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Deconstructing Chiara Gamberale – 3. Mettere i soldi nel tassametro: i misteri della lingua gamberalica

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Domenica prossima “Per dieci minuti” (PDM) di Chiara Gamberale riceverà il sessantaduesimo Premio Bancarella. Il pronostico è scontato allo stesso modo in cui era scontato quello che designava “Il desiderio di essere come tutti” di Francesco Piccolo vincitore dell’ultima edizione del Premio Strega. E è corretto che vada così, ché altrimenti sarebbe un’ingiustizia. Non tanto per una questione di qualità del libro da premiare, quanto guardando al profilo dell’autrice da premiare. Perché Chiara Gamberale è la figura più degna per dare continuità a un elenco di vincitori che alle ultime due edizioni annovera Marcello Simoni e Anna Premoli. Dunque, un premio di cotanta credibilità è “doverosamente” destinato a lei. Che del resto con l’ultima vincitrice, la mia coccolatissima Anna Premoli (si veda “Ti prego, lasciati mandare al macero” nel mio blog Cercando Oblivia e “(S)Bancarella. Anna Premoli, stoica come fosse antani” su Satisfiction), condivide una certa dimestichezza con la lingua italiana e soprattutto la passione per un elemento narrativo-descrittivo specifico: gli occhi. Chi ha letto il mio secondo articolo dedicato alla scrittura della scuderia Newton Compton sa dell’imbarazzante insistenza dedicata a questo elemento. Ebbene, sia in PDM che in “Quattro etti d’amore, grazie” (QEAG), Chiara Gamberale ne abusa. Lo fa mettendoci un po’ più di varietà rispetto alla sua predecessora nell’albo d’oro del Bancarella (senza che ciò costituisca un gran titolo di merito), ma lo fa. Ecco la lista:

“(…) quegli occhi liquidi un giorno grigi un giorno acquamarina.” (QEAG, p. 36)

“Aveva gli occhi marrone triste.” (QAEG, p. 42)

“L’occhio di bue pazzo dell’impossibile attenzione di Riccardo per un attimo si ferma lì.” (QEAG, p. 47)

“(…) mi ha ficcato negli occhi gli occhi sporchi di sonno.” (QEAG, p. 48)

“(…) gli occhi all’insù, da gattina vanitosa.” (QEAG, p. 49)

“(…) quegli occhi da sanbernardo abbandonato.” (QEAG, p. 88)

“Dalla poltroncina davanti a noi si gira un signore, forse infastidito. Ha due occhi di un azzurro incredibile, sembrano pescare proprio nel fondo dell’azzurrità, per restituirla così com’è” (QEAG, p. 93)

“Con quello sguardo umido, bovino” (QEAG, p. 198)

“Gli occhi bovini” (QEAG, p. 210)

Gli occhi liquidi della vecchina frugavano nei miei, da dietro le lenti spesse. (PDM, p. 68)

Alle cinquanta sfumature di occhio, che vanno dal marrone triste al sanbernardo abbandonato passando per il fondo dell’azzurrità, vanno aggiunti i continui riferimenti che in PDM vengono fatti a “gli occhi gialli” di Mio Marito, il consorte della protagonista. E riguardo a questo specifico aspetto mi sento di fare una considerazione, dettata da esperienze di lettura che vado conducendo da alcuni mesi. Cioè da quando ho deciso di condurre un’analisi sulla letteratura rosa contemporanea. I miei edicolanti mi vedono acquistare paccate di libri della serie Harmony (specie quelli delle collane erotiche) e mi guardano preoccupati. E sono sicuro che qualcuno di loro prima o poi mi chiederà cosa cazzo mai mi spinga a leggere quei volumi lì. Lo faccio per un puro interesse intellettuale, cioè lo stesso motivo che m’induce a leggere i libri di Chiara Gamberale o mi ha spinto a leggere tutti i libri di Federico Moccia quando lavoravo a “L’importo della ferita e altre storie”. Da sociologo, studio i meccanismi che rendono popolare un fenomeno e costruiscono attorno a esso il consenso del pubblico. E questo atteggiamento mi porta a mettere da parte il giudizio di valore rispetto agli oggetti dell’analisi. Se dovessi giudicare soltanto a partire dal gusto personale e dalle sensazioni di piacevolezza suscitate da un libro, non toccherei nemmeno con la canna da pesca un volume di Chiara Gamberale, o di Federico Moccia, o di una qualsiasi collana Harmony. Ma poiché sono interessato a capire come mai ciascuno di questi prodotti editoriali intercetti porzioni di pubblico, e generi a proprio modo cultura, ecco che mi confronto con tutti e tre. E venendo allo specifico della letteratura rosa, il mio interesse è per le strutture narrative, i canovacci, i profili dei personaggi, gli snodi ricorrenti della trama e gli elementi di narrazione che rappresentano una costante. Fra questi ultimi, ce n’è una che è rintracciabile ovunque: gli occhi, soprattutto quelli del “lui”, il personaggio maschile dallo sguardo fatalmente magnetico. Dunque, che Premoli e Gamberale abusino di questo elemento da letteratura rosa, per casalinghe già decotte e in attesa di diventare Desperate Webwives cadendo nelle grinfie dei massimibisotti, non mi stupisce. Men che meno mi sorprende il passaggio di testimone fra le due nell’albo d’oro di un premio letterario come il Bancarella.
Ma in fondo il dettaglio relativo agli occhi è quello meno imbarazzante, nella lista che vado a esporre. Denota soltanto scarsa propensione a variare, il che è peccato veniale. Altrettanto veniale è il peccato che induce Chiara Gamberale a abusare di quelle che possono essere definite “formule del pressappoco”: cose del tipo “o giù di lì”, “o quello che è”, e analoghe. Un tic per le situazioni indefinite/indefinibili che alla lunga stanca parecchio il lettore esigente:

