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Daniel Woodrell. Addio, Sweet Mister

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Il vecchio rock ‘n’ roll con le rime, le strade d’America dove è meglio non incontrare nessuno, il thermos con lo speciale tè al whisky, le ombre delle persone che si allungano e si deformano lungo le assolate arterie di un paesaggio malmesso accanto ad un cimitero. Una scrittura veloce come una presa di tabacco e le occasioni della vita che passano come il diner che si allontana nello specchietto retrovisore di una Thunderbird.

E poi ancora quella frase, con quella brutta espressione sulle labbra: non è quello che dovremmo essere ma è quello che siamo a fare la differenza. 

È la verità, ed è fatta così. Se sei un ciccione non puoi dire che sei robusto. Puoi cambiare oppure puoi decidere di esserlo e fregartene. Per questo sei forte. Per questo vale la pena che tu dica la tua e la macchia che lasci a terra è proprio il tuo segno.

E il ciccione di questa storia si chiama Shuggie e ha tredici anni. Sua madre Glenda lo chiama Sweet Mister e lo ama come solamente una madre sa amare, e lei inoltre è sensuale ed appariscente e fa un gran casino quando si apparta con il suo uomo. Suo padre Red, beh, “l’idea che Red fosse mio padre era la verità ufficiale dietro cui si trinceravano tutti , ma nessuno di noi era convinto che la cosa fosse dimostrabile , né ci teneva a dimostrarla”, è un uomo da nulla, uno tanto da nulla che si crede di essere tutto. E poi è un poco di buono, uno spaccone pieno di muscoli e violento,  uno che fa talmente tante cose fuori di testa da far lavorare con sé Shuggie. Il lavoro di Red è rubare, medicine soprattutto. Rubare e picchiare Glenda; picchiarla e far ribollire il sangue a Shug e fargli amare ancora di più quella donna, sua madre, e fargli stringere i pugni a quel grassone e alzare la guardia per opporsi, perché Shug la vuole difendere da quell’uomo,  da qualsiasi uomo. 

Le offese ricevute sono come un concime; sono maleodoranti e si attaccano alla pelle, ma nutrono e anche dalla terra più fiacca inizia a farsi strada qualcosa, ad irrobustirsi e a cercare il sole.  Se uno è stato ricoperto per tanti anni da qual concime neanche un rozzo dio greco lo potrà piegare. Nessuno. Neanche Red.

Morris Shuggie Atkins ha imparato in tutta questa storia a stare al suo posto, a diventare un duro in quel confine che il suo sguardo è riuscito a delimitare. Ogni santo giorno ha dato prova di resistenza al dolore e quel dolore è stato come una benedizione per il suo intimo. Tuttavia in quella passeggiata disperata che è la vita, Sweet Mister e Glenda hanno lasciato che anche all’amore accadesse qualcosa. Qualcosa di brutto e mutevole e disperato; qualcosa che dovrete andare a vedere e soppesare e tenere o lasciare andare, lasciarlo scivolare via risucchiato dall’acqua del lavandino.

Addio, Sweet Mister di Daniel Woodrell, (traduzione di Marcella Dallatorre, NNE) ha fin dalle prime pagine qualcosa di tenero e malinconico, e verso i due protagonisti principali, Shuggie e Glenda, proviamo un senso di familiarità e grande empatia. Le loro vite vanno avanti sullo sfondo di una imperscrutabile cittadina tagliata da strade che non li porteranno da nessuna parte. Vivono per resistere, in strani affondi in cerca di significato. “Per un po’ di tempo le giornate normali trascorsero con un che di diverso. A volte mi sembrava che la casa rabbrividisse. Succedevano le solite cose, ma non sembravano poi così normali, e ogni giorno capitava anche qualcosa di insolito. Una casa che rabbrividiva metteva tutto fuori squadra”.

Edoardo M. Rizzoli

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