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Domenica è sempre domenica? 2

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Perché al Parente del 2003, quello cioè esordiente sul “Domenicale”, non piace più il Busi di “Nudo di madre” che invece nel 1998 aveva raccomandato a Mughini? Non si tratta solo di girotondi e comparsate televisive: in quell’anno e con quel libro Busi infatti virava in una direzione moderata, dopo le audacie sulla pedofilia al Costanzo show del 10 novembre 1996, argomentate in contemporanea sulla rivista gay “Babilonia”. A ciò contribuirono senz’altro due grane giudiziarie, ossia due querele poi andate a male su due sponde opposte che Busi nel dicembre 1997 intentò a don Zega, direttore di “Famiglia cristiana” che lo aveva bollato di apologia della pedofilia, e a Luther Blissett che aveva inserito nel pamphlet “Lasciate che i bimbi” il suo articolo babilonese “Scusi, mi dà una caramella?”. Ma ci sono motivi anche non occasionali, a leggere almeno un lungo brano di “Nudo di madre”: “Quando diciamo che l’occhio vuole la sua parte, diciamo anche che la mente vede soprattutto ciò che l’occhio non può rifletterle perché non c’è la cosa o perché c’è un’esagerazione del suo contrario, cioè esattamente ciò che c’è, nient’altro che ciò che c’è, e che per l’insistenza insipida dell’esposizione si finisce per non vedere più. La parabola di corta durata di ogni pornografia è conchiusa fra l’esibire la parte per il tutto per non mostrare altro e vedere tutt’altro ancora dalla parte che viene esibita. È vero che di un grande romanzo ben proporzionato fra il nero e il bianco si legge anche il non-scritto, ma quando l’inchiostro vuole prendersi anche lo spazio bianco della pagina, si finisce col leggere solo fra le righe della propria mente che ha smesso di leggere ciò che ha davanti e che prende a divagare. […] A forza di vagine e di falli alti e grandi tre metri per sei, finisci per astrarti dalle immagini proposte e immagini solo relazioni platoniche fra i protagonisti, agnizioni fra senza famiglia, problemi di defecazione e minzione nei vagoni stipati di ebrei diretti al lager, il cordoglio del primo Ministro se scoprisse che sua moglie fa particine part time col superdotato Rocco Siffredi, l’infanzia devastata dell’ungherese stellina filante sperma. Ti giri il tuo proprio film guardando, senza più vederlo, quello propinatoti dal cineoperatore”, p. 50.

Tutt’altra musica con Parente, che dall’inizio sul “Domenicale” del 13 settembre 2003 dimostra di avere le idee chiare, almeno contro il movimento gay: “Nella società globale l’immaginario sessuale è sempre più frammentato in una miriade di sottoimmaginari costruiti ad personam, basta farsi una navigata soft o hard su Internet e, con buona pace di Sigmund Freud, tutto è fetish. Un alluce è un alluce e non più simbolo fallico di alcunché, e sulla più erotica morfologia di un alluce femminile o maschile si tengono silenti seminari, ognuno ne ha uno suo, ogni forma è una sessualità distinta. Eppure c’è ancora chi ci tiene a tener su un gagliardetto d’antan, questione d’identità e vittimismo di genere […]. C’è solo un razzismo peggiore del razzismo, il razzismo alla rovescia dei discriminati”, nella fattispecie “il feticismo gay dello scrittore gay che legge tutto gay con occhiali dalle lenti gay, color rosa fumé” (e l’apologia del fetish di poche righe prima?!).

Ma è in un’articolessa del 17 aprile 2004 dedicata al porno che emerge a tutto tondo il Parente-Pornopensiero: “I veri film erotici sono quelli pornografici, mentre i cosiddetti erotici sono porno mancati. L’immaginazione di uno spettatore di un film porno, poiché onanistica, diventa intrinsecamente erotica: il porno induce a pensare l’osceno, che per l’appunto anche etimologicamente resta ‘fuori dalla scena’. Viceversa ogni film erotico riuscito rappresenta un film porno mancato, onanismo abortito. Non si scappa: il porno o è dentro, in chi guarda l’erotismo, o è fuori, in chi guarda la pornografia. […]. Mentre l’erotismo di chi parla di erotismo sta ancora lì, come ciliegina di una torta che non c’è più, la pornografia, e non l’ha capito neppure Rocco Siffredi, si è superata da sola, esplodendo nell’inconscio, grazie a Internet, l’infinitamente piccolo nell’infinitamente grande. Chi sta ancora a sottilizzare non si rende conto che tutto è pornografico, basta pensarlo tale. Le identità reali della Rete sono molteplici, e in continua trasformazione e fusione. È sufficiente avere un’ossessione, collegarsi alla Rete, e trovare mille altri simili, collezioni di immagini come tasselli di interi immaginari in mutazione. Un alluce di donna smaltato di rosso è ‘vietato ai minori’ se si entra in un sito feet fetish, ovviamente se il minore si presuppone feticista, altrimenti cosa mai vedrebbe se non un catalogo per podologi pedanti? Tuttavia un feticista degli alluci spesso non ha niente in comune con un feticista delle piante dei piedi, dei talloni, dei collant, o addirittura di un gesto, come il dangling. Ciascuno, con la sua ossessione specifica, sta alle altrui ossessioni come un eterosessuale a un omosessuale, le sfumature delimitano barricate insormontabili, ecco la rivoluzione […]. Ogni categoria si ibrida con le altre e ne genera di nuove, generando nuovi generi, nuovi pungoli, nuove tassonomie dello strettamente personale, nuovi linguaggi. Ma perfino l’immaginario già esistente cambia alla velocità della luce, non è più lo stesso anche quando assomiglia al vecchio. Una mano di donna che masturba un uomo, si chiama handjob fetish. Poco conta che la masturbazione fosse già inclusa nel discorso porno tradizionale, perché qui, circoscritta, separata dal resto, si fa altro, rituale autonomo, sessualità distinta. Compartimenti stagni che non ristagnano, in perpetua mutazione genetica. Non appena individuata, l’ossessione, cessa di essere quello che era, si fa genere a se stante, si fa handjob o feetjob o altro, con preferences e variazioni annesse e connesse. Ossia nuove identità […]. La globalizzazione informatica ha globalizzato la sessualità, e non omologandola, ma dando a ciascuno secondo il suo bisogno, trasferendo ogni periferia immaginativa nel suo centro specifico, dilatando i pensieri dall’interno. E i bisogni della psiche, poiché individuali, superindividuali, sono diventati infiniti. Si è trascinati indietro, alla prima immagine. Freud è morto, con lui il castello di carte del simbolismo fallico […]. Nella Rete di siti gratuiti, daily updated con decine di mpeg e immagini suddivisi per categorie, ce ne sono a migliaia. Un mpeg può anche essere un file video di soli dieci secondi che, mandato in esecuzione continuata su Windows Media Player, riproduce il medesimo segmento a ciclo continuo. Se nel porno, evaporata la storia, contava l’interezza di una scena, qui, nel frammento, conta sia ciò che si vede sia ciò che, non vedendosi, è immaginabile in quanto feticcio invisibile. La storia che non c’è, immaginata, e una sequenza ripetuta ad libitum. Con buona pace di Umberto Eco. E anche di Baudrillard. Il reale è un simulacro del virtuale […]. Dietro il sesso c’è l’ipersessuale immaginifico del non sesso. L’oscenità del dettaglio. La ricerca fatale di un invisibile più evidente. Nessuna immagine sarà più la stessa. E nessuna immagine sarà quella ultima, fatale”[1].

