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Edoardo Nesi. Il suo nuovo romanzo “La mia ombra è tua”

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Da oggi in tutte le librerie il nuovo romanzo di Edoardo Nesi, già Premio Strega nel 2010 con Storia della mia gente e traduttore italiano di Infinite Jest di David Foster Wallace. Ma sintetizzare la sua opera letteraria in poche righe è un affronto perché Nesi è stato capace, con i suoi libri, di raccontare in un unico grande progetto narrativo la nostra storia di Italia, quella che un tempo era relegata e rilegata nella Storia d’Italia Einaudi che, negli anni ’70, era un pochino come “Report” della Gabbanelli: li compravi, li “vedevi” e la tua coscienza era a posto per qualche settimana. Edoardo Nesi, anche in questo suo ultimo romanzo La mia ombra è tua (nelle librerie da oggi per La Nave di Teseo, pagg. 264, euro 18) compie un piccolo grande miracolo: riesce a raccontare un’istantanea dell’anima destinata a non svanire come le vecchie Polaroid quando soffiavi e per “magia” appariva la foto. L’abilità di Nesi è di mostrarci quella stessa “magia” prima che l’immagine compaia: vederla sta a noi lettori. Sia chiaro non è un romanzo ermetico, tutt’altro, ma un atto di amore per la letteratura, un gesto d’amore per la vita, ricordi di un passato che è remoto soltanto per chi lo dimentica. Un romanzo che vede protagonisti Emiliano De Vito, neo laureato in Lettere antiche e Vittorio Vezzosi, lo scrittore che ha pubblicato un unico romanzo nel 1995 e da quel momento si è ritirato in una magione di ricordi di cui circondarsi per esibirli. Un rapporto tra i due che sarà un incontro-scontro tra due generazioni diverse: quelle di Vezzosi (nomen omen), una sorta di Gambardella de La Grande Bellezza, con tic del Jack Nicholson di Qualcosa è cambiato e dal Sean Connery di Scoprendo Forrester e quindi manie alla Salinger format(o) italiano. Dall’altra Emiliano De Vito che vive accerchiato dalla instagramattica della vita in una esistenza dove non occorre neanche soffiare sul negativo per vedere il volto di un’Italia, non solo culturale, che si affida a Wikipedia come un tempo i nostri genitori si affidavano alla Treccani o all’Oxford Dictionary. La bellezza del romanzo, oltre ad una scrittura (im)mediata  è anche una prosa che rimane “impressa”. Non amo descrivere le trame, le trovo sminuenti per un critico e per i lettori, almeno quando ci si trova davanti a un romanzo come questo che è anche una satira sociale e culturale degna di un Ennio Flaiano e di un Leo Longanesi. Con una marcia in più grazie alla (auto)ironia di Nesi: capace di spaziare, senza farle pesare, dalle poesie di Catullo ai versi di Jim Morrison, da Lorenzo Viani (grande artista toscano, anarchico, e autori di racconti potenti e purtroppo dimenticati dalla grande editoria) al Malcom Lowrly di Sotto il vulcano, da Epitteto a Ernest Hemingway.

La mia ombra è tua è anche il ritratto perfetto dell’autorefenzialità di certi scrittori italiani. E allora è divertente anche immaginare – tra la carrellata da abile regista narrativo di Nesi– figuranti “vintage” della nostra narrativa. A partire dallo “scrittore da un libro” che ricorda Andrea De Carlo. Ma questa è l’idea di chi scrive.                         

Per dire che tutti i protagonisti del romanzo fanno parte di un “IndovinaChi” che non svilisce la trama, anzi: perché Edoardo Nesi ha l’eleganza e la signorilità di non svelare la vera identità di un mondo editoriale che ancora pensa che gli allegati culturali dei grandi “giornaloni” li legga ancora qualcuno, oltre agli addetti ai “favori”. 

Ringraziamo Edoardo Nesi e la casa editrice La Nave di Teseo per aver scelto Satisfiction per un’anteprima di un romanzo che è la migliore cartina tornasole di un’Italia dove il problema è serio ma non è mai grave…

Gian Paolo Serino

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L’ultimo grande motore americano a carburatori

 

Il Vezzosi scostò dagli occhi una lunga ciocca brizzolata, si aggiustò sul naso gli occhiali da vista, tirò fuori dalla tasca un tubetto di plastica trasparente col marchio Kodak in rilievo, ne sollevò il tappo con grande attenzione e versò un mucchietto di cocaina sulla custodia di un cd che poco prima mi aveva chiesto di tenere perfettamente orizzontale.