Tocca a lui aprire la commemorazione funebre di Claire.
O quello che è. (QEAG, p. 79).

“Fra l’altro, ‘Testa o Cuore’ non è una soap opera.”
“Quello che è.” (QEAG, p. 80).

Il desiderio, quello che è. (QEAG, p. 96).

Sorrideva o giù di lì, perfino lui. (QEAG, p. 101).

“(…) la mia relazione, o quello che è” (QEAG, p. 126).

“Non è stata una soap opera, papà. Era una serie.”
“Quello che è.” (QEAG, p. 167).

“La televisione rassicura, Wendy. Prendi la tua soap.”
“Purtroppo non è più mia. E comunque non era una soap”.
“Quello che era. Comunque rassicurava” (QEAG, pp. 176-7).

Forse piangendo, forse no, che differenza fa. (QEAG, p. 200; notare la mancanza del punto di domanda, elemento del quale ci si occuperà fra poco).
 
Dalla responsabilità di essere davvero un’adulta o almeno giù di lì (PDM, p. 14).

Sistemiamo il portatile in salotto, perché ci sia spazio abbastanza per ballare, o per quello che sarà (PDM, p. 42).

La possibilità di prenderlo in affido o giù di lì (PDM, p. 179).

Continuiamo a trovarci dentro il perimetro della scarsa cura del testo. Delle ordinarie sciatterie che un editing appena attento avrebbe evitato. Però il dossier comincia a farsi imbarazzante man mano che ci si spinge oltre. Per esempio, in QAEG si denota una grottesca tendenza a usare “’sto” o “’sta” come diminutivo di “questo” e “questa”, ma senza l’utilizzo dell’apostrofo. Con l’effetto di riprodurre la prima o la terza persona, al singolare, del verbo “stare”:
“E se invece la signora Cunningham fosse una che sto qualcosa l’ha messo in conto?” (QEAG, p. 30).

“Certo che palle, sta signora Cunningham.” (QEAG, p. 230).

La verità è che i clienti di sto supermercato sono tutti un po’ matti. (…) Tutti così, i clienti di sto supermercato. (QEAG, p. 238).

Sì, odo già l’obiezione di chi mi accusa d’attaccarmi alle minuzie. D’essere “formalista”, il che è al giorno d’oggi accusa infamante quasi quanto “divulgatore” nei circoli accademici. Ma è sempre la somma a fare il totale, e questa somma procede per accumulazione dagli errori minimi a quelli marchiani. E invero comincia a essere marchiana, nei due libri passati in rassegna, la reiterata elusione del punto di domanda. Qualcosa che in questa misura avevo ritrovato soltanto nei libri dei già citati Anna Premoli e Federico Moccia. Ecco la lista:

“Dai, Michele, perché devi dire così.” (QEAG, p. 18).
“Ma no, come potrebbe.” (QEAG, p. 34).
“E chi se lo aspettava così presto.” (QEAG, p. 35).
“Che c’è.”  (QEAG, p. 40).
“Sì, certo, come no.” (QEAG, p. 52).
“Riccardo, ma che dici.” (QEAG, p. 80).
[Si parla di coppie] “Quelle come magari saremmo stati Fulvio e io, chi lo sa.” (QEAG, p. 103).
“Ma chi lo sa.” (QEAG, p. 112).
“Ma dove ce l’ho la testa. Dove. Dove, dove.” (QEAG, p. 150: ben tre volte in un colpo!).
Come farei senza di loro.
Come.
Come facevo. (QEAG, p. 160).
“Ma allora perché, Wendy.” (QEAG, p. 198).
Forse piangendo, forse no, che differenza fa. (QEAG, p. 200).
Come no. (PDM, p. 19).
Chi lo sa. (PDM, p. 38).
Come dirle no. (PDM, p. 61). 
Come vuoi che stia. (PDM, p. 75).

È pedanteria sottolineare questi strafalcioni? Direi proprio di no. Viviamo un’epoca in cui la comunicazione si fa un po’ troppo smart. Talmente da dimenticare le regole elementari della forma scritta del discorso. Ciò viene perdonato con l’argomentazione secondo cui la situazione discorsiva comunica di per sé il senso della frase: e che, nello specifico, chi si sente rivolgere una domanda sa che l’interlocutore gli sta rivolgendo una domanda, e che dunque il rimarcare quella stessa domanda attraverso l’uso della punteggiatura verrebbe a essere cosa “opportuna ma non determinante”. Dunque, non indispensabile. Il che talvolta è anche vero, ma ciò non fa si che sia anche accettabile. Da utente dei social network come tutti voi mi vedo giungere valanghe di messaggi del genere: “Ciao stai bene”. E è ovvio che il contesto del discorso mi veicoli un significato la cui corretta forma scritta sarebbe: “Ciao, stai bene?”. Dunque, il danno dal punto di vista della pragmatica comunicativa (cioè dell’effettiva trasmissione del messaggio e del suo senso dall’emittente al ricevente) non sussisterebbe. E tuttavia questo ragionamento omette che da comportamenti così disattenti verso la correttezza formale nella composizione di un testo, e dal loro diffondersi capillare, si ha come conseguenza un lassismo linguistico di massa. Il vero Millennium Bug che sta disarticolando lentamente la nostra capacità di scambiarci comunicazione e informazione. E ci si accorge di quanto profondamente stia agendo questo virus quando le “domande prive di punto di domanda” sono un po’ meno riconoscibili. Per esempio, quando anziché in un “Ciao stai bene” m’imbatto  in un “Ciao tutto ok”. Il che genera in me spiazzamento. Chi ha scritto mi ha rivolto un’interrogativa (“Ciao, tutto ok?”) o un’assertiva (“Ciao, qui è tutto ok”)? E se è valida la seconda ipotesi, cosa voleva asserire l’emittente? Ovvero, cosa sarebbe ok? Qualcosa di cui mi ha detto in precedenza ma ho dimenticato? Qualcosa di cui è convinto d’avermi già parlato quando invece non è così? E se sono vere queste due ipotesi, cosa devo fare?  Chiedere delucidazioni, instillando nell’emittente la sensazione d’essere poco ascoltato o sbadato? O arrangiarmi a cavare dagli scambi successivi quella parte omessa-sottintesa di messaggio? Oppure devo tenere in conto un’ulteriore ipotesi, e cioè che l’emittente abbia sbagliato destinatario mandando a me un messaggio che doveva giungere a qualcun altro? Come vedete, dalla semplice omissione d’un punto di domanda può scatenarsi una catena d’equivoci apparentemente minimal, ma che in realtà intossica la correttezza comunicativa e il fluire del messaggio. E è proprio attraverso questi micro-sabotaggi che si ha, per sommatoria, la corrosione della lingua e del suo uso quotidiano. Purtroppo coloro che scrivono i libri, e soprattutto coloro che li editano, hanno perso totalmente consapevolezza di quella che è la loro principale responsabilità sociale: la manutenzione della lingua quotidiana. Quanto più un prodotto editoriale è diffuso, e/o quanto più si veda assegnare una legittimità culturale rilevante, tanto più i suoi eventuali difetti formali avranno ricadute devastanti quanto a uso della lingua. L’omissione del punto di domanda è il segmento più sistematico di questo sabotaggio, e ingenera l’impressione sempre più perniciosa che di questo segno si possa fare a meno. Sotto questo profilo, in QEAG e PDM, Chiara Gamberale fornisce un sostanzioso contributo alla diffusione del Millennium Bug. Volenterosamente, allegramente, senza mai perdere la tenerezza.
I preziosismi linguistici dell’autrice non si fermano alla categoria “domande senza punto di domanda”. Leggete quest’altro frammento a pagina 26 di QEAG:

“Tea Fidelibus a sedici anni sono certa non somigliasse a nessuno.”