Daje dunque. 2 ottobre 2004, a proposito di un libro-inchiesta: “Hanno fatto tutti l’outing, oggigiorno, gay, lesbiche, trav, trans, transgender, bisex, persino gli etero con ogni feticismo immaginabile dell’immaginario cessando di essere etero e diventando maniaci degli alluci o slave o bondager […], signorine che comprano ditali a vite o gibbosi, anelli Multispeed ritardanti per lui e stimolanti per lei, i Rotating clit stimulation o i vibratori Bionic Blaster da centotrentacinque euro, realizzati ‘con un materiale che ha la stessa consistenza della pelle umana dei genitali, creato per altro uso dagli americani, al fine di essere mandato nello spazio’ (e c’è ancora chi non crede all’utilità intrinseca della ricerca spaziale?); dove vagolano, gli uomini-zerbino e le donne-calpestatrici, o queste fanciulle insaziabili che quando escono vanno in giro con le palline cinesi vaginali inserite, azionandole con il telecomando per farsele vibrare dentro.Avremmo voluto sapere, giusto per curiosità, chi sono, cosa fanno durante il giorno, per incontrarli e parlare del più e del meno, senza entusiasmi e senza moralismi e con molta curiosità e ammirazione per ogni orizzonte di solitudine individuale, incluso il nostro. Avremmo pensato che il mondo è bello perché è vario, e tanto più è vario quanto più è moderno, ecco perché il Nord è più porno del Sud. E invece no. […] chissà perché se una donna viene clitoridectomizzata in Africa, stando ai nuovi dettami del relativismo culturale, alla fin fine è cultura, mentre se si diverte in Occidente con le sue palline, è alienata. L’Occidente, va da sé, è ‘alienazione’, una parola di cui si sono stufati persino i marxisti francofortesi più incalliti e adornati d’Adorno”.

L’1 ottobre 2005 apologia di Toni Bentley, del cui “splendido libro ‘The Surrender’ (Fazi)” Parente dà prova citando: “l’inculata è il gesto antiromantico per eccellenza, a meno che, come me, la vostra idea di idillio non cominci in ginocchio, con il viso affondato in un cuscino”, e : “l’inculata riallinea i piatti della bilancia tra una donna che ha troppo potere e un uomo che ne ha troppo poco”; “la liquidazione del sesso anonimo è un terribile fraintendimento che si basa sul mondo postfreudiano, in cui l’individualità e la libera espressione di sé sono assurte a indegne altezze di considerazione, che si fanno gravare addosso il pesante fardello di essere noi stessi continuamente”. La Bentley, “venendo dalla terra di dietro, si fa anticoncezionale quanto uno scrittore vero: se uno scrittore scrive col davanti, una grande scrittrice scrive sempre col dietro, essendo, il davanti dell’uomo e il didietro delle donne, gli unici luoghi fisico-semantici con cui la mente può avanzare davanti retrocedendo verso il baratro del nulla. Una scrittrice che scriva col davanti, a differenza di uno scrittore il cui davanti non porta a niente ed è dispersivo sia a priori che a posteriori, finisce sempre per farsi custode di una prole, mai di un’opera, tantomeno materia psichica sufficiente a sentire il proprio vuoto pneumatico come un vuoto a perdere, e da lì drenarne fuori un’estetica, una lingua della carne attraversata”[2].