– Dimmi se non sa di radicchio di campo…

Mentre il cuore accelerava, portai al naso l’astuccio e sentii un odore pungente che non avevo mai sentito prima, e in effetti pareva una mistura tra la vernice e, forse, l’erba appena tagliata.

Annuii e feci per rendergli l’astuccio, ma il Vezzosi si frugò nel giubbotto, tirò fuori il portafogli, ne estrasse una carta di credito grigia – Diners, c’era scritto in blu – e disse:

– Tienilo fermo.

Iniziò ad attaccare la cocaina con rapidi colpi sapienti col taglio della carta, e in pochi attimi ne frantumò ogni minimo addensamento, tramutandola in uno stretto rettangolo di polvere candida e brillante che affettò in quattro righe uguali.

– Forza, Zapata…

Avevo dormito poco e male, dopo aver passato un mucchio di tempo a leggere le centinaia di commenti dei miei nuovi follower, tra i quali c’erano rapper maggiori e minori, dee-jay, modelle, calciatori, influencer, attrici e attori, opinionisti, conduttori televisivi e politici di ogni schieramento, molti dei quali mi avevano anche inviato dei messaggi privati chiedendo pass all-areas per l’evento, e appena arrivato a casa sua l’avevo trovato in piedi accanto alla macchina col motore acceso, tutto agitato, e non avevo neanche avuto il tempo di aprir bocca che eravamo già partiti a rotta di collo giùper la mulattiera.

Dopo pochi chilometri s’era voluto fermare davanti a un grande bar appena aperto in un magazzinoindustriale riconvertito perché c’era da fare la colazione dei campioni, e aveva tirato fuori la cocaina e mi aveva chiesto se sapeva di radicchio di campo. Due carabinieri si attardavano all’uscita del bar, impedendo la chiusura delle porte automatiche che continuavano invano a scattare avanti e indietro. Ragionavano di calcio con un avventore.

Della Fiorentina, mi pareva. D’improvviso si voltarono a guardarci, e vennero dritti verso di noi.

Uno avrà avuto cinquant’anni, mentre l’altro era giovane, più o meno della mia età.

Il Vezzosi mi porse una banconota arrotolata.

– Veloce, dài…

Erano ormai a due passi quando mi chinai verso la custodia del cd che tenevo in mano e dissi sottovoce:

– Che il Signore mi perdoni e mi protegga, me e la mia vita debole e sconsiderata.

Che il Signore illumini la mia strada e vegli su di me sempre, anche ora, mentre mi sforzo di rovinarla per renderla degna d’essere vissuta…

– Amen, – rispose il Vezzosi, e io misi la banconota all’inizio della riga e tirai su col naso, forte, come avevo visto fare nei film, e subito sentii che la droga mi arrivava fino in gola e bruciava, dovetti strizzare gli occhi. Non so come feci a resistere all’impulso di mettermi a scuotere la testa come i cavalli.

Il Vezzosi sorrise, tirò giù il finestrino con due rapidi giri di manovella, e disse ai carabinieri:

– Bella, vero?

Il più vecchio dei due aveva infilato la testa corvina fin quasi dentro l’abitacolo senza degnarmi d’uno sguardo, mentre fremevo immobile e il cuore mi picchiava nelle tempie dalla paura, e con la mano destra mi sforzavo di tenere in grembo la custodia del cd senza inclinarla e con la sinistra cercavo di coprire la droga che c’era rimasta sopra.

– Ma è a benzina? – chiese con un accento del Nord, forse lombardo.

Il Vezzosi accese il motore e dette una sgassata. Si

sentì un ruggito, e la macchina sobbalzò sulle sospensioni.

– Lei che dice?

– Te l’ho detto, – disse il carabiniere del Nord all’altro. –

È la CJ-7. Il Golden Eagle. Otto cilindri a V, 5000 di cilindrata.

Tre marce. Una macchina leggendaria. Cos’è, dell’82?

– ’79. E questa veramente ha il 6600.

-Il 401? Davvero? Il mitico 401?

L’ultimo grande motore americano a carburatori?

Il Vezzosi sorrise compiaciuto.

