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Dino Buzzati. Intervista a Gianfranco de Turris

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Gianfranco de Turris, curatore del volume Dino Buzzati di Fausto Gianfranceschi (Iduna, 2025, pp. 200, € 20), racconta a Satisfiction l’attualità visionaria di uno scrittore che ha saputo trasformare la cronaca in mito.

Carlo Tortarolo

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Buzzati è sempre stato letto come un autore del fantastico, ma è anche una figura leggendaria con un cuore religioso nascosto. In che misura Buzzati può essere considerato non soltanto uno scrittore, ma un mitografo, un creatore di nuove leggende per un’Italia che stava perdendo i suoi miti?

Bisogna intanto dire che Buzzati è un po’ una rara avis nella letteratura italiana del Novecento, che è stata sostanzialmente una letteratura realistica. Consideriamo che naturalmente esistono delle eccezioni, ancora prima ci sono state le evasioni nel fantastico, nell’immaginario, degli Scapigliati, dei Futuristi, del realismo magico di Bontempelli. Però gli autori che si possono avvicinare a Buzzati per questa sua tendenza sono pochissimi, si contano sulle dita di una mano. Sono Calvino, sono Primo Levi sotto certi aspetti, sono Tommaso Landolfi, molto diversi uno dall’altro, ma comunque autori che possiamo definire, come io li definisco, dell’immaginario.

Buzzati era molto particolare, lui guardava le cose con un occhio straniante, anche nel suo lavoro di cronista del Corriere della Sera, prima di diventare critico d’arte. Vedeva tutto in una maniera “strana” appunto, è sempre stato così. E nella sua produzione narrativa si riflette tutto ciò. Naturalmente è anche l’autore di Un amore. Quando pubblicò questo romanzo iperrealistico e sostanzialmente autobiografico suscitò stupore se non scandalo considerando che era sempre stato riservatissimo sui suoi fatti privati, però Buzzati rimane lo scrittore dell’immaginario italiano più classico, più identificativo.

In ognuno dei suoi innumerevoli racconti si rintracciano effettivamente le radici di un legendarium italiano che si stava all’epoca – parliamo tra gli anni 50 e gli anni 70 quando morì – perdendo, dimenticando, trascurando e lui invece lo ricercava non solo nelle sue invenzioni narrative ma anche nei fatti che concreti, di cronaca, che andava raccontando sulle pagine del quotidiano milanese assolvendo in tal modo, probabilmente senza saperlo, appunto la funzione di mitografo. Basterebbe peraltro leggere a fondo la sua narrativa per capire l’ottica con cui osservava il mondo circostante, anche se penso che non si rendesse conto esattamente di quella che stava diventando la sua funzione che peraltro non mi pare sia stata raccolta da nessuno in seguito.

Ho letto nel “coccodrillo” in appendice al libro che lui si definisce come un pittore che scriveva per hobby, aveva una visione del mondo che era totalmente contro la massificazione umana e vedeva l’uomo moderno come un candidato all’inferno, e poi una cosa, secondo me, molto interessante dal punto di vista estetico è il suo parteggiare per l’arte impegnativa più che per quella impegnata.

Sì, si tenga conto che era sostanzialmente un isolato all’interno della cultura italiana, anche se era un personaggio importante. Aveva vinto il Premio Strega, però ci mise pochissimo ad abbandonare le giurie dei premi in cui veniva inserito dicendo “non faccio in tempo a leggere tutto” e così se ne andava senza nessun problema e rimpianto, e condizionamento futuro, si potrebbe aggiungere…

Quindi non aveva una consonanza nei confronti dei suoi colleghi. Si vede anche nelle sue storie dove la critica della massificazione e relativo conformismo è assai frequente. In sostanza era un isolato, era uno che vedeva le cose con un occhio completamente diverso da quello dei suoi colleghi letterati, non era assolutamente un impegnato, non era un uomo di sinistra, ecco perché la sua amicizia con Montanelli per esempio.

E che fosse “un pittore che scriveva per hobby” stanno a dimostrarlo i suoi “libri visivi” I miracoli della Val Morel e soprattutto Poema a fumetti criticatissimo da molti e che invece io all’epoca giovane appassionato e critico di fumetti sui quali scrivevo, difesi a spada tratta.