Finalmente, il 20 marzo 2006 Parente trova il teorico di cui aveva bisogno, tal Matteo Giovanni Brega raccomandato da Stefano Zecchi e già alle prime prove sul “Domenicale”: “Se volete riflettere sul rapporto tra arte e cultura di massa, se volete comprendere cosa c’entrino il multimediale e la civiltà informatica con il Surrealismo, o come l’arte si sia trasformata in arte di massa; se volete districare una matassa teorica complicata, se volete farlo senza incappare nelle solite zuppette marxiste e francofortesi, o trovarvi di nuovo scodellata la minestrina sulla ‘società dello spettacolo’ di Guy Debord, o non sentirvi ancora qualcuno che parlando d’arte contemporanea vi rifili la sua morale sul bello o sul brutto, o su ciò che è bene e ciò che è male, allora dovete andare a cercare ‘Lo specchio attraversato’ (Franco Angeli, 2005) densissimo libro di Matteo Brega. Matteo Brega non è soltanto, per chi lo conosce, uno straordinario dandy che affabula e fa ridere sfornando più battute lui in dieci secondi che Woody Allen in dieci film, e che gioca in Borsa e non va a una festa se non sa esattamente chi c’è, dov’è e soprattutto che abito indossare. Matteo Brega è anche un serio studioso dell’arte di massa. Libro interessantissimo, quasi un evento, […] restituisce uno degli studi più importanti sull’arte di massa scritti negli ultimi decenni. Dentro il libro di Brega c’è tutto, tanto i virus quanto gli anticorpi. D’altra parte il tema trattato da Brega coinvolge lo stato dell’immaginario occidentale tout court, ed è centrale più di quanto non appaia anche nel dibattito politico attuale, basti pensare agli attivisti no-global, eredi del materialismo storico seppur orfani dell’impero sovietico, la cui ideologia d’origine resta il più delle volte implicita, sottotraccia. Se non altro il vizio di fondo, l’antioccidentalismo becero, l’antiamericanismo, il disprezzo per il mercato. Eredi, più o meno consci, in ogni caso, della Scuola di Francoforte e di tutti i suoi epigoni, da Guy Debord a Frederik Jameson a Jean Baudrillard, quest’ultimo talmente convinto che l’Occidente, ossia il capitalismo, ossia la società dei simulacri, sia il male assoluto da applaudire all’attacco alle Twin Towers l’11 settembre […]. La caratteristica liberale dell’Occidente è inglobare tutto, assimilare tutto nell’idea delle differenze e pensiero pluralistico, ma i sociologi di scuola marxista hanno sempre visto il potere omologante, plagiante, alienante […]. Brega mette dunque il dito nella piaga: paradossalmente è proprio la civiltà dell’odiato capitalismo ad aver realizzato le ambizioni avanguardistiche verso un’arte e una cultura di massa. L’avvento dell’arte di massa sarà così più il prodotto di un cambiamento di committenza che un progetto di coercizione e omologazione impartito dall’alto. L’avvento stesso della Rete e del multimediale fa saltare l’idea di una standardizzazione dell’immaginario anche perché frammenta all’infinito le richieste del singolo che le immette in un circuito globale. E anche, vorrei aggiungere alla riflessione di Brega, ammesso che non mi sia sfuggito, immettendo nel circuito globale non solo richieste ma anche proposte, andando così a modificare l’immaginario virtuale e quindi anche quello reale, ammesso vi sia differenza. Alla fine perfino sull’arte di massa e sull’immaginario globale, più che la società di controllo e l’omologazione descritte dai marxisti, sembrano aprirsi altre possibilità, e sarà allora utile capire ‘se la percezione si stia avviando verso una de-massificazione per come la si è intesa sinora, conseguente all’impatto di massa del multimediale digitale’ […]. Brega è più che ottimista, perché probabilmente proprio la Rete può ‘rappresentare un’occasione di fuoriuscita dalle dinamiche di imposizione del gusto prospettate dal mercato’. Certo, la Rete moltiplica l’informazione, gli immaginari, le esperienze come mai era accaduto prima. La fruizione si fa simbolica e quantitativamente infinita, e alla fine, o meglio al principio di questa nuova era, è il medium stesso a farsi simbolo, a riflettersi in se stesso e nelle sue infinite possibilità”[3].

In questa prospettiva Parente, deluso da Busi, trova un modello provvisorio in Walter Siti, e più precisamente nel suo “Scuola di nudo” (Einaudi 1994), definito il 5 marzo 2005 “romanzo, va da sé, poiché bello e denso, poco citato tanto dalla critica che dal pubblico (che sono la stessa cosa)”, e il 26 marzo “il romanzo italiano strictement d’autofiction più importante dopo ‘Sodomie in corpo 11’ di Aldo Busi, uscito nel 1987, e a esso imparentato per affinità e densità linguistica, non semplicemente per la dilagante tematica omosessuale e il tormento amoroso”. Ci torna il 5 novembre in una recensione in prima pagina di “Lunar Park” di Bret Easton Ellis: “ciò che fa Ellis, in Francia si chiama auto-fiction (secondo la definizione di Serge Doubrosky fiction d’événements et de faits strictement reéls, anche se oggi con Forest si parla di Romanduje): in Italia si pensi a molti romanzi di Aldo Busi e a ‘Scuola di nudo’ di Walter Siti”; e in termini risolutivi il 29 luglio 2006, a proposito del nuovo romanzo di Siti “Troppi paradisi”: “In Francia la chiamano auto-fiction, in Italia i massimi risultati li ha prodotti Aldo Busi in capolavori come ‘Sodomie in corpo 11’. Siti, al contrario delle anime belle, è l’Occidente stesso al massimo grado, e tale si dichiara senza mezzi termini […]. Ecco il trionfo dell’immagine, la soluzione finale del mondo moderno dentro cui vivere e morire, dentro cui esistere, l’escamotage al materialismo di massa dopo l’invenzione e la fine di dio […]. Ciò che resta da rappresentare sono i corpi come archetipi realizzati, platonismo realizzato in terra e paradossalmente intoccabile. Muscoli perfetti, anabolizzati, illusioni leopardiane traslocate di forza nel postumano, nella perfezione che non c’è se non nella finzione della realtà. Quello che per me è un formoso alluce di donna smaltato di rosso e ipostatizzato nei miliardi di siti Internet con annessi atti erotici postfreudiani, dal crushing al trampling, per Siti sono i corpi gonfiati, levigati, astratti dei culturisti, dove rifugiarsi dopo il fallimento dell’amore e l’attraversamento della società dello spettacolo (o forse, oggi, lo spettacolo della società) […]. Una società a sessualizzazione globale, dove il massimo del materiale coincide con il massimo della smaterializzazione, dove si assottigliano le differenze di genere (anche se potrei obiettare a Siti che il divario è sempre quello delle funzioni simboliche, perché una sega fatta da un uomo e una sega fatta da una donna restano formalmente simili nella struttura della mano ma sostanzialmente divise nella sfera simbolica e dunque universi distinti anche nella sostanza). Fallito l’amore e la sua possibilità di viverlo come assoluto, non resta che comprare il sesso, cercando di comprare, se possibile, anche l’amore”.

