Marc Alyn, (Alain-Marc Féchrolle), nato nel 1937 a Reims, è uno scrittore francese che si forma nel cuore palpitante del ‘900 , attraverso un percorso letterario davvero ricco e vario. A soli 17 anni fonda la rivista Terre de feu, sulla quale, nel 1956, esce la sua prima raccolta di poesie, “Libertà di vedere”. L’anno seguente, a soli vent’anni, riceve il prestigioso Premio Max Jacob per la sua opera “Le temps des autres”. Da questo momento, il suo lungo iter di scrittore colto che ha notevolmente influenzato la poetica francese, sarà costellato da numerosi ed importanti premi letterari, tra cui il Gran Premio di poesia dell’Académie française nel 1984, e il Goncourt di poesia per tutta la sua opera nel 2007. È stata recentemente pubblicata l’intera sua opera poetica in tre tomi (Œuvres poétiques, La Rumeur Libre ), che raccoglie 70 anni di scrittura poetica. Sono noti i suoi studi su Mauriac, Dylan Thomas,André de Richaud,Kosovel, Norge, Nerval, Lawrence Durrel. Ha curato la rubrica dedicata alla poesia su Le Figaro littéraire . Attualmente vive a Parigi .
Rossella Nicolò
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Cosa si prova a trovarsi di fronte ad una memoria così densa di ricordi, di esperienze, di dolore, di amore, di fronte ad una parola che in tutti questi anni ha edificato , costruito, come suggerisce il verbo greco dal quale il termine poesia deriva?
Settanta anni! Il numero 7 era, secondo Cocteau, il numero segreto della poesia. Altri preferiscono il 9, simbolo di qualcosa di nuovo sempre pronto a manifestarsi. Ma pochi raggiungono questa età avanzata. Da parte mia, sono davanti alla mia opera come di fronte ad una sorta di palazzo di specchi che riflette il volto di tutti i periodi della mia vita. Spesso vado da una stanza all’altra, scarsamente illuminate da una lampada immaginaria, penetrando in quelle dimenticate che rappresentano le mie prime poesie.
In uno dei suoi libri più noti Le temps est un faucon qui plonge (edizioni Pierre-Guillaume de Roux) che raccoglie, in 17 capitoli memorie e materiali interessanti per la comprensione del suo iter esistenziale e poetico, si fa cenno al circolo del Grand Jeu, che a Reims, la sua città natale, riuniva poeti come René Daumal, André Rolland de Renéville, Roger Gilbert–Lecomte, nel segno di un vivace surrealismo. Ci può raccontare un episodio personale che la lega ad uno di questi poeti o alla luminosa costellazione dei surrealisti ?
Tra gli esponenti del Grand Jeu, ho conosciuto personalmente solo Roger Caillois a Parigi. Quando esordii, a 18 anni, non c’erano altri poeti a Reims. Vagavo di notte, alla cieca, nei luoghi un tempo attraversati dai miei predecessori. Caillois apprezzava molto i miei testi in prosa e in versi. Un giorno, a Cannes, nella villa della miliardaria Florence Frank Jay Gould, (colei che ha istituito il Premio Max Jacob – che ho ricevuto nel 1957 a 20 anni) interruppe un vasto ed altolocato auditorio per presentarmi alla padrona di casa; ciò accadde in cima ad una scala monumentale, mentre in basso una folla di ospiti stava aspettando… Quanto ad Aragon, invece, i miei rapporti con lui furono dapprima conflittuali, poi pacificati nel tempo. Quando ero un militare in Algeria, mi fece pervenire uno dei suoi più bei libri con questa dedica: “A Marc Alyn, perché torni”.
“Arrivando a ogni nuova città il viaggiatore ritrova un suo passato che non sapeva d’avere: l’estraneità di ciò che non sei più o non possiedi più t’aspetta al varco nei luoghi estranei e non posseduti” – Le cito questi versi di Italo Calvino tratti da Le città invisibili perché Lei, viaggiatore instancabile, sembra impossessarsi,con la sua scrittura, del fascino alchemico dei luoghi attraversati. Seguendo soprattutto le vie dell’Oriente, condividendo “l’immagine/magia” con i surrealisti, ha sviluppato un linguaggio che attinge a larghe mani dalla geografia reale, dai vari transiti di stati emotivo–razionali e psicologici. Nel revisionare il suo vastissimo corpus poetico per la recente pubblicazione , ha trovato qualcosa di sé che non c’è più?
