Buongiorno, Valentina e benvenuta su Satisfiction, innanzitutto complimenti per le tue pubblicazioni e la tua ricerca, avevo già letto e apprezzato moltissimo Exit Reality che esplora l’affascinante mondo delle backdoor e del fenomeno Vaporwave di cui sono un fan accanito.
Spostandoci verso un altro versante artistico, Conversazioni con la macchina è un saggio compatto ma denso di contenuti che affronta con lucidità e profondità il rapporto tra arte e intelligenza artificiale, smontando semplificazioni e catastrofismi per restituire complessità al dibattito.
Nel libro ci inviti a superare la visione dell’IA come mero strumento o, peggio, come minaccia, per esplorare invece le possibilità creative che emergono dal dialogo uomo-macchina con un linguaggio scorrevole e accessibile, pur mantenendo un solido rigore concettuale capace di coinvolgere sia chi è già familiare con il tema dell’IA nell’arte, sia chi vi si avvicina per la prima volta, discutiamone assieme:
Nel primo capitolo metti in evidenza la logica padrone-schiavo che regola gran parte del nostro rapporto quotidiano con le macchine, ritieni che questo modello oggi possa risultare datato, soprattutto in ottica di quella che viene definita “intelligenza polimorfa”?
Si, uno degli obiettivi libro consiste proprio nel mettere in discussione un certo modo di raccontare il nostro rapporto con le macchine. Esiste infatti una lunga tradizione che tende a contrapporre il mondo umano a quello non-umano della tecnologia, come se si trattasse di due entità totalmente aliene l’una all’altra. Si tratta di una cornice concettuale fuorviante perché l’essere umano, al contrario, è da sempre coinvolto in una relazione complessa e simbiotica con gli strumenti tecnici, dai primi utensili in pietra agli algoritmi di machine learning. Esiste un dialogo continuo in atto tra le persone e le macchine e questo dialogo influenza entrambe le entità coinvolte. Il concetto di “intelligenza polimorfa” l’ho preso in prestito da Luigi Pagliarini, un caro amico artista ed esperto di robotica che lo ha coniato per spiegare come, “se da una parte lasciamo che le macchine imitino l’intelligenza biologica, dall’altra, non possiamo evitare d’imitare alcuni dei loro comportamenti e, conseguentemente, inizializzare un processo ricorsivo infinito, per cui insegnare ed apprendere sono praticamente simultanei”.
Nel libro sottolinei come i modelli di intelligenza artificiale siano spesso opachi, percepiti dai più come delle “scatole nere” di difficile comprensione. Quanto è importante, per un artista, oggi, avere consapevolezza del processo tecnico dietro agli strumenti che si appresta a usare? E quanto invece può essere fertile/creativo (o pericoloso) accettare l’IA come una sorta di entità imprevedibile?
La consapevolezza è sempre un elemento fondamentale quando si tratta di usare la tecnologia. E questo vale per tutti, non solo per gli artisti. Nel caso dell’IA è particolarmente importante: innanzitutto perché si tratta di tecnologie opache, gestite e controllate da poche grandi aziende private. Inoltre, le interfacce con cui vengono presentate al pubblico possono trarre in inganno sulla loro vera natura, generando pericolosi fraintendimenti sulle loro potenzialità effettive, su ciò che sono davvero in grado di fare. Una volta acquisita la consapevolezza, è possibile approcciare questa tecnologia con uno spirito diverso; ad esempio, accettando il suo lato meno controllabile, la sua capacità di agire in autonomia e produrre output sorprendenti, risultati non interamente controllabili e prevedibili. D’altra pare, gli artisti contemporanei si sono interessati spessissimo alle dinamiche randomiche e stocastiche: basti pensare al Dadaismo, a Fluxus, all’arte concettuale ma anche alla primissima Computer Art.
Scrivi che la paura dell’IA che rimpiazza l’artista è in parte una costruzione narrativa delle big tech. Quali sono, secondo te, le vere minacce che dovremmo affrontare nel rapporto tra arte e IA?