Nell’autofiction in effetti Parente trova la categoria sotto cui rubricare la sua stessa produzione. Ma donde la mutua? Dal fidanzato Mario Maccherini, dottorando in francesistica a Pisa che giusto nell’estate 2005 partecipa a un convegno della SESC con una relazione sul tema, e viene presentato nel programma così: “ha 29 anni e vive a Roma. Si è laureato in Letterature Moderne presso l’Università La Sapienza di Roma con una tesi dal titolo ‘La citazione nella Nausée di Jean-Paul Sartre’. Attualmente sta preparando una dissertation sull’écriture du je in alcuni scritti sartriani (carnets, journal ecc.). I suoi interessi principali sono la letteratura francese di fine Ottocento, la letteratura del Novecento e dell’extrême contemporain francese e italiano. A livello teorico invece sono le scritture dell’io (autobiografia, autofiction, romanduje)”.

Dell’autofiction fa parte anche la dedica, quando va a persone intime dell’autore. Così, accanto a Busi, Guerri e Sgarbi, nella dedica di “Mamma” compaiono Mario Maccherini e Silvia Orlandini, che furono i due dedicatari della striminzita opera prima di Parente, “Incantata o no che fosse”, uscita nel gennaio 1998 per i tipi di ES – con prefazione pur essa di Sgarbi: “Più estremo di Miller e di Céline, e anche di Genet e di Copi, Parente ci racconta una storia senza storia, ambientata in uno spazio che non ha confini, né materiali né temporali. Tutto avviene nella coscienza, senza altri riferimenti fisici e descrittivi che non siano gli organi sessuali, terminali di piaceri erotici, non escluse pedofilia e coprofilia. Il titolo stesso, apparentemente poeticissimo, allude alla ‘Montagna incantata’ (o no che fosse) di Thomas Mann. Ed è, in questo libro, letteralmente una montagna di merda. Parente resta leggero, distante, distaccato, diafano. Le descrizioni più crude non sono mai pornografiche e morbose, ma naturali, le più naturali del mondo. Nessun compiacimento. Così che il tono con cui si esprime ogni atto sessuale, ancorché esplicito, è arcadico. Parente stabilisce una condizione psicologica assolutamente pagana, che non conosce neanche l’ombra del peccato […]. In questa dimensione e con questi modelli va intesa la scandalosa e infame opera prima di Massimiliano Parente. Incantato o no che fosse. Auguriamole difficoltà, contrasti, censure, divieti. Facciamolo transitare, prima del ritorno in Arcadia, all’inferno. In un inferno popolato di pesci rossi”.

Per non lasciar conti in sospeso, i pesci rossi compaiono verso la fine: “accendo l’idromassaggio, mi sdraio e comincio a masturbarmi infilandomi tutti i miei pesci rossi nella fica […]. Di solito provo a metterli anche nel buchetto di dietro ma è difficile perché, se non sei ben dilatata, ti si spappolano in mano oppure riesci a introdurli che sono già mezzi finiti e non c’è più nessun gusto. Il bello invece è quando sei piena d’acqua e li senti nuotarti nell’utero, senti che cercano di sgusciare fuori e ti solleticano le labbra e le mucose e tu, contraendo, decidi quando farli morire […] ti sgusciano fuori in continuazione, li riacchiappi, li rinfili, continui a masturbarti mentre altri li prendi in bocca, ti palpitano sulla lingua, godi e sei scossa da spasimi e smanie e ti viene voglia di masticarli, di stritolarli tra i denti, alcuni li risputi a pezzi, altri li succhi, li spompini come dei viscidi cazzetti acquatici”, pp. 83-84.