– Proprio lui. Vedo che ne capisce…

Il carabiniere ricambiò il sorriso.

– Son le leggende dei nostri tempi, no?

– La vuole provare?

Colto di sorpresa, il carabiniere si lasciò scappare uno sguardi veloce verso il collega più giovane, come se dovesse

esser lui ad autorizzarlo, poi scosse la testa:

– Grazie, ma non posso. Sono in servizio.

Il Vezzosi sgassò ancora, e quando il motore tornò al gorgoglio grasso e antico del minimo mi parve di sentire la benzina correre lungo i tubi per riempire gli otto cilindri insieme all’aria, incendiarsi e subito diventare gas velenoso che fuggiva via libero dallo scappamento e si diffondeva intorno a noi che lo accoglievamo serenamente nei nostri polmoni.

Negli ultimi momenti le cose erano un po’ cambiate.

Le percezioni, cioè. La paura se n’era andata e mi era nata dentro una specie di lenta, calda, innocente allegria, e ormai sorridevo esilarato alla scoperta di come nei pochi, magici centimetri del crocevia tra naso, gola e cervello iniziasse a diffondersi un senso d’amaro primigenio e di freddo che mai avevo sentito prima e che però mi garbava molto.

– Su, faccia almeno un giretto nel piazzale…

Sì, perché davanti al bar-magazzino c’era un piazzale così grande da meritarsi una toponomastica – gli avevano dato il nome di una vittima di mafia tra le meno note –, e un tempo serviva ai camion per caricare e scaricare merce delle quattro aziende artigiane che vi si affacciavano, ora tutte chiuse sbarrate.

Il carabiniere del Nord esitava, ma il Vezzosi scese dalla Jeep per lasciargli il posto di guida e io rimasi in macchina inorridito, la custodia del cd con la droga in mano, a guardare quel carabiniere di cinquant’anni che, incredibilmente, porgeva il cappello al collega, saliva in automobile, si aggiustava sedile e specchietto, dava un colpetto di gas, sorrideva compiaciuto, ingranava la prima e partiva a tavoletta in un rombo assordante.

Il cofano della macchina si alzò come se la Jeep stesse per impennarsi, e intanto lui continuava a dire Cazzo, cazzo, e in un attimo arrivammo in fondo al piazzale e ci fermammo a pochi centimetri dal bandone arrugginito d’una delle aziende chiuse sbarrate. CITARELLA EDILIZIA c’era scritto.

Non riuscivo a trovare il coraggio di guardare cos’era successo alla custodia del cd.

Il carabiniere inserì la retromarcia e voltò la Jeep per tornare indietro, sgassò di nuovo e ripartì piu’ forte di prima, se possibile, e stavolta giurerei che le ruote davanti si fossero alzate da terra davvero, e in un attimo fummo di nuovo di fronte al Vezzosi e al carabiniere giovane che si guardava ntorno nervoso perché non c’era uno dei clienti del bar che non fosse uscito a guardare quello spettacolo.

Il carabiniere del Nord scese dall’automobile, si fece restituire il cappello, se lo rimise in testa. Poi chiese al Vezzosi, a voce alta:

– La modifica è sul libretto, vero?

– Certo. Lo vuol vedere?

Sorrise.

– Non importa. Mi fido. Può andare.

Gli strizzò l’occhio e, mentre si stringevano la mano, il carabiniere sussurrò:

– Grazie di cuore, Vezzosi. Madonna, per un minuto mi ha fatto tornare ragazzo…

Il Vezzosi sorrise, risalì sulla Jeep e li salutò con un cenno della mano, si voltò a guardarmi che ancora tenevo la mano rattrappita a coprire la custodia del cd su cui forse c’era e forse non  c’era più la droga, e scoppiò a ridere. Io allora mi indispettii e gli feci:

– C’è poco da ridere, sa? E dopo colazione bisogna prendere le pasticche per la pressione e la cardioaspirina…

La risata diventò un ruggito.

– E poi lo sa quanto inquina una macchina così?

E lui, le lacrime agli occhi da quanto si scompisciava:

– Ma vaffanculo, Zapata, va’…

Inserì la prima e partì, e poi accelerò, e il rombo dell’ultimo grande motore americano a carburatori crebbe e si ingigantì fino a riempire il piazzale, la strada e il mondo intero.

 

Edoardo Nesi

 

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