Dialoghi della sedia. Azioni a più voci, pubblicato per Anterem edizioni nel 2023, è una prova performatica di Chiara Serani, vincitrice del Premio Montano XXXVI edizione, non solo performativa ma performatica poiché la dualità performer-pubblico è superata dal s-oggetto e dal dualismo inter-assente corposedia che significa «omaggiare figure come quelle di Ana Mendieta, Marina Abramovic, Carolee Schneemann, Vito Acconci, Joseph Beuys… e allo stesso tempo provare a trasformare in scrittura le loro azioni in un’ideale ibridazione di gesto e parola.»
Nella scrittura di Serani, in questi Dialoghi, c’è un corpo che si trasforma e si adegua, che si lascia cullare dalla Cosa, che si accomoda a quel materno prelinguistico di chi non ancora parla, l’infans che gode del suono dell’altro rassicurante ed enigmatico. Lalangue straniante in questi Dialoghi che riformano la seduta, spezzano il legame sperimentale e canonico rendendo la cifra stilistica un desiderante puro che ingloba diverse forme e ritmi. Per Serani «la poesia e la scrittura poetica sono quindi recupero ed esperienza rinnovata di quel piacere primigenio, riappropriazione di una dimensione linguistica altra e di un godimento libero». Il suono e il gesto, descrittura di un assente possibile che può essere azione musicale e fisica, che vive della possibilità del salto quantico, informazione scritta e performazione audioimmaginale, essa stessa performance: «penso spesso ai testi alla base del mio libro anche come a canovacci per un’attrice o una performer […] Ma potrebbe anche essere una composizione musicale.» In questo scrivereflusso è tanto importante la linea dello studio, forse a posteriori, quanto quella imprescindibile del flusso perfomativo, dentro il flusso e fuori dal flusso, avrebbe detto Schechner, che libera energia in una dimensione non omologata né rassicurate, e in questo senso, semmai, potrebbe esserci un blocco censorio, da individuare nella difesa psichica del soggetto: «La censura che mi interessa e preoccupa di più, francamente, è quella interiore, l’autocensura.» In questo fondersi di corpi e di oggetti, di sedie e di luoghi, il tessuto dei gesti è teso a rompere gli schemi a favore di una profonda liberazione.
A sperimentare e cercare posizioni altre da quelle canoniche, si può leggere un atto poepolitico che disomologa il genere, letterario, sessuale. Ma il tutto dialogante è sempre più complesso del singolo programma, sia ideologico, formale o di contestazione: «Penso solo che se ci limita al mestiere si produce in serie, cosa che personalmente non apprezzo. […] se la contestazione è meramente ideologica credo si parta quasi sempre perdenti, perché si rischia di semplificare l’inesauribilità potenziale di un’opera, appiattendola programmaticamente sulla sua dimensione politica.» Dialoghi della sedia. Azioni a più voci mette in moto una scrittura plurivoca e vuota la dimensione della pagina verso un’apertura che accoglie un desiderio pluridimensionale, quantico…
Gianluca Garrapa
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Qual è stata la genesi del tuo libro e perché hai desiderato scriverlo?
Dialoghi della sedia. Azioni a più voci è nato come frutto di un interesse per la body art e la scena performativa degli anni Sessanta e Settanta, decenni di un fermento sperimentale forse irripetibile. Volevo omaggiare figure come quelle di Ana Mendieta, Marina Abramovic, Carolee Schneemann, Vito Acconci, Joseph Beuys… e allo stesso tempo provare a trasformare in scrittura le loro azioni in un’ideale ibridazione di gesto e parola in cui l’ecfrasi dell’atto performativo si desse però in paradossale sottrazione di rilevanza alla parola stessa. In effetti quel che ho cercato di ricreare è una sorta di “teatro della crudeltà” di stampo artaudiano dalla scrittura perlopiù referenziale, scarna, ripetitiva, a favore, semmai, di una concertazione quasi musicale di azioni oniriche, rituali, cerimoniali. Queste ultime sono tuttavia portate a reagire, spesso in contraddizione rispetto alla fossilizzazione verbale, con diverse voci-scritture di varia provenienza (dal web al canone poetico) lungo un continuo dialogo intertestuale; si crea così una sorta di controcanto ora ironico, ora analitico, rispetto alle azioni performative descritte, nell’intento di lasciare in bilico e in mutazione incessante il rapporto fra parola e gesto. Ovvero proprio ciò che mi interessava esplorare e “fermare” su carta. Scrivere è anche esorcizzare, fissare sulla pagina – sicuramente depotenziandole, ma tant’è – figure e immagini che sono ricorrenti nel pensiero, o incistate nell’inconscio; dunque scrivere, per me, anche quando si tratta di scrittura critica, non solo poetica, è voler accedere a una sorta di liberazione, che mi permette poi, di volta in volta, di dedicarmi ad ulteriori prove scrittorie.
Quando scrivi, godi?
Credo si tratti di un piacere radicato nell’infanzia. Se ripenso alle ninne nanne e alle filastrocche che hanno arricchito i miei primi anni di vita e configurato per me il dettato poetico prevalentemente come dettato ritmico, sonoro, musicale, precedente la scrittura, penso a un’esperienza di piacere. Va da sé, tale esperienza si è poi sviluppata e fatta più complessa e articolata con la lettura, la scrittura e lo studio, ma sono convinta che in ciascuno di noi rimanga viva e attiva una sorta di “lingua madre” – quella di cui parlano Luisa Muraro, per esempio, o Ida Travi – che ha a che fare con l’oralità ed è fatta di esperienze linguistiche infantili (lallazione, glossolalia, paralalia…) radicate nella sensorialità, nella pulsazione, retrocedendo addirittura a quella che Julia Kristeva chiamava “chora semiotica”, anteriore all’acquisizione stessa del linguaggio. Per me la poesia e la scrittura poetica sono quindi recupero ed esperienza rinnovata di quel piacere primigenio, riappropriazione di una dimensione linguistica altra e di un godimento libero, quand’anche la poesia comporti, soprattutto da lettrice, un grande sforzo ermeneutico, una sfida intellettuale; e anzi, più alta la sfida – quindi più alto il grado di complessità poetica – più profondo il piacere, perché in tal caso essa comporta uno svincolamento totale dal retaggio e dagli automatismi del pensiero e della lingua strumentali. Più è forte il senso di “straniamento” – per recuperare una parola cara al formalismo russo – più è regressivo, dunque piacevole, il percorso che conduce via dalla semiosfera e verso il riavvolgimento della Caduta nella prigione dell’ordine simbolico.
Un estratto dal libro che è risultato più difficile o particolarmente importante: perché? Lo puoi trascrivere qui?
Sono seduta su una sedia, la nostra. Sono nuda, al buio. Si accende una luce. Al mio fianco, sulla destra, per terra: una lepre morta, un coltello da cucina ben affilato, un panno. Raccolgo lepre e coltello, incido l’attaccatura delle zampe anteriori e posteriori facendovi quattro tagli circolari. Poi incido le due cosce in modo da metterle a nudo. Depongo a terra la lama e prendo entrambe le zampe posteriori con la mano sinistra, mentre con la destra tiro giù la pelle, rivoltandola. Viene via facilmente, fino al collo. Faccio qualche altro taglio sulle zampe anteriori e spello completamente la carcassa. Mi aggiusto il tegumento come una piccola sciarpa gelata. Le canto qualcosa, alla lepre, e le parlo un po’ di pittura rinascimentale. Infine, la sistemo nel panno appena raccolto e metto tutto sotto la sedia.
[Si dice: «I cani da caccia non determinano alcuna lepre pur inseguendo spesso quest’ultima. Non sono le ore 20:00 solo perché sta iniziando il telegiornale; né tantomeno esso inizia perché sono le 20:00». Si dice inoltre: «Caccia e cani sono un’invenzione divina: ne furono autori Apollo ed Artemide, che ne fecero dono a Chirone per onorarne la rettitudine».]
Si tratta di una delle “azioni” – questa in particolare dalla sezione intitolata L’eschimese – che compongono il testo; la scelgo perché per me coincide con una vera e propria mise en abyme dell’intera opera e perciò si presta bene a rappresentarla.
Se non fosse scrittura, cosa potrebbe essere il tuo libro?
Sicuramente, ça va sans dire, una performance. In fondo penso spesso ai testi alla base del mio libro anche come a canovacci per un’attrice o una performer, che idealmente mi piace immaginare libera di improvvisare e variare trasmutando così del tutto la pagina in evento, in un atto poetico irripetibile e mai uguale a sé stesso, fatto di suoni, gesti, movimenti. Ma potrebbe anche essere una composizione musicale: del resto, non solo molti dei titoli delle sezioni, da Suite dell’armadio a Ballate del tintinnio dei semi fino a Requiem del confessore (solo per fare degli esempi), fanno riferimento proprio alla musica, ma nel libro è riprodotto anche un estratto di spartito, precisamente dalla Sonata per violino in sol minore di Giuseppe Tartini. Mi piace poi ricordare che il caro amico ed eccellente compositore Antonio Agostini ha prodotto dalla sezione Forame ovale pervio un brano omonimo per due clarinetti ed elettronica, peraltro recentemente presentato ed eseguito al 43° Festival Spaziomusica di Cagliari. Questo per dire che il mio lavoro, credo, ha già una sua intrinseca natura intermediale e che aspira a una dimensione che vada oltre quella della pagina letteraria.
Che rapporto hai con la censura?
La censura che mi interessa e preoccupa di più, francamente, è quella interiore, l’autocensura. Per quel che mi riguarda la scrittura, come dicevo prima, è anche un atto liberatorio (certo, sempre mediato dal filtro intellettuale ed estetico), e spesso mi accorgo che quello che scrivo è – per fortuna – meno sorvegliato di quel che credevo o penserei. In Dialoghi della sedia. Azioni a più voci, per esempio, ci sono vari passi abbastanza efferati, sconvenienti, quasi abietti. E con questo mi riferisco a un concetto come quello esposto da Julia Kristeva, per esempio, nel suo Poteri dell’orrore. Saggio sull’abiezione, in cui quest’ultima si dà anche come un codice di ribellione, ovvero ciò che perturba l’identità, il senso, l’ordine, ciò che non rispetta i limiti e le regole; ma è una riflessione che mi sono trovata a fare quasi a posteriori rispetto alla scrittura stessa, come se un ritorno del rimosso si fosse infiltrato mio malgrado, oltrepassando suo motu la frontiera censoria.
Per te scrivere è un mestiere o un modo di contestare lo status quo?
Se intendo bene la tua domanda, nessuna delle due cose; scrivere “per mestiere” o “con mestiere” si può senz’altro, ma il rischio è quello di diventare mestieranti, appunto, e dunque insipienti ed epigonici, anche rispetto a sé stessi, oltretutto vincolando la scrittura a una continua reificazione produttiva. Con ciò non intendo proporre né coltivare alcuna idea di “libera ispirazione” o di “sublime scritturale”: in fondo l’arte letteraria non è che una specializzazione della comunicazione, la quale è di per sé, in termini marxiani, come ben aveva intuito il nostro Ferruccio Rossi-Landi, un terreno di lavoro e scambio linguistico, dunque di produzione e mercificazione. Penso solo che se ci limita al mestiere si produce in serie, cosa che personalmente non apprezzo. Contestare lo status quo, dal canto suo, si può pure, e va bene per me nel momento in cui con l’espressione ci si riferisce al panorama letterario: allora si innesca un processo di ricerca teso a rinnovare e svecchiare lo “stato dell’arte” di un genere, di un canone… Di contro, se la contestazione è meramente ideologica credo si parta quasi sempre perdenti, perché si rischia di semplificare l’inesauribilità potenziale di un’opera, appiattendola programmaticamente sulla sua dimensione politica. Nel caso del mio libro, per esempio, l’idea era anche quella di intessere un discorso sul femminile, e sul corpo come medium artistico, rivendicando una possibile liberazione da modelli storici e socioculturali imposti, che vengono contestati attraverso la riassunzione di una gestualità rituale-sacrale e la rifunzionalizzazione di oggetti di uso comune e spesso di ambito tradizionalmente muliebre. In questo senso, già l’oggetto “sedia” si fa correlativo oggettivo, via via, di uno spazio mentale, domestico, familiare… – e dunque anche politico – da cui affrancarsi o, viceversa, da abitare; e i contorsionismi che mette in scena la persona poetica del testo sono un modo proprio per contestare una certa ortopedia di genere. Ma questo, almeno spero, è solo uno dei livelli di lettura del testo e mai smaccato; ogni opera vive o dovrebbe vivere infine di vita propria, ma se risulta del tutto schiacciata su un’intentio auctoris, come avrebbe detto Umberto Eco, solo politicamente contestataria, temo che la sua natura letteraria sia andata persa. Se invece, con la tua domanda, ti riferivi al fatto che l’atto stesso della scrittura possa essere di per sé una via per sottrarsi a un certo modus vivendi imperante e dunque contestarlo, allora la risposta è che in parte per me è così: scrivere e fare ricerca letteraria (sia critica che poetica) equivale, a mio avviso, a un atto di resistenza (alla cialtroneria, al pressapochismo, alla perdita di attenzione, all’iper-connessione… ), ma non credo sia qualcosa di universalmente intrinseco alla scrittura – che infatti molte volte risulta un atto puramente ozioso, un mero esercizio di sfogo personale tutt’altro che contestatario –, né è per me un gesto programmatico, semmai più una necessità, legata anche al piacere e alla sfida di cui dicevo prima.
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Chiara Serani, Dialoghi della sedia. Azioni a più voci, Anterem edizioni, 2023.