Viaggiare, come leggere o amare, è sempre più o meno perdersi: risiedo dove non esisto ancora; mi dissolvo nella mia scoperta. Sfoglio l’universo come un grande libro di immagini: diversi piani di senso si sovrappongono incessantemente. Ma in fondo non sono anch’io letto dal paesaggio, dall’Oriente all’Occidente, che ho sempre percorso? “Vengo da lontano. Il mio sogno è più vecchio della notte/ Emergo, un po’ alla volta, dalla bozza della mia vita“. Il carattere alchemico di ciascuna delle mie scoperte, attraverso il pensiero o lo sguardo, esplode alla soglia di ogni poesia.
Dal Medio Oriente, dove ha vissuto per qualche tempo, tra le rovine della città fenicia di Byblos, prese forma, dopo il suo ritorno in Francia , la nota trilogia poetica Les Alphabets du Feu, pubblicata negli anni Novanta. Vado in Oriente come si va alle fontane / a bere dopo tanta sete l’unica acqua sovrana – si legge ne Le Livre des amants, stampato nel 1988 a Beirut allora devastata dai bombardamenti. Nuit majeure e Infini au-delà sono considerate raccolte iniziatiche e cosmiche che annunciano “l’attimo abbagliante”, la futura rivelazione di Byblos, intuizione fondatrice della trilogia Les Alphabets du Feu. Quel pezzo di Terra Santa chiamata Libano, un tempo icona del Medio Oriente, oggi terra ancora martoriata, quale posto ha occupato nella sua scrittura poetica?
Il Libano, terra dei cedri, legno sacro utilizzato dagli egiziani nel processo di mummificazione, costituisce un luogo mitico prima di essere una terra reale. Mosè stesso non potè entrare in questa terra nell’ora della sua morte. Agli occhi dei poeti (Nerval, Lamartine, Germain Nouveau ecc.) questa regione appartiene ad uno dei territori sacri della poesia.
Invitato a Beirut nel 1972 a parlare della poesia francese, scoprii le rovine di Byblos da cui scaturirà il canto polifonico di questa città magica. In quel periodo conobbi una giovane poetessa, Nohad Salameh, che diventerà la donna luminosa della mia vita. La città-poesia mi ispirava direttamente; era come bere ad una sorgente il vasto intreccio di strofe e di silenzio della mia trilogia Les Alphabets du Feu. Perché ai miei occhi, Byblos non è solo una necropoli scavata in riva al mare, ma un luogo dove la vita continua ad apparire, svanire e poi riemergere.
Nuit majeure e Infini au-delà, annunciano effettivamente, venti anni prima, Les Alphabets du Feu: Il mio punto di partenza è l’elogio della Notte, sentita a Uzès come una presenza viva di cui Racine diceva: “E noi abbiamo notti più belle dei vostri giorni”. Passerò, in definitiva, nel tempo, dall’oscurità stellata alla nascita perpetua del giorno del Levante. Insomma, sono nato una seconda volta, non più a Reims città dei Re – ma a Byblos, metropoli degli dei. Era come una missione fissata fin dalla mia infanzia – una sorta di appuntamento metafisico. Avevo conosciuto la guerra in Algeria all’età di venti anni; il Libano mi offriva le tende di porpora di un altro conflitto: la guerra degli anni settanta con i suoi orrori e i suoi battiti di estasi erotica poiché vivevo allo stesso tempo l’amore e la morte in mezzo alle macerie e agli aranci in fiore; la mia scrittura deve a questi tempi tumultuosi (e che continuano ad esserlo da qualche parte nel profondo della mia memoria) la sua facoltà di essere sempre allo stato nascente, alla punta incandescente del nuovo istante.
