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Dora Šustić anteprima. I cani

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«Capisci, una persona non è più una persona quando è una persona che sta morendo.»

I cani di Dora Šustić, traduzione di Sara Latorre (Bottega Errante, 160 pp., 18 €), è un romanzo che ringhia e accarezza allo stesso tempo. Bastano le prime righe – «Seguo i galgos. Vivo in Andalusia, nei villaggi bianchi. È inverno» – per capire che non siamo di fronte a una semplice storia di formazione, ma a un viaggio fisico e metaforico dentro tutto ciò che morde: lutto, desiderio, memoria.

La narratrice, ventunenne croata e studentessa di cinema a Praga, vive sospesa fra l’Adriatico dell’infanzia, la Praga notturna di club e droghe e la luce abbagliante di Cadice.

Il filo rosso sono i galgos, levrieri da caccia spagnoli brutalizzati: il fotografo Leon ne ha fatto un progetto artistico estremo, carcasse comprese. Le loro ossa sporgenti diventano specchio delle ossessioni dei personaggi: «Fissando le loro costole, sento lui sotto la punta delle dita, lo ritrovo in quelle fessure, nei buchi in cui è scomparso. I galgos senza carne hanno lo sguardo di un martire che si rallegra soltanto al pensiero della fine.»

Šustić scrive in prima persona con un flusso che mescola Virginia Woolf (citata in epigrafe), slang balcanico e spagnolo da strada. Il risultato è un lirismo ruvido, dove la tenerezza arriva filtrata da sangue, sabbia e sudore: «La cellulite non è nient’altro che un accumulo di sentimenti, cristalli di astinenza».

Le protagoniste femminili rivendicano «un appetito sovversivo, insaziabile»: vogliono tutto – sesso, successo, libertà – e se lo prendono. Ma pagano il prezzo di corpi che a volte sembrano «tessuto necrotico» per le aspettative altrui. È un’ode feroce alla fame di vivere delle ventenni di oggi:

«Volevamo mangiare e scopare tutto. Raggiungere la quantità, la grandezza e l’altezza che prima erano riservate soltanto agli uomini etero. Volevamo il sapere, la libertà, il sesso, il lavoro, il successo, l’amore, i soldi, l’attivismo, l’ascetismo, un bel culo e una grande mente; volevamo prendere la vita per il cazzo e succhiarle via tutto. Crepare libere, grasse e prolifiche. Nessuno era più affamato di noi.»

I cani lotta, ulula, ti morde e poi ti lecca le ferite: un esordio che graffia e travolge con la forza di un galgo in corsa.

Dora Šustić (Rijeka, 1991), sceneggiatrice e docente di cinema a Praga, con I cani ha vinto il premio Drago Gervais.

Carlo Tortarolo

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Seguo i galgos. Vivo in Andalusia, nei villaggi bianchi. È inverno. Cammino per le strade contrassegnate con mosaici di piastrelline moresche. Immagino i posti in cui si sono baciati. Seguo le loro ombre mentre i colori dell’orizzonte sfumano sulla spiaggia, delineando una silhouette femminile ben nota. Immagino le persone che erano prima di tutto ciò che sarebbe successo. Immagino com’era lui quando era felice, che aspetto aveva mentre guardava l’Atlantico, come facevano l’amore sulla spiaggia di sabbia profumando di arance e sale. Di chi fosse stata l’idea di lasciare Praga, l’ho dimenticato. Non mi ricordo tutto ciò che mi ha raccontato di lei, ma più scendo a sud, più i ricordi zampillano e le sue frasi diventano compagne di viaggio. Cerco di sottrarmi all’ossessione, di questo si tratta. Ma lui è con me in questo viaggio. Lui è sempre qui. La mia vicina mi aveva detto di lasciarlo a casa come quel vestito preferito che non vuoi portarti dietro per paura di perderlo, ma io l’ho portato apposta. L’ho messo nella borsa insieme al diario e al libro Džamiljina ljubav e l’ho portato dappertutto, in aerei, treni, autobus, bagni pubblici, caffetterie, bettole, hotel, strade, letti. Detestavo tutti quelli che mi dicevano che il tempo guarisce, stupida banalità che hanno letto su Internet – come fa il tempo a guarire le ferite che esso stesso ha inferto? Tempo scorretto, timing sbagliato, storia mancata, fotografia inesistente. Il tempo non guarisce niente, il tempo non fa che complicare tutto. Se quella mattina quando se n’è andato avessi detto qualcosa, qualsiasi cosa, se mi fossi aperta, se fossi scoppiata a piangere, se avessi provato a convincerlo a restare, se fossi stata sincera, meno imbarazzata, meno giovane, forse l’avrei tenuto vicino a me, forse ci saremmo seduti e avremmo fatto colazione come una coppia vera e propria, saremmo scesi al bar sotto al suo palazzo per una torta e un caffè come ogni lunedì, magari sarei andata a lezione, mentre lui avrebbe fatto qualche scatto, poi la sera ci saremmo ricongiunti ancora nel suo appartamento, forse avremmo ripetuto tutto anche il giorno dopo, e quello dopo ancora, e la settimana successiva, forse vivrei ancora allo stesso ritmo, ripetendo i giorni che non erano senza senso come invece tutti i giorni dopo la sua partenza. Magari le mie parole gli avrebbero dimostrato che nella vita esiste qualcosa di più che rotolarsi nel fango dell’autocommiserazione, del desiderio, del rimorso e del senso di colpa, che la vita non è una nuotata nella merda senza nessuno scopo, ma una vogata nel blu dell’oceano, perlomeno a volte, quando la si vive in due; che le mattine sono più facili e i risvegli più teneri nel calore creato da due corpi accoccolati, perché così uno si riscalda la giornata; forse avremmo imparato l’uno dall’altra, io avrei adattato a lui la mia giovinezza, l’avrei fatto davvero, avrei imparato la pazienza, e magari alla fine, mentre fumavamo una sigaretta davanti al terminal delle partenze, sarei stata in grado di dire quello che voleva sentire. Forse per lui non sono stata l’ultima.

Forse quello è stato il suo modo di dire addio al mondo, scopare fino alla morte. Magari era un pazzo sadico che voleva contagiare quante più sceme ingenue possibile con il suo sperma triste e in questo modo non andarsene mai, magari lo era stato per tutto il tempo, magari era solo un altro di quei machisti egoisti che camminano sulla terra come dèi dal cazzo grosso.

Ma dei morti solo il meglio, che sia così e basta.

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