di occuparsi del benessere pubblico che necessita di equilibrio culturale e di possibilità di scelta soprattutto per le nuove generazioni troppo spesso scelte dal marketing feroce imperante.
Il dipinto è quello di una politica serva delle egemonie economiche a loro volta in crisi. Questo ci obbliga a trovare nuove strade. Il nostro sistema ha bisogno di cambiare ma allo stesso tempo ha paura di farlo. E in questo si annida e si aggrava la sua fragilità. L’ossessione del controllo confligge con la vitalità necessaria per una civiltà che vuole competere. Figurarsi per la nostra che si illuderebbe di essere egemone. Serve un equilibrio che renda tutto un po’ più frizzante. In questo senso cosa manca oggi all’arte e alla cultura per ispirare e formare delle generazioni in grado di guidare i progressi senza esserne travolte?
Credo che sia necessario sempre più emulare ma non copiare. Ricercare e non esigere. Fare arte dovrebbe essere affettivo e armonico in sé e per chi la fruisce. Spero in un presente che ponga memoria, senso della storia, studio, passione e spirito avanguardistico quali principali elementi non solo della creazione ma anche della modalità con cui maestranze, imprese, istituzioni e pubblico fruiscono e non solo consumano spesso acriticamente.