Mezzo chilo di anacoluto, prego. Già che ci siamo, vogliamo dare il Bancarella al ragazzino che nel tema in classe scrisse “Io speriamo che me la cavo”? Del resto, sta per vincerlo un libro come PDM, che alle pagine 50-1 contiene questo passaggio:

“Oltre a fuggire dal Natale,i nostri viaggi per il mondo si sforzavano sempre di trovare ricambiato il mio amore per la natura e il suo per le opere d’arte”.

Ma che razza di costruzione del periodo è questa? Preso alla lettera, esso dice che i viaggi fuggivano dal Natale e si sforzavano sempre di trovare eccetera eccetera. A beneficio di Chiarina e del suo maldestro editor targato Feltrinelli, offro gratuitamente una corretta costruzione di quel passaggio: “Oltre che a fuggire dal Natale, i nostri viaggi servivano a vedere ricambiato il mio amore per la natura e il suo per le opere d’arte”. Complesso ma non difficile, sapendo dove e come mettere le mani. Ma tant’è.
Ci sono poi i passaggi in cui Chiara Gamberale prova a scrivere complicato. I risultati sono dei nonsense agghiaccianti. Esemplare il frammento a pagina 44 di QAEG:

“Ma nessuno era come me, nessuno era come noi, quel giorno a cui l’anno di solito rinuncia per un primo marzo, in quel parco per cui la città rinunciava per un garage.”
Il “giorno a cui l’anno di solito rinuncia per un primo marzo” sarebbe il 29 febbraio. Che limpida e agile perifrasi, vero? Nella stessa pagina si trova un altro frammento di prosa cristallina:
“Tutto quello che mi sarebbe servito poi, che ancora mi serve, per cercare un filo da seguire che non mi faccia perdere, nel labirinto senza illuminazione che gli fa da principio di realtà.”
Se ha deciso di battersela con Antonio Scurati in una gara di geroglifici è sulla buona strada. E a rafforzare il convincimento provvede il lungo frammento a pagina 81 di QEAG:
“In realtà, ero semplicemente una ragazzina disturbata, a un passo dalla diagnosi clinica di psicosi da cleptomania, che, innamorata pazza del suo professore, l’avrebbe seguito ovunque, purché la portasse lontano da se stessa, con la speranza, segreta e non del tutto consapevole, che la distanza si rivelasse l’unico mezzo per arrivare al centro di quella se stessa, dove poter disinnescare il bisogno dei portafogli degli altri, dei loro scarti, degli scalpi dei cuori di ogni uomo che incontrava, dove poter disinnescare la colpa, la tentazione di fuggire da ogni qui, l’incondizionata fiducia nel lì”.
È fatta così, convinta che questo contorcersi fra le parole rifletta personalità complesse anziché confusione mentale. E così facendo è facile imboccare la strada delle insensatezze. Come quella a pagina 128 di QEAG:
“Non ho mai ascoltato nessuno ascoltare come ascolta Anthony”.
E con questa siamo davvero in zona-Premoli, specie se si fa riferimento a quei passaggi in cui la vincitrice del Bancarella usa formule del tipo “azzardo prudentemente”, o “non c’è nemmeno l’ombra di un raggio di sole”, o “i più accaniti premi Nobel per la Pace”. A conferma di quanto Chiara Gamberale ne sia la naturale erede. Chi avesse ancora qualche dubbio in proposito, legga il frammento a pagina 129 di QEAG:
“Parcheggia la Smart, non si preoccupa nemmeno di infilare le monetine nel tassametro (…).”
Proprio così, per lei e per il suo editor (in questo caso targato Mondadori) “tassametro” e “parchimetro” sono la stessa cosa. Ma sì, cosa mai volete che sia? In fondo entrambi segnano il tempo e la tariffa. E cosa diamine cambia se uno tassa la locomozione e l’altro la sosta? Allo stesso modo, cosa volete che sia se Chiara scazza persino su un personaggio di romanzo le cui caratteristiche dovrebbero essere note a tutti grazie alla sua trasposizione nel mondo dei cartoon? Eppure succede a pagina 86 di QAEG. Il personaggio in questione è Capitan Uncino, a proposito del quale ci si chiede:
“Un pirata senza una gamba, che odia Peter Pan?”