Poi, tra l’altro, è stato all’interno della fucina di Longanesi collaborando anche con Omnibus in pratica esordendo con un romanzo molto particolare…

Si consideri appunto quel suo romanzo d’esordio del 1940, a guerra appena iniziata, Il deserto dei tartari, un romanzo simbolico di attesa e di dovere militare che è irripetibile sotto certi aspetti e che non ha nessun altro confronto con la produzione italiana di allora e di dopo.

E quanto c’è di Longanesiano in Buzzati? È stato un autore catturato dal genio di Longanesi, o comunque è sempre stato un ribelle che stava nel suo deserto?

Da un punto di vista tecnico, perché Longanesi non era tanto un narratore quanto un editore, un tecnico appunto, un facitore di riviste (e case editrici); quindi, sotto questo aspetto non credo ci fosse un rapporto tra loro se non di questo genere.

Sì, forse Longanesi è stato più creatore nei confronti di Brancati, perché Buzzati era già Buzzati.

Scopriva gli autori e li valorizzava, in questo senso.

Sì, in questo, secondo me è stato un grande scopritore, anche perché convinceva l’autore a scrivere il libro che sarebbe stato perfetto per lui e non è una cosa facile.

Però si deve conoscere bene l’ambiente, bisogna conoscere soprattutto la persona che si ha di fronte per tirar fuori il meglio.

Ma perché la critica accademica italiana ha fatto così fatica ad accettare Buzzati come classico del Novecento quando all’estero veniva già letto come uno dei grandi autori europei del Fantastico?

Ma io penso soprattutto per una questione esclusivamente politico-ideologica. Intendo dire che Buzzati non era assolutamente un progressista, anzi era decisamente un conservatore, e questo è un punto. L’altro punto era il suo stile, la sua visione del mondo che, come ho detto, era di tipo immaginativo, di tipo fantastico, cosa che in Italia è abbastanza rara. Ripeto, gli altri autori che ho citato prima sono su questa scia, ma sono totalmente diversi da lui in quanto a idee se non ideologie…

Se Buzzati vivesse oggi in un’Italia che ha perso i suoi miti e le grandi attese, cosa scriverebbe? Sarebbe ancora un profeta dell’attesa oppure un cantore del disincanto?

Io penso un cantore del disincanto e non c’è proprio niente da attendere adesso. Abbiamo una situazione catastrofica sotto questo punto di vista e io penso che Buzzati considerato il tipo che era si sarebbe limitato a indicare alcune soluzioni. Non credo che avrebbero potuto fare altro. Per il resto, come ripeto, che tipo di narrativa, di letteratura italiana abbiamo oggi? Da quello che vedo e leggo, e dalle recensioni che vengono pubblicate, mi sembra che non ci sia molto da aspettarsi. Il panorama è deprimente. Ovviamente ci sono i romanzi più venduti di altri, ma quanti di questi rimarranno in futuro?

Il futuro era ieri?

Sì, è probabilmente così. Giunto ormai alla mia non veneranda età, come spesso dico, sono disincantato, disilluso di questa situazione.

Non si parla più del futuro, perché, secondo me, è subentrato un nuovo sentimento, inedito. C’è la vergogna per il futuro. Siccome non si riesce ad avere il rispetto che si dovrebbe per il presente, allora si va a debito anche nella vergogna e quindi non parliamo del futuro perché al solo pensarlo c’è da vergognarsi.

Quali sono i grandi autori di oggi? Contemporanei, viventi. Chi c’è? C’è stato fino a poco tempo fa, ma per le sue particolarissime caratteristiche, Camilleri. Ma Camilleri è un autore sui generis. Perché ha venduto tanto, perché ha avuto successo con quel suo personaggio, che, se non lo avesse inventato non avrebbe avuto. Non credo lo si possa definire un grande scrittore… al massimo uno scrittore popolare.

Non è Pirandello…

Magari scandalizzerò qualcuno per quanto ho detto, ma io credo che sia così. In Italia bisogna guardare a questo, effettivamente la situazione non è rosea.

Tornando a Buzzati visto che la sua intervista è stata pubblicata anni dopo, che impressione le ha fatto quando l’ha incontrato?

A parte che è una cosa che risale a 60 anni fa se non più, all’inizio degli anni 70, quindi consideri quanto tempo fa. A me l’impressione che ha dato è quella che ho descritto. Entrare in casa sua, con tutte le sue opere d’arte appese, con le domande che io gli feci sul Sessantotto e su cose di questo genere… Non posso che confermare quello che ho scritto, è passato tanto tempo.

Ne emerge un personaggio anche di grande umiltà.

Dopo tanto tempo, posso aggiungere ora, come si dice a Roma, “c’era o ci faceva”, era effettivamente così o faceva finta di esserlo per confermate la sua immagine. Questo non è fondamentale naturalmente, però si consideri che io l’ho intervistato e sono andato da lui sette mesi prima della morte in ospedale.

Quando stava probabilmente scrivendo il libro di cui parlavate, cos’erano Le notti difficili?

Può anche essere.

Quello del Babau dove si piange un po’ la fine della fantasia.

Giustamente non bisogna nemmeno dimenticare che era lui un singolare illustratore, un singolare pittore. Con questa sua tendenza un po’ naif si potrebbe dire, ma che però aveva un contrappunto con la sua fantasia, con quello che scriveva, con la sua visione del mondo fantasiosa.

Tra l’altro lui spiegava, come è ben descritto nel libro, il fatto che si considerava prima pittore e poi per hobby aveva fatto lo scrittore, ma in realtà avrebbe voluto continuare a fare il pittore perché diceva che nella narrativa a 55 anni, uno quello che doveva dire l’ha detto, mentre nella pittura si può essere innovativi anche in tarda età. Il problema è che oggi Buzzati è probabilmente dimenticato.

Ma chi se lo ricorda più Buzzati? Infatti, come le ho detto, non mi sembra che i giornali su cui scriveva si ricordino di lui…

Aggiungo però che questo libro è su Buzzati ma è anche un omaggio, un ricordo di questi due miei amici, Alfredo Cattabiani e Fausto Gianfranceschi, che l’hanno scritto e pubblicato per cui ho cercato di ricostruire tutta questa vicenda culturale ed editoriale dopo tanti anni.

 A parte la biografia è un libro, secondo me, importante perché contiene l’analisi critica degli scritti di Buzzati con la sinossi, un’opera quasi completa.

Il libro di Fausto uscì nel 67, Buzzati è morto cinque anni dopo. Nel libro di Fausto c’è quasi tutto, a parte gli ultimi anni in cui Buzzati non è che abbia fatto tantissimo.

Ancora una domanda su Buzzati come autore dal cuore religioso nascosto. La sua narrativa non è soltanto fantastica, ma potrebbe essere anche una sorta di catechismo del mistero?

Sì, certo, mi sembra una bellissima definizione. Il mondo che ci circonda per Buzzati è “misterioso”, nel senso che si deve andare a scoprire quello che c’è nei suoi risvolti. Lui era religioso, nei suoi racconti c’è una tendenza in questa direzione, non in maniera esplicita, religioso non significa andare solo in chiesa o pregare, ma avere un’interpretazione religiosa, nel senso di spirituale, della realtà, la si potrebbe anche definire. La realtà non è solo la parte materiale, quello che si vede, ma anche quello che c’è dietro: quello che si manifesta con simboli, quello che si manifesta con visioni, non è semplicemente irreale ma concreto. Lui in questo ci credeva e lo descriveva. E’ l’uomo che raccontava storie, come lo definii.

Secondo me c’è questo di longanesiano, un po’ l’essenzialità dell’autore di racconti. Lo stesso Longanesi scriveva poco per non scendere a compromessi con il banale. Penso che Buzzati abbia fatto lo stesso, abbia toccato l’essenziale.

Penso anche io che sia andata così. Ripeto, oggi come oggi, Buzzati è dimenticato, non c‘è uno che lo possa sostituire e la cosa mi demoralizza molto. E per quale motivo è stato dimenticato, nonostante sia così importante? Che devo dire? Oltre ai motivi letterari (tematiche, stile) dovrei tornare a quello che ho detto prima, motivi ideologici. Il motivo di fondo è che se non sei di una certa parte non vieni considerato, ricordato, promosso eccetera, eccetera. E meno male che almeno un Meridiano Mondadori dedicate alle sue Opere scelte è uscito nel 1998!

Eppure, di libri se ne scrivono tanti. Quanti ne abbiamo letti? E spesso mi chiedo se hanno il valore dei cento libri di Monaldo che hanno formato il giovane Leopardi…

E chi lo sa, e questo è un altro mistero.

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