In realtà spazio e tempo sono ben definiti. La prima persona, l’autore stesso che al momento della stesura ossia nel 1997 ha ventisette anni, viene rimorchiato nella discoteca di una cittadina costiera da Monica, donna sposata senza figli e marito spesso assente, la quale nel mezzo della loro storia compie 40 anni. In casa trova un ragazzino africano, e lei mentre masturba il Nostro dopo avergli proposto un congruo pagamento in denaro ed anzi un contratto a tempo indeterminato, racconta: “l’ho preso da poco, da una settimana. Se ne stava rannicchiato sulla spiaggia, all’una di notte. L’ho svegliato, gli ho fatto vedere i soldi, si è lasciato succhiare. Dopo mi ha seguita come un cagnolino […] non avevo le mutandine, certi giorni mi succede di uscire senza, di dimenticarmene, mi sento leggera, aperta, famelica, carnivora, pronta a farmi fare quando ne ho voglia, mi sento una specie di puttana all’incontrario, una compratrice di sesso. L’ho spinto nel portone e il cuore mi batteva forte”. Mentre prosegue la masturbazione davanti al ragazzino che “ci scruta impassibile con i suoi occhietti incavati. Sul torace e le braccia segni di cicatrici [?] e graffi ancora freschi”, Monica aggiunge: “non mi spiegavo razionalmente perché l’avevo portato qui, l’ho capito la sera stessa quando ha fatto cadere una vecchia tazza che è andata in mille pezzi, niente di che, figurati, solo che mi è scappato di dargli uno schiaffo e in quell’istante mi sono sentita attraversata da una sensazione mai provata, un lampo, una scossa di desiderio che mi ha lasciata senza fiato. Allora l’ho spogliato completamente e gli ho fatto fare tremila cose, lavare i piatti e la biancheria e poi tutto il pavimento a mano, e ho cominciato a picchiarlo quando sbagliava a fare una cosa e alla fine anche quando non sbagliava e ecco, ho capito che mi piaceva, che mi smuoveva qualcosa dentro. Un pomeriggio l’ho chiuso in camera e sono uscita a comprare oggetti che mi venivano in mente eccitandomi, delle corde, un paio di coltelli affilati, un frustino da cavallo”. Qui lei con la mano libera comincia a masturbarsi: “Una sera ero triste e nervosa e annoiata, averlo legato e frustarlo non mi dava nessun piacere, anche se quando inizi non ti fermeresti più, vorresti arrivare a consumare la carne del corpo che frusti fino a farlo sparire del tutto. L’ho infilato nella vasca vuota lasciandogli legate solo le mani dietro la schiena [e i piedi?] e pensavo a cosa potessi fargli, a come potessi farlo entrare nel gioco profondo della mia ossessione, e mentre pensavo mi toccavo, toccavo una smania che dalla fica mi saliva a flussi nel cervello, nulla mi sembrava abbastanza trasgressivo, abbastanza liberatorio. Gli ho passato un coltello affilato lungo il corpo, sotto la gola, dal torace sono scesa fino all’inguine e la mano mi tremava quando sono arrivata sotto le palle, c’è stato un istante in cui sarebbe bastato poco”. La temperatura di entrambi sale, il moto delle mani accelera: “l’ho lasciato nudo nella vasca e mi sono messa a frugare la casa come un’invasata e mi venivano in mente le cose più immonde e ogni pensiero che affiorava mi trascinava in un orgasmo più forte, alla fine in fondo a un cassetto del comodino ho trovato una grossa peretta di gomma, mi sono precipitato in bagno seguendo una pulsione chiara per quanto indefinibile, ho riempito la peretta d’acqua calda, sono entrata nella vasca con lui, mi sono posizionata accovacciandomi sulla sua testa e… insomma… sì… mi sono fatta… sì, come si chiama… un clistere, ecco. Un atto svergognato che assumeva il senso di una trasgressione viscerale, di una liberazione totale. Capisci, mi sono lasciata andare così, mi masturbavo mentre svuotavo ogni inibizione sopra la sua testa, ed ero morta di piacere quando gli ho ordinato di pulirmi, di pulirmi bene il culo con la sua linguetta di negro, e mangia, gli dicevo, mangia tutto il cibo viscerale della tua dea, e poi per dissetarlo gli ho fatto bere il mio sangue, il mio sangue intimo che mi colava tra le cosce”[4]. Le labbra, finora impegnate in un racconto prolisso, si avvicinano al glande, a raccogliere ecc.

E così il Nostro viene assunto, con tanto di mansionario: la accompagna nelle boutique, va a lavarle la BMW, le compra una lista di cosmetici ecc. Nella seconda seduta non partecipa: “Chiama il ragazzino, con un cenno del mento lui si avvicina simile a un automa, lo fa sdraiare sotto di sé, gli ordina di leccarle i piedi, mi dice di guardare, guardare la faccia scura del bambinetto che adesso soffrirà sotto i suoi piedi, guardare come li leccherà bene sotto, dove sono sporchi: ‘I miei piedi, insieme alle gambe e al sedere, sono la parte del mio corpo che amo di più, di cui vado più fiera, che mi piace guardare e farmi guardare. Uso sempre lo smalto di questo colore, ti piace?’ […] ci sono giorni in cui dopo essermeli appena fatti, dopo averli lavati e curati e resi impeccabili, li bagno di saliva, di orina, di sperma, appena posso cammino scalza o con gli stivaloni di cuoio che li fanno sudare e così assumono questo odore osceno, quando un maschio te li lecca deve sentire che è qualcosa di estremamente osceno che gli stai sbattendo in faccia, si deve vedere che sono piedi di donna, piedi borghesi, piedi occidentali, bellissimi piedi di una troia che fa quello che vuole”[5]. “Mi masturba lentamente dicendomi delle notti in cui, dopo la pioggia, si toglie scarpe e collant per seguire l’istinto di schiacciare sulle pietre del viottolo del suo giardino tutte le lumache che trova (‘E mi metto a godere lì, con questa poltiglia sotto le piante e tra le dita, una poltiglia di carne molle, e immagino di aver spiaccicato tanti piccoli cazzi striscianti’)”, p. 34. “Mi racconta del massaggiatore a cui piace scoparla sempre da dietro, mi parla dei suoi piedi in equilibrio sopra uno di questi attrezzi costruiti da lei e dal massaggiatore, io al momento non capisco di cosa stia parlando, tavolette inclinate con molle, pedane artificiali munite di una scanalatura centrale e un doppio anello con cui bloccare le zampe ma lasciare libere le ali, l’inebriante turbinare di piume nell’aria quando è sconvolta dal piacere e comincia a schiacciare forte […]. ‘Una volta era il mio compleanno e lo abbiamo fatto con un cigno’”[6].

