Morire in un incidente d’auto con il proprio editore alla guida e le prime pagine del nuovo manoscritto in grembo, quale scherzo più infame potrebbe giocare il destino a uno scrittore tanto ambizioso quanto Camus?
Elena Rui parte esattamente da qui: il banale rettilineo circondato da file di platani tutti uguali dove, il 4 gennaio del 1960, la Facel Vega FV3B dell’editore francese Michel Gallimard si spezzò in due, ponendo fine alle vite di entrambi. Destino infelice e macabramente ironico schiantarsi a tutta velocità zigzagando come una trottola per un autore che ha sempre considerato come morte “riuscita”, un rituale che implicasse lentezza e consapevolezza, eppure successe.
Quel giorno di inizio anno il mondo della letteratura novecentesca perse un tassello importante del proprio prestigio, un’esistenza “minacciata da sempre dalla tubercolosi e messa più volte in pericolo in gioventù nella Resistenza” si interruppe di colpo per colpa di un banale guasto meccanico. Uno moto tellurico incolmabile che ha destabilizzato il mondo culturale, riverberandosi nelle vite di chi gli è stato accanto per anni all’ombra dei riflettori: non una, bensì quattro donne, in primis, che con il controverso scrittore hanno condiviso sentimenti, gioie e, ahimè, fin troppi rancori.
Con Vedove di Camus, Elena Rui compie un’operazione letteraria di rara e complessa intelligenza critica, situandosi in quella zona di confine dove la ricerca documentaria si fa creazione, trasmutando la mera biografia in un’indagine fenomenologica dell’esistenza.
Il romanzo, diviso in quattro macro sezioni narrate in terza persona, si sviluppa come un polittico in cui si ricostruiscono frammenti del lutto partendo dalla moglie Francine Faure, passando per la leggendaria Maria Casarès, l’attrice Catherine Sellers e la giovane danese Mette Ivers. Tuttavia, è Francine “la moglie” e “vedova ufficiale” a occupare il centro narrativo più profondo e stratificato dell’opera.
Il suo sguardo percorre tutto il tragitto dell’addio: dalla scoperta della tragedia, al funerale intimo a Lourmarin, dall’amministrazione dell’eredità simbolica e letteraria, alla lenta sedimentazione di un dolore non solo privato, ma anche culturale. Rui riesce nell’impresa più difficile: sottrarre un personaggio storico alla sua funzione meramente accessoria, per restituirgli una complessità soggettiva autonoma.
La moglie di Camus non è più soltanto “la donna di”, ma diventa il centro focale di un’esperienza esistenziale che trascende la contingenza biografica per toccare questioni universali: il rapporto con la creatività altrui (sarà infatti proprio lei la prima a cercare di decifrare le pagine del manoscritto incompiuto), la costruzione dell’identità femminile in contesti patriarcali, la gestione privata del lutto pubblico, il difficile rapporto con la figlia.
«Catherine le ha chiesto di liberare Pamina, come faceva con suo padre. Come competere con un marito che si divertiva a far scorrazzare un’asina per il villaggio? Impossibile essere all’altezza ora che l’unico genitore è lei. Francine scende ad aprire la stalla, sforzandosi di mostrarsi divertita. Non sa se deve lasciare la figlia incamminarsi dietro all’animale o accompagnarla. Di certo incontrerà gli sguardi solidali e le parole piene di cordoglio che l’accolgono da settimane. Sono gesti che la ripagano della lunga esclusione dalla vita di Albert, ma non si sente sempre pronta ad affrontarli.»
Nello spostamento del punto di vista su chi è rimasto, Rui compie una coraggiosa operazione di decostruzione del mito Camus. Non per ridimensionarne la statura, ma per umanizzarla.
Il Camus che emerge da queste pagine non è solo il premio Nobel, l’autore de Lo straniero e de La peste, ma è anche e soprattutto l’uomo irrisolto, sfuggente, egocentrico e ferito, incapace di amare senza ferire. I suoi tradimenti, le sue assenze, le sue fragilità fisiche e psichiche sono tratteggiati senza compiacimento né indulgenza.
