Non ci sono scorciatoie né compiacimenti, non ci sono soluzioni rassicuranti o formule investigative già sperimentate nella costruzione de Il gufo, romanzo di Emma Saponaro pubblicato da Les Flaneurs Edizioni. A partire dal protagonista, il romano Guido Vitali, ex commissario di Polizia su cui grava il sospetto di un omicidio, che dopo aver dato le dimissioni si è messo a fare l’investigatore privato con la Globo Investigazioni.
Quando Vitali riceve una mail che gli fa presagire qualcosa di molto pericoloso e, allo stesso tempo, vicino a lui, il meccanismo si mette in moto e si inoltra in un complesso intrico di segreti in cui il tema della violenza sulle donne assume una dolorosa consistenza. Su questo sfondo si muovono personaggi che non sono