La filippina si ammala e lui passa di grado, colf stiraggio compreso (intanto il ragazzino nero è sparito senza giustificazione – dal romanzo, non da casa). Si incuriosiscono l’una dell’altro, lei spara un “’Quindi saresti un finocchio?’” già a p. 23, e disinteressatamente s’informa del suo ragazzo attuale, di com’è a letto ecc. Lui invece comincia a soffrire di gelosia, fa telefonate mute, vuol sapere se col marito fa ancora sesso. Lei prima nega facendo risalire la fine dei rapporti a quattro anni prima, poi sbotta: “Allora se vuoi proprio sapere ieri sera gli ho fatto un pompino, e con questo? Non mi assillare, lui mi lascia libera di fare la mia vita, mi lascia tutti i soldi che voglio, continua a volermi bene e io ne voglio a lui, non facciamo più l’amore da quattro anni ma se di tanto in tanto gli regalo un piccolo piacere perché mi va di regalarglielo non ci trovo assolutamente nulla di scandaloso. Pensa solo che lui paga me per farsi fare un pompino e io, con lo stesso denaro, pago te per potertelo fare”[7].

E così il Nostro comincia a frignare di gelosia, finché Monica a una cena con invitati “si alza di scatto, mi dà uno schiaffo davanti a tutti, mi sputa in faccia, mi dà un altro schiaffo. Dice che non so cosa significa amare una persona, che amare non significa mettere di fronte a delle scelte, trasformare chi si ama in chi si vorrebbe amare. Mi passa il suo tovagliolo, mi dice che mi sta sanguinando un labbro”, p. 56. Dopodiché: “All’una di notte sparecchio, porto tutto in cucina, metto i piatti nella lavastoviglie, metto le sedie sul tavolo e spazzo, apro le finestre per cambiare l’aria satura di fumo. Prima di andarmene vado a darle la buonanotte ma Monica sta parlando al telefono, fa cenno di andarmene”, p. 57.

Per fortuna a tirar su il morale ci sono le storie di lei. La domenica precedente il marito l’aveva portata in uno stabilimento enologico dove aveva visto pigiare il vino coi piedi: “Stamani, quando mi sono fatta i piedi, dopo essermi messa il rosso numero 101 di Gemey, mi sono masturbata pensando di fare il vino, di essere una di quelle pigiatrici infaticabili, ma immaginare di pestare l’uva mi ha stancato subito, era un’immagine debole, che non teneva, allora non so come mi è venuto di pensare ai feti di quelle negre masai che ho visto il mese scorso in Kenya, di metterli tutti dentro e fare il mio vino spremendo sotto le piante e i talloni quei piccoli feti ancora caldi”, p. 23. “C’è una spiaggia spagnola dove sono andata in vacanza più volte insieme a una mia amica le ultime estati, lì puoi fare il bagno con decine e decine di bambini, ci nuoti in mezzo, fai finta di giocarci e quando li tocchi nessuno se ne accorge. Noi andavamo con una nostra missione ideologica, liberare le donne future dal peso della verginità, e ci divertivamo un mondo, bastava un secondo e il dito medio, di sangue ne usciva poco o niente e la temperatura bassa dell’acqua faceva da anestetico, spesso neppure se ne accorgevano e del resto se qualcuna scoppiava a piangere nessuno ci faceva molto caso, in mezzo a tutta quella confusione e schiamazzi”, p. 27. E poi la sega a suo padre che non la lasciava uscire al liceo, la sega al malato terminale in visita alla zia malata…

Monica rilancia: “Oggi vorrei che tu mi leccassi la fica mentre quel negro che vende le collanine te lo mette nel culo. Ho voglia di succhiartelo e di vedere il tuo culo penetrato da un cazzo, vedere come godi da frocio. Sono sicuro che se andiamo a offrirgli dei soldi sarà felice di accontentarci. Io quello lo conosco, si chiama Mustafà, è simpatico, e è bravissimo. La scorsa settimana, con cinquantamila lire, mi ha scopata divinamente per quasi due ore senza mai fermarsi, mi ha sfinita”. Grande masturbatrice e insegnante (non specificato di che) alle medie, ne fa di ogni. E col Nostro? Uscita dal bagno profferisce: “Non mi sono pulita perché desidero che lo faccia tu con la lingua. Quando avrai finito dovresti appoggiare la bocca al mio ano e aspettare, credo riserbi una deliziosa sorpresina per te”. Più seria: “Si allaccia alla vita le fibbie dell’imbracatura, si ammira allo specchio dell’armadio spingendo il bacino in avanti, le viene da ridere, dice ‘Come mi sta?’. Strizza dal tubetto della crema incolore che spalma accuratamente sul grosso fallo di gomma. ‘Voltati, è una settimana che non vedo l’ora di provare’”, p. 62. Più filosofa: “‘A un donna moralmente è concesso tutto purché sia una vera troia, purché abbia classe e non appaia mai volgare. La libertà etica di una donna sta nel potersela elegantemente e esteticamente permettere’”, p. 65. Più ardita: “A volte, quando mi inculi, avrei bisogno di addentare della carne tenera, viva, innocente, vorrei avere a portata di mano delle colombe bianche a cui staccare la testa, dei pisellini infantili a cui staccare la cappella. Promettimi che un giorno mi accontenterai, che esaudirai le mie fantasie più indicibili. Promettimi che mi scoperai mettendomi tra le mani un candore che io possa sgozzare, a cui possa far sgorgare del sangue caldo”, p. 72. Però lui una mattina le porta i cornetti e si ritrova cornuto: profilattico usato per terra, p. 76. E finale obbligato, in sfumare: “Alle quattro del pomeriggio arriva questo suo amico attore di cui mi parla incessantemente da giorni, lo saluta baciandolo sulla bocca, mi manda in cucina a preparare il tè. Ritorno dopo una decina di minuti per portare le tazze. In sala non trovo nessuno. […] Risate provenienti dal fondo del corridoio. Monica riappare sulla porta in vestaglia, leggermente spettinata e affaticata [indovina perché], mi guarda distrattamente, io ho ancora il vassoio in mano. Mi dice di andare a fare non capisco cosa al centro commerciale”, p. 92.