Nel passaggio da capitoli introspettivi a frangenti più ritmati, quasi da fiction televisiva, come le indagini che investono la figura di Catherine Sellers alias Sherlock Holmes, Rui ci pone al cospetto di nuove controverse sfaccettature: «un tirchio con Francine, un galoppino con Maria, un egoista con i figli, un ipocrita con la madre, un donnaiolo con tutte». Si passa quindi il testimone a Sellers, la donna che, insieme a Francine, ha pianto Albert nella solitudine e nel silenzio, trovando perfino conforto nella condivisione del dolore con la propria rivale. È il volto discreto dell’intellettuale che si innamora dello scrittore nella sua maturità, ne comprende i tormenti esistenziali, ma non riesce ad afferrarne mai l’interezza.
Nel capitolo dedicato Mette Ivers (detta “Mi”) invece, la narrazione si sviluppa attraverso una serie di flashback che partono dalla telefonata con cui apprende della morte dello scrittore per poi seguire il percorso della sua memoria negli anni successivi, fino al 2010, quando accetta di partecipare a documentari sulla figura di Camus. Ivers è un’artista che ha saputo trasformare il dolore per la perdita dell’amante celebre in una vita piena e autonoma: madre di Inga (avuta con il fumettista Sempé), pittrice dalle ambizioni modeste ma concrete, testimone lucida di un amore che le ha dato «la venerazione ingenua che si prova una sola volta nella vita». È una figura che ha saputo elaborare il lutto senza rimanerne prigioniera, mantenendo una prospettiva critica tanto sui propri ricordi quanto sul mito di Camus e che rappresenta forse la più equilibrata delle quattro “vedove” nel rapporto con l’eredità dello scrittore.
«Rompere è possibile, rompere è doveroso a volte. Ma chissà cosa avrebbe fatto della sua famiglia Albert, se avesse continuato a vivere, chissà se le sue scelte coniugali l’avrebbero riguardata e per quanto tempo. Se non fosse morto in un incidente assurdo, lei non avrebbe avuto Inga. Oggi il pungolo che la spinge a creare ancora, a non lasciarsi andare alla pigrizia, nonostante la sua veneranda età, è lei.»
Il quadrittico si chiude con Maria Casarès (“L’Unica”), attrice e musa, spesso considerata dalla narrazione francese come “la vera donna di Camus”: una figura libera e al tempo stesso prigioniera del ruolo che il destino e l’immaginario collettivo le hanno attribuito per anni.
È certo questo il capitolo più drammaturgicamente intenso, intimo e introspettivo, costellato di grandi silenzi tra le stanze della villa in ristrutturazione dove per anni lei e Camus hanno fantasticato di rifugiarsi e in cui ora si ritrova sola, spersa tra dépendance e boudoir polverosi a comporre, in nove mesi, il suo mémoire.
Non ci si debba far trarre in inganno dalla capitolazione, ciò che l’autrice ha voluto imbastire con un’opera che le ha richiesto svariati anni di studi e documentazioni non è un carteggio di sterili fonti biografiche e nemmeno un manifesto femminista atto a screditare la figura dell’autore, pur di suscitare la facile polemica.
Il territorio in cui ci troviamo è tutt’altro: leggendo Vedove di Camus, si ha la sensazione di camminare sopra un tappeto rosso di pregevole eleganza stilistica, competenza formale e capillare attenzione al dettaglio in grado di restituire un dialogo sapiente e silente tra tutte le parti coinvolte. Le vedove sembrano pensarsi e parlarsi di continuo, passando tra le dita il fil noir di un lutto condiviso che nel dolore ne risalta la tempra e in qualche modo le richiama a sé.
Vedove di Camus realizza ciò che molta letteratura contemporanea si limita a dichiarare: una effettiva redistribuzione del punto di vista che, alla mera celebrazione del già noto, predilige un’interrogazione attiva di ciò che sta ai margini. Le quattro donne del romanzo non sono oggetti di rappresentazione, ma soggetti di squillante enunciazione: in questo risiede la voce di un’opera d’altri tempi, che ha tutta la forza per interrogare il contemporaneo.
Stefano Bonazzi
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Vedove di Camus
Elena Rui
L’Orma editore
18,00 euro — 180 pagine