Ma come? Non bastasse una mano, pure una gamba? Va a finire che si scade nel trash, e su questo piano alcuni passaggi di QAEG toccano picchi ineguagliabili. Come a pagina 64, quando si riferisce di come il padre di Tea Fidelibus ammazzi la poesia che si celava dietro un interrogativo esistenziale della figliola. Succede infatti che la piccola Tea chieda a tutti cosa si nasconda dietro il cielo. E questa è la risposta che ottiene una domenica a pranzo:

“Mamma, papà, ve lo siete mai chiesto? Che cosa nasconde dietro?”
“Ma chi, Tea?”
E la figlia sta per rispondere: “Il cielo!”, ma a Il Padre? A Il Padre scappa un rumore. Anzi, a riavvolgere la scena e guardarla al rallentatore si capisce benissimo, si capisce benissimo che non gli è scappato: ha alzato un’anca, appositamente. Perché è Casa Sua. È in Famiglia. Di Domenica. A pranzo” (QEAG, p. 64)

Eccolo qui, un bel quadretto di famiglia tradizionalista. Col padre (anzi, con Il Padre) che essendo il “male bread-winner” si sente autorizzato anche a essere “fart-bomber”, e mi si perdoni l’inglese maccheronico. Della serie: io porto il pane a casa e allora scoreggio quanto mi pare, specie a tavola e specie la domenica. Ora, io non ho idea di cosa succedesse presso il desco domenicale di casa Gamberale nei giorni in cui Chiara era infanta, né è il caso d’aprire un paragrafo sul rapporto tra arte e vita. Mi basta rimarcare come qua e là, specie nelle pagine di QAEG, emerga una vena trash da cinepanettone. Esemplificativo di questa vena è il personaggio di Anthony, il personal trainer che conduce un programma televisivo e diventa l’amante di Tea Fidelibus. Anthony è un americano che si esprime in un italo-napoletano come non lo sentireste parlare nemmeno dalla più bieca macchietta cinematografica. Per dire, ecco come a pagina 218 si rivolge a Tea quando quella decide di lasciarlo e sospettando che lei stia tornando dal marito:

“Mi lasci per lo psichotic, lo so. Perché tu ami lui also mo’, maybe soprattutto mo’, che se n’è juto.”

Una roba imbarazzante, pensata apposta per strappare la risata grassa dei fan de “I soliti idioti”. Anthony si esprime sempre così, e il punto massimo di questa sua vis comunicativa si tocca proprio nel momento in cui Tea lo incontra per la prima volta. Lui s’aggira per gli studi televisivi e si rivolge a lei e ai colleghi come segue (p. 118):

“Devo fare pupù.”

E interpretando lo stupore degli interlocutori come se si trattasse di mancanza di comprensione, precisa:

“Pupù. Shit. ‘Ammerd’.”

Trattengo la tentazione di scendere su quel piano, anche perché a questo punto sarebbe infierire. Mi limito a dire che questo quadretto m’ha richiamato alla mente il personaggio dell’agente segreto Ciccio Bastardo, protagonista dei capitoli numeri due e tre della saga cinematografica “Austin Powers”. In particolare, l’ingresso in scena di Anthony mi ricorda quello di Ciccio Bastardo nel rifugio segreto del Dottor Male. Chi volesse togliersi lo sfizio vada su You Tube e cerchi “Ciccio Bastardo – Friggere!”. E dopo averlo visto si potrà fare un’idea di quale sia la mia immagine di Anthony.
E con questo tocco di soavità si chiude la mia ricognizione sui due ultimi libri di Chiara Gamberale. Ma non su Chiara Gamberale tout court. Perché mi è rimasta la curiosità di vedere se anche tutti gli altri suoi libri siano conciati a questo modo. E purtroppo per lei non lascio inevase certe curiosità. Baciamo le mani e alla prossima.
(3. fine)

@pippoevai

P.S. Satisfiction va in vacanza fino alla seconda metà di agosto, ma i miei esercizi d’analisi testuale non si fermano. Chi volesse continuare a seguirli può consultare il mio blog Cercando Oblivia sulla piattaforma WordPress.

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