Normalmente la questione dell’autofiction si arena sul dilemma: reale o fittizio? In questo caso possiamo risolverlo. Anche nel caso estremo che sia tutto fittizio, di reale c’è l’ossessione. Nel bazar infinito del porno l’autore si è scelto una porzione ben definita (o viceversa è stato da essa scelto), il cui nucleo è classicamente sadomaso (o masosado, stante che il lato maso è predominante). Il carattere ossessivo-coattivo è dato dal ripetersi del rapporto in un testo e poi nei testi in sequenza. Ciò non toglie che malgrado la monotonia non ci siano variazioni, nel senso di un arricchimento delle scene ossessive, scene-madri in senso stretto anche se non canonico. Esempio lampante ne è il triangolo bislacco del racconto “Le ciliegie” (2001) dove il partner si fa sodomizzare dal rivale, un numero che mancava ancora nei due primi romanzetti e che sarà invece centrale ne “La Macinatrice” (2005). Ma per tornare alla resa estetica, tra un maestro che non lo è più (se mai lo è stato) e uno che non lo è ancora (né mai lo sarà), tra Busi e Siti, sul “Domenicale” spunta e poi dilaga un maestro in atto: Antonio Moresco.

Note

1. Questi articoli non compaiono in “Parente di nessuno” (2006), la raccolta giornalistica di Parente, che li riciclererà invece paro paro in “Contronatura” (2008).

2. “Il Domenicale”, 25 febbraio 2006, più alto: “Proust, in verità, è tragico come Nietzsche, disperato come Leopardi, e più cinico di Houllebecq o di Bret Easton Ellis. Non soltanto anticipando sorprendentemente il feticismo globale e le sue definizioni che oggi troviamo nella rivoluzione sessuale di Internet, quando, per esempio, parlando delle mani grassocce di Albertine le definisce così feticisticamente e morbosamente da rendere il fatto di stringerle un gesto tanto intimo, osceno e onanistico. Ma perfino le fanciulle in fiore, sulle quali tutti i lettori neoplatonici [?] hanno sognato prendendole come archetipi edenici, si sgretolano sotto lo sguardo proustiano, sempre consapevole, crudo e materialista”.

3. L’8 settembre 2007, su “Libero” le deduzioni pratiche: “ho faticato qualche secondo a capire, quando ho letto che Letizia Moratti vuole introdurre il reato di prostituzione ‘ma solo contro chi si prostituisce volontariamente e non per costrizione altrui’. Mi pareva un controsenso, ho pensato ci fosse un refuso, contro chi si prostituisce ‘volontariamente’? Finché non ho capito che puntava al centro della questione, non politico ma fisico e psichico, da una parte e dall´altra, colpire le puttane in quanto puttane e i ‘colti in fallo’ in quanto falli, senza mezzi termini […] deve averla consigliata Stefano Zecchi, il quale dice che ‘il problema non è neanche che si tratti del mestiere più antico del mondo, lo era anche la schiavitù e è stata debellata. Il problema è capire perché ancora nel 2007 ci sono uomini disposti a farsi umiliare da una prostituta che affetta complicità per un po´ di soldi’. Ma sì, Zecchi, debelliamo anche il sesso, già che ci siamo. Il problema è come, nel 2007, ci siano uomini contorti come Stefano Zecchi disposti a credere che se uno va con una puttana ci va per farsi ‘affettare complicità’, non riesco a capacitarmene, e ora mi spiego molte cose, e altre devo spiegarle a Stefano, che magari le riferirà  a Letizia. È inutile girarci intorno. Uno ci va per scopare, Zecchi. Io non ho mai neppure capito come si faccia a avere un´erezione e ‘fare l´amore’ contemporaneamente, facendo affluire il sangue necessario nell´idea dell´amore cui pertiene più un bacio o una carezza o un pensiero gentile, figurati come possa capire che due vadano a letto insieme per scambiarsi complicità , affettata o meno. Si va con una puttana perché non si ha una donna, ci si va perché ce l´abbiamo ma ne vogliamo un´altra più eccitante, ci si va per trasgredire o per farlo strano, […] ci si va, in fin dei conti, perché una puttana è una puttana, e comunque non ho capito cosa ve ne fotte a voi di chi fotte con chi, ci si va perché saranno cazzi nostri. Tra l´altro, se devo essere didattico, poiché non vorrei che Zecchi mi fraintendesse e prendesse lucciole per lanterne, con una puttana uno può avere l´illusione di andare con una troia, che è molto più difficile da concupire perché è più facile pagare una puttana che pagare una troia, la quale troia è tale perché non fa la puttana, sebbene, questo il vantaggio di una troia, puoi chiamarla puttana per farla sentire più troia, mentre chiamare troia una puttana non ha senso semantico. Tuttavia spesso una troia vera costa molto di più di una puttana di professione, pagata per essere una troia finta ma sempre meglio di una non troia che non te la dà. Se abolite le puttane, se pure non andate a puttane, come chiamerete la vostra compagna nei momenti di complicità  non zecchiana, quando il teatro dell´immaginario è sostanziato nell´onomastica stessa delle cose? Potreste chiamarla troia, ma non potendo più chiamare puttana una troia, non potrete chiamarla in nessun modo, fine di ogni letizia. […] Nessuno porrà  mano alla fine dell´ipocrisia della prostituzione che c´è e non c´è, che non può stare né in strada né a casa, se non lui, Silvio, che ogni volta è la mia speranza segreta, il mio rivoluzionario preferito: così come ha portato a Mediaset Platinette, sdoganando il trasgender ben prima che Rifondazione si inventasse Vladimir Luxuria, così come ha finanziato lo Zibaldone di Giacomo Leopardi senza pensarci su due volte, potrebbe stupirmi ancora perfino qui e, superando Letizia e Walter contemporaneamente a destra e a sinistra, piazzarglielo lui un bel disegno di legge al centro, per riaprire le case chiuse, e magari chiamarli ‘I Casini delle Libertà’, lasciando ovviamente il Casini membro del parlamento fuori dalle palle”. 20 settembre 2007, “Libero” su “Sex Revolution” di Mughini: non “c’entra il Sessantotto con questa rivoluzione voyeuristica della cultura, della vita e dell’estetica, con questa esplosione di immagini che inizia molto prima e ancora deve finire e poco ha a che fare con i libretti rossi e i figli dei fiori, piuttosto con il Giappone come avanguardia della morbosità dello sguardo, dove esistono negozi in cui le studentesse, per pagarsi l’università, vendono le proprie mutandine usate, e dove qualcuno simile a noi, ‘fratelli guardoni’ e feticisti fino al midollo, si mette in fila per comprarle. No, il Sessantotto non c’entra, e piuttosto, hai ragione, ‘questi ultimi anni sono stati quelli dell’apocalisse della cultura laica’, e di sicuro come le puttane danno fastidio tanto alla Moratti quanto a Veltroni […]. Volendo trovare un pelo almeno linguisticamente esemplare e pertinente, l’unica cosa che posso rimproverarti non c’entra col Sessantotto, ma con ‘la bocca di una ragazza che si riempie golosamente del pene di lui’. Meglio del ‘membro’ di Melissa ma insomma, Giampiero, se mi consenti, che cazzo”.