È nota la sua collaborazione con grandi nomi del mondo artistico e i risultati sono di eccezionale rilievo; opere che esprimono temi in cui s’intrecciano elementi filosofici, esoterici e spirituali. Ho trovato particolarmente interessante il libro T’ang l’Obscur, Mémorial de l’Encre dove gli inchiostri e gli acquerelli di T’ang Haywen scandiscono i suoi testi che giustappongono sapientemente strati del tempo, voci, misteri di mondi invisibili. Ci sono nuovi progetti in corso?
T’ang Haywen è un artista d’origine cinese che ha vissuto la sua infanzia in Indocina prima di stabilirsi a Parigi; qui siamo diventati amici negli anni sessanta. Ha reinventato l’arte in un piccolo appartamento vicino alle catacombe nel periodo in cui stavo dando vita ad una Nuova poesia. Bastavano poche linee di colore per far emergere un universo. Veniva a trovarmi a Uzès; allora lavoravamo all’uscita di un libro di disegni-poesie che non fu completato a causa della malattia che lo portò prematuramente alla morte. Mi sono rimasti alcuni dei suoi disegni favolosi: elementi di un edificio maestoso…. In “T’ang l’obscur” uso l’immagine di un rituale di risurrezione; qualcuno è lì e non più lì, alla soglia di un giardino inesauribile di simboli. Oltre al mio legame di amicizia con T’ang, ho dato inizio ad un rapporto di lavoro fraterno con altri artisti, tra i quali Youl(pseudonimo di un artista astrattista, illustratore ed editore francese conosciuto per le sue numerose e sublimi illustrazioni di Michel Butor) che ha appena finito di illustrare le mie opere poetiche.
Negli ultimi anni, la mia collaborazione (e quella di Nohad) con Bernard Alligand mi procura un piacere costante e multiforme. I miei uccelli interiori amano volare nello spazio dei suoi cieli che comunicano con lo spazio siderale.
Il suo amore per l’Italia, in particolare per la città di Venezia, è testimoniato da Le Pieton de Venice, premio Henri de Régnier dell’Accademia di Francia. È una visione originale della città lagunare, vista attraverso le passeggiate, gli scrittori che l’hanno vissuta e l’interpretazione attraverso gli arcani dei Tarocchi che rimandano ad un’affascinante e misteriosa visione della città sospesa nel tempo. Qual è, secondo lei, l’elemento del passato, la tradizione più intima e spirituale di questa città che può essere intrecciata con una sua visione futura?
La Serenissima è il luogo per eccellenza dove luce e acqua godono l’una dell’altra in un meraviglioso abbagliante riflesso. Qui l’istante prende il volto dell’eternità; tutto comincia in ogni momento: pulsazione universale reinventata all’infinito. Venezia è una città che richiama, che fa cenno da lontano a chi saprà domarla, parlarle all’orecchio, indovinare i suoi nomi segreti. Fatta di elementi appartenenti al passato, non finisce di indicare il futuro. Quante volte ho soggiornato nella città dei Dogi! Almeno una trentina di volte tra soggiorni lunghi e brevi che hanno ispirato numerose poesie e due lunghe prove letterarie: Le Pieton de Venice (con molteplici edizioni tascabili ) e Venise, démons et merveilles. In quest’ultimo libro mi spingo fino al Carso triestino, nella Duino di Rilke e nei luoghi descritti da Kosovel.
In questo nuovo millennio la parola sembra essersi largamente impoverita e depotenziata del suo “carico di fuoco”, sopraffatta dalla società dell’immagine e caratterizzata dall’autoreferenzialità. In un mondo che annega, sprofonda nelle parole (come la citta di Venezia nel mare Adriatico) come può la parola abbracciare questa confusa e turbolenta umanità?
La poesia arde al principio e alla fine di tutto ciò che vive; il punto d’incandescenza di ogni parola alta. Quindi, spiritualmente, la poesia rimane il luogo di partenza di tutto. Questo evento, di ordine intimo e cosmico al contempo, sfugge alla maggior parte degli spiriti; parlo qui dell’immagine interiore relegata in questi nostri tempi ai confini, a vantaggio delle immagini materiali, innumerevoli e ripetitive. Solo coloro che rimangono all’ascolto della palpitazione originale della parola , possono sperare di sfuggire – anche se per pochi istanti – a questo “infinito turbolento” di cui parlava un tempo Henri Michaux.
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Traduzione di Rossella Nicolò