I due termini che formano il problema – arte e intelligenza artificiale – rappresentano concetti talmente vasti da non poter essere utilizzati in modo generico. Il rischio è di non capire di cosa si stia parlando davvero. Esistono molteplici forme di arte così come diversi tipi di intelligenza artificiale, e la relazione tra questi due ambiti si sviluppa in modi differenti a seconda delle specifiche caratteristiche che vengono loro attribuite. Di quali artisti parliamo? E di quali tecnologie, nello specifico? Opportunità e problemi cambiano a seconda dei significati che attribuiamo a queste parole. L’IA non può rimpiazzare l’essere umano in toto, ma può senz’altro “simulare” alcune delle nostre abilità, con più o meno successo. Il problema sta in come queste tecnologie vengono applicate, a vantaggio di chi.
Nel libro esplori il ruolo della macchina come “prole” (metafora della genitorialità), suggerendo come alcuni artisti vedano l’IA non come uno strumento passivo, ma come un’entità in crescita. Questo approccio si sta espandendo anche in ambito musicale, penso ad esempio a compositrici sperimentali come Holly Herndon, quali sono i vantaggi di questo approccio?
Gli elementi di interesse emergono dalla conversazione con i sistemi IA, dall’esplorazione di nuove combinazioni. Le pratiche più stimolanti, tra cui anche quella di Herndon, sono quelle che cercano di scoprire cosa può succedere quando entità artificiali vengono coinvolte all’interno del processo creativo. Non limitandosi nell’ottica della sostituzione (non ho il suono del violino, quindi lo genero). Lo spiegava già bene Gordon Pask negli Sessanta quando, parlando della sua macchina interattiva, il Musicolour, scriveva: “il sistema agiva come un’estensione dell’esecutore, con il quale poteva cooperare per ottenere effetti che non avrebbe potuto ottenere da solo”. Effetti che non avrebbe potuto ottenere da solo: questa è l’idea chiave. Non usare la macchina per simulare sonorità e tendenze artistiche che già conosciamo, ma per esplorarne di nuove.
A pagina 67 viene ipotizzato il ruolo dell’artista contemporaneo come quello di uno “sciamano”, mettendo in relazione l’uso dei prompt nei software di IA generativa con l’antica pratica dell’incantesimo. In che modo pensi che l’atto di scrivere un prompt possa essere paragonato a un rituale magico?
La metafora non è mia, ma di Jon Rafman, un artista che usa da anni sistemi di IA generativa per creare immagini, sia ferme che in movimento. Secondo Rafman, l’imprevedibilità dei sistemi TTI può portare l’artista ad adottare un approccio mistico, comportandosi come una specie di mago che tramite un uso particolare del linguaggio fa succedere cose nella realtà (pensiamo alle formule magiche). All’interno di questo quadro concettuale, il prompt funziona come un’evocazione, come un incantesimo. Scrive l’artista canadese: “le parole sono alla base della creazione. ‘In principio era il Verbo, il Verbo era con Dio e il Verbo era Dio’. L’antica frase ebraica ‘ebrah k’dabri’, più nota come ‘abracadabra’, significa ‘creo come la parola”.
Sistemi come DALL·E e MidJourney attingono le loro informazioni da dataset immensi, pieni di pregiudizi culturali e storici. Pensi che l’arte generata dall’IA possa servire a mettere in luce pubblica questi bias retrogradi e portarci verso una nuova forma di consapevolezza?
Si, l’arte può svolgere questo compito e lo ha fatto tante volte in passato. Pensiamo, solo per fare due esempi, ai progetti di artisti come Trevor Paglen, Eryk Salvaggio, Hito Steyerl. Si tratta tuttavia di un discorso culturale che dovrebbe riguardare tutti; c’è un grande lavoro da fare, sia nel settore dell’educazione che in quello della politica.
Stefano Bonazzi
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Valentina Tanni è storica dell’arte contemporanea e docente. Si occupa di estetica delle nuove tecnologie e di cultura visiva digitale. Ha pubblicato Memestetica (Nero, 2020) ed Exit reality (Nero, 2023).
Conversazioni con la macchina. Il dialogo dell’arte con le intelligenze artificiali
Valentina Tanni
Edizioni Tlon
12,00 euro — 96 pagine