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Émile Zola inedito. La letteratura è una ginnastica esistenziale

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Émile Zola

Caustica e indiscreta, l’attività giornalistica di Émile Zola ha toccato temi e ambiti solo all’apparenza disparati. Se si escludono le pagine di critica (per dir così) pura, sul “romanzo sperimentale”, e d’arte non è difficile individuare il punto dolente e chiave del suo lavoro en journaliste in una critica impietosa e talvolta aspra nei confronti del suo tempo. Un tempo visto e colto da “occasioni”. Così è nel testo che qui presentiamo (si tratta in realtà di un testo molto lungo, qui ne proponiamo solo la prima parte), articolo titolato “La littérature et la gymnastique”, pubblicato sulla “Revue littéraire” nell’ottobre del 1865, dove l’occasione è rappresentata dalla recensione di un volume Eugène Paz, La santé de l’esprit et du corps par la gymnastique. Volume che, rimarca Zola, seppur riducibile al vecchio e stringatissimo motto mens sana, in corpore sano gli dà l’occasione giusta per “divagare” sull’inserzione tutta moderna dell’uomo in un tessuto nervoso che lo devasta e lo sovrasta.

Marco Dotti

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Mi sia concesso di parlare di qualcosa che sta molto a cuore alla nostra generazione di animi sconvolti e isterici. Il corpo, come ai tempi migliori del misticismo, è singolarmente in caduta libera presso di noi. Non è più l’anima che viene esaltta, ma i nervi, ma materia cerebrale. La carne è indolenzita da scosse ripetute e profonte che il cervello imprive a tutto l’organismo. Siamo malati, è certo, malati di progressi. C’è un’ipertrofia del cervello, i nervi si sviluppano a detrimento dei muscoli e questi ultimi, febbricitanti, non sostengono più la macchina umana. Sarebbe bene pensare a questo povero corpo, se siamo ancora in tempo. La vittoria dei nervi sul sangue ha determinato i nostri costumi, la nostra letteratura, la nostra epoca nel suoi insieme. (…) Studiate la letteratura contemporanea e vedrete in essa i risultati della nevrosi che agita il nostro secolo. Essa è il diretto prodotto delle nostre inquietudini, ricerche, del nostro panico, di quella malattia generale che provano le società accecate dinanzi a un avvenire che non conoscono. Non siamo al tempo in cui la tragedia declamava verso in una pace pesante o la letteratura tutta intera regalmente marciava, senza una rivolta, nel suo grido di dolore. Siamo nell’epoca frenetica delle ferrovie e delle commedie dove il riso spesso non è che una smorfia d’angoscia. Siamo al tempo del telegrafo elettrico e delle opere estreme, di una reltà triste e esatta. L’umanità scivola, presa dalla vertigine, sulla rapida china della scienza: ha addentato la mela e vuole conoscere tutto. Ecco ciò che ci uccide, ciò che ci fa deperire, il fatto che diventiamo sapienti, che i problemi sociali e divini stanno per ricervere le loro soluzioni in questo tempo. Stiamo per vedere Dio, per vedere la verità, e capirete quale impazienza si impadronisce di noi, di quale frenetica fretta carichiamo il vivere e il morire. Vorremmo precorrere i tempi, sudare a buon mercato, sfiancare il corpo per diminuire la tensione della mente. Il nostro secolo è tutto qua. (…) Senza voler stabilire una relazione intima e profonda tra l’ambiente e l’opera, possiamo però affermare che la nostra letteratura nasce proprio da qui. Amo questa letteratura e la trovo viva e umana, perché piena di singhiozzi e nell’anarchia che la inquieta vedo l’immagine del nostro secolo. Nel nostro secolo di ricerca e rivolta, di crolli e ricostruzioni, so che l’arte è barbara e non potrà certo accontentare i palati fini. Amo l’anarchia, la caduta delle nostre scuole, m piace assistere al rimescolamento degli ingegni, amo studiare a uno a uno i lottatori. Ma si muore rapidamente, in un clima del genere: l’aria del campo di battaglia è malata e le opere uccidono i loro autori. La malattia viene dal fatto che i nervi sono cresciuti a dismisura rispetto al corpo. Il nostro cervello si è troppo sviluppato rispetto al corpo. Facciamo esercizio e, a poco a poco, l’equilibrio si ristabilirà.

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