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Dario Buzzolan. Baracca e burattini

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Lasciare tutto e scappare, succede. Sembra il gioco di guardie e ladri, nella migliore delle ipotesi invece è un fuggire da se stessi per un cambiamento di oscure previsioni. E’ anche l’imbocco di un’idea evitando i margini di una delle scritture irregolari, di quelle che asfaltano senza alcuna ratio. Così, rifiuti l’oggi per stare bene domani o nell’immediato. Quando scappi significa che si è rotto qualcosa che mette a rischio la tua tranquillità, la tua sicurezza. Potrebbe mancarti il fiato stando dove non vuoi più, semplicemente non ti piace. Puoi chiamarti vigliacco, temerario, debole, in tutti i modi che vuoi, sai, però, di che cosa hai bisogno e di quello che è inutile per te a detta degli altri. Almeno di tutti gli altri che appartengono alla casualità di passaggi che non si sono mai incastrati nel funereo vuoto delle tue ore storte. Lotti contro i dubbi, metti in discussione ogni cosa, addirittura la più lineare, nel convincimento di darti una possibilità che tracimi la sedazione del tormento. Certe situazioni scottano, rendono il cuore pesante e riprendersi è sempre più difficile. Gli sbagli si pagano, alcuni più di tutti. Ci sono storie lunghe che vengono da lontano, che iniziano da dove non ci appartengono, ma che attecchiscono nella pelle quasi a diventare respiri. Nuovi affanni, tempeste emotive, conflittualità e disprezzi sono la memoria di chi vorrebbe essere altro, ma rimane lo stesso pur prendendo la via della fuga. Certo, si può dimenticare e ricostruire. I miracoli viaggiano sulle ali della speranza. Quando li desideri non arrivano e nemmeno quando non ci pensi, quindi comprendi che devi aderire alla realtà dei fatti, analizzarli e decidere se svendere oppure no la dignità. Impari che un rifugio è indispensabile come protezione anche nell’attesa di un perdono che può togliere l’odio, la rabbia, la nostalgia, la violenza. Non ci si vendica, invece, della risolutezza che ha determinato la fuga, attaccata alla rinascita come un destino oppure come una condanna perenne.

In Baracca e burattini di Dario Buzzolan edito da Mondadori (pp 386) conosci una storia che si allarga e si allunga dalla Seconda guerra mondiale sino ad oggi. Elle è un’attrice, fa uso di psicofarmaci e beve. Lei, come gli altri della sua famiglia, non sa restare. Dai tempi del nonno Ermes esiste solo un destino: “fare baracca e burattini”, lasciare tutto e partire dove si può ancora iniziare con il primo passo. Nessuno di loro sa veramente restare perché c’è sempre qualcosa che si frantuma. Lo sa bene il padre di Elle che, da medico, crede di poter sollevare dal dolore dalla vita i malati terminali trovandosi così al centro di una campagna mediatica che, nel corso del tempo, lo svilisce esponendolo a relazioni pericolose. Di Ranieri si parla come “il medico che voleva giocare a fare Dio”. C’è un luogo che è diventato un rifugio, una residenza, una casa dove riprendere le energie e ritrovare se stessi. Si tratta della Casa Blu, una capanna vicino al mare. Ed è lì che Elle, a fatica, riesce ad abbandonarsi alle scorie dell’esistenza per cambiare pelle. Le ferite che ha sono tante, sono lo strascico di violenza, di abbandoni e di un nuovo vivere.

Il romanzo è intenso. La narrazione è un richiamo alla coscienza, alla memoria, agli errori. La scrittura, pur emotiva e sentita, presenta, in molti passaggi, periodi troppo lunghi, ricchi di virgole che infastidiscono il lettore che necessita di un ritmo per prendere fiato. A palare è spesso una mente tormenta che butta fuori quello che sente senza filtri e questo rende la storia empatica, interessante.

Lucia Accoto 

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