4. P. 28. Alle pp. 74-75 l’anamnesi: “La prima volta che mi successe ricordo che ero in un villaggio turistico, avevo diciannove anni, era l’ultima notte di vacanza, non avevo mai sniffato prima di allora e ero sul letto di un ragazzo inglese che mi stava leccando il culo e… mi scappò una… hai capito… insomma dell’aria, e inavvertitamente, presa nel vortice della mia vergogna e umiliazione, non me ne scappa un’altra? Una di quelle piene, sonore, volgari, classiche, in piena regola, solo che in questa seconda c’era qualcosa di diverso, inspiegabilmente ero meno imbarazzata […] allora ho inspirato profondamente e dopo poco ho capito che ormai l’ipotesi pensata era diventata realtà, ho capito che gliene avevo fatta sopra una montagna di merda, incantata o no che fosse”.

5. Pp. 31-33. Il contrappasso a p. 39, quando si fa schiacciare il viso da una prostituta di strada con i piedi somiglianti ai suoi. Torna sui suoi piedi alla fine: “Chiedimi di masturbarti usando questi miei piedi perversi. Sono bravissima, nessuna donna sa farlo meglio di me, nemmeno una puttana”, p. 91. Nel frattempo, si è scoperto che masturbava coi piedi il figlioletto di un’amica cui fa da baby-sitter, p. 34, e idem a una cena di gala con un ambasciatore maschilista intanto che, “seguendo un filo tutto suo difende il nazismo, gli stermini di massa, la supremazia della razza ariana”, p. 60.

6.P. 37 (scarpe di Magli col tacco a punta). A p. 41 il nostro va a comprarle tre porcellini, che lei scanna senza di lui (però lo porta tra le lenzuola dove ha scannato l’ultimo). L’anamnesi a pp. 89-90: a diciott’anni strozzava polli con le cosce in casa degli zii agricoli (prima, tra umani: pastrocchiava col fratello maggiore, p. 79, si fa inculare dal cugino, p. 87).

7. P. 50. Anzi, invece di usare il bancomat si fa dare i contanti dal marito: “mi eccita l’idea che sia lui a darmi le banconote che userò per comprare il tuo cazzo”, p. 40. In realtà le cose furono più complesse: il marito, ingelosito dalle scappatelle della moglie, di notte “mi inumidiva appena di saliva con uno o due dita, mi montava sopra, da dietro, con una forza e una foga da lasciarmi senza fiato, e da quel punto in poi non l’avrei più potuto fermare, pensa che una volta non mi aveva bagnata per niente o quasi e gli dissi che mi faceva male e provai a togliermelo di dosso e lui mi piegò un braccio dietro la schiena fino a farmi urlare e lacrimare ficcandomi il cazzo ancora più dentro con una violenza indescrivibile, e io non credere che non sapessi cosa c’era nel suo cervello, affermava un suo dominio primitivo di maschio pensando di umiliarmi, di sottomettere, di negare il mio sesso e le sue gelosie e frustrazioni scopandomi il culo e tant’è che una delle ultime volte tra i denti l’ho sentito mormorare sei una troia, sei una puttana, questo ho sentito, solo che questo, invece di offendermi, mi ha sempre eccitata”, p. 69.

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