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David Trueba anteprima. Il mio ’69

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Un’analisi precisa: “Così la tenerezza ci ha sedotti, e anche se rimanevano evidenti tracce di inganno, sfruttamento e vessazioni, il discorso pubblico si è totalmente intriso di sentimentalismo. L’azione politica si è trasformata di nuovo nella ricerca di una soluzione alle necessità interiori, agli interessi, al benessere, allo stato d’animo della popolazione. E i cittadini hanno accolto tutto questo con entusiasmo, al punto da convincersi che il politico che stringeva loro la mano al mercato durante la campagna elettorale li distingueva nella massa. Un politico fatto per me. Lo stato perfetto è diventato quello che avrebbe anteposto il tuo interesse personale agli interessi collettivi. Vale a dire che lo stato si offriva di rafforzare le pareti del tuo bunker privato separato dalla collettività e, per tornare all’esatta definizione dei greci, ti rendeva un perfetto idiota”.

L’indipendenza in famiglia: “Mio fratello maggiore fu il primo, con la scusa dello studio, a godersi i fine settimana da solo a casa quando gli altri andavano nella casa di montagna. Nel quartiere aveva amici di tutti i ceti sociali, tra cui un ragazzo di nome Carrasco che fu il primo a spacciare hashish e sosteneva di portare occasionalmente la cocaina alle feste nelle case delle celebrità come Lola Flores”.

L’importanza della scuola: “Sentivo spesso gli aneddoti sulla scuola vicino a casa dove andavano i miei fratelli. Una maestra aveva perforato il timpano a un ragazzo con uno schiaffo. Un’altra aveva strappato l’orecchio a un nostro vicino col metodo di sollevarlo in aria prendendolo solo per i lobi. Altri bacchettavano sulle mani con righelli di legno e uno dei miei fratelli un giorno venne riportato a casa cagato addosso perché l’insegnante non l’aveva fatto andare in bagno durante la lezione.”

È in libreria Il mio ’69 di David Trueba (Voland 2025, pp. 216, € 18, con traduzione di Marco Ottaiano).

David Trueba, regista, sceneggiatore, scrittore e giornalista madrileno ha esordito nella narrativa con Aperto tutta la notte (1995), seguito da Quattro amici (1999), Saper perdere (2008) – vincitore del Premio de la Crítica in Spagna – Blitz (2015), La canzone del ritorno (2017) e Cari bambini (2021). Con il film La vita è facile a occhi chiusi (2014) ha conquistato sei premi Goya.

Il libro è composto da tre opere che tracciano il percorso umano e professionale di David Trueba, offrendo una bussola affascinante per orientarsi nella sua scrittura. Il mio ’69 – ancora inedito in Spagna – e Guadagnarsi da vivere si intrecciano in un viaggio autobiografico che parte dai nove mesi della sua gestazione, in un anno segnato dall’allunaggio e dalla fine dei Beatles. Emergono così l’infanzia in una famiglia numerosa, l’ingresso tardivo a scuola, le prime letture, l’influenza determinante dei suoi sette fratelli maggiori, i primi passi nel cinema, il conflitto con un padre scettico sulla sua vocazione artistica e la scelta di trasformare le passioni in un mestiere. Lo stile è denso di riferimenti culturali, con un equilibrio tra analisi storica e nostalgia personale, in una prosa fluida e suggestiva.

Chiude il trittico La tirannia senza tiranni, un’opera più riflessiva che analizza il nostro tempo, dominato da un individualismo esasperato e sempre più distante dall’interesse collettivo. Nel complesso, lo stile è analitico e appassionato, con un mix di saggistica politica e scrittura evocativa che mira a scuotere il lettore e a farlo riflettere sui dilemmi della nostra epoca e sul rapporto con le nuove generazioni: “Come dicevano gli anziani a noi giovani spagnoli cresciuti nel malcontento degli anni ‘80: vi abbiamo portato la democrazia, cosa volete di piu? Be’, noi volevamo tutto il resto”.

Carlo Tortarolo

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Ho provato a scrivere questo libro sei volte. E tutte e sei è finito nel cestino. A volte penso che sia un libro impossibile da scrivere. Perché io so scrivere solo di ciò che conosco mentre qui pretendo di parlare del luogo a cui approdai, nel quale crebbi, nel quale mi formai. Ma quel luogo non è il mio, è un luogo estraneo. È un libro in cui provo a raccontare le cose che mi hanno reso ciò che sono, indipendentemente dai miei meriti. È pertanto un libro fisicamente impossibile. Fin dal primo rigo, che dice così: fui concepito la notte del 1° gennaio del 1969.

Fui concepito la notte del 1° gennaio del 1969. “Il popolo spagnolo ha mangiato con allegria i dodici chicchi d’uva” titolò un giornale della sera l’indomani. Senza dubbio anche a casa mia quella notte fu allegra. E in effetti questa allegria, associata a un po’ di euforia etilica, potrebbe essere la causa del mio concepimento. Di sicuro non fu una deliberata azione di coppia. È un’ipotesi che mi sento di fare. Lo premetto: qui racconterò molte cose che invento, che intuisco, che interpreto e che immagino. Io so scrivere solo fiction, perché sono convinto, fra le altre cose, che scrivere, dall’istante stesso in cui si intraprende il lavoro, consista nell’immergersi nella fiction, in ogni forma possibile, inclusa quella documentaristica.

I miei genitori non erano troppo innocenti né troppo giovani quella notte. Lei aveva 36 anni e mio padre 52, età in cui uno conserva ben poco di ciò che tendiamo a definire candore. A quel tempo tra l’altro contavano già sette figli. Il maggiore quell’anno stava per compierne 18. Il più piccolo, che il mio arrivo avrebbe definitivamente reso il penultimo, quel gennaio aveva sei mesi esatti. In futuro mia madre avrebbe spesso ribadito:

Se vi capita di sentir dire da qualcuno che una donna non può restare incinta mentre sta allattando, voi riferitegli da parte mia che è una grossa bugia.

A mia madre consigliarono, dopo il parto del secondo figlio che nel marzo di quel 1969 avrebbe compiuto 16 anni, di rinunciare ad averne altri. Alcune complicazioni nell’espulsione della placenta fecero sfiorare la tragedia nel corso di quel parto domestico. Allora i casi di donne che morivano ancora di parto raggiungevano una percentuale da paese sottosviluppato.

Nonostante il parere medico, i miei genitori sfidarono la sorte. Ed ebbero così un terzo figlio, mio fratello Fernando, che in quei giorni di gennaio in cui io iniziavo la mia esistenza cellulare compiva 14 anni. Quelli erano i tre figli maggiori. Juanjo, Máximo e Fernando, i tre che formarono per sempre un’unità familiare indipendente, di lealtà moschettiera, perché dopo di loro ci sarebbe stata una lunga pausa nelle nascite di nuovi figli. Giusto sei anni.

Cosa accadde in quei sei anni di pausa? Come formiche operose, dopo vari andirivieni e traslochi, i miei riuscirono ad acquistare un appartamento in calle Lorenza Correa, nel cuore di un quartiere chiamato Estrecho, in piena esplosione demografica. Sono figlio di quel progresso, che fu un progresso dell’intero paese. In quella parentesi di sei anni mia madre e mio padre ebbero il tempo di organizzare il nuovo appartamento come casa-pensione per poter rimpinguare le scarse entrate familiari, e di dimenticare l’avvertimento medico circa i pericoli di nuove gravidanze. Passata la tregua, avrebbero avuto in poco più di otto anni i restanti cinque figli che andarono a completare la famiglia. Eravamo in pratica la seconda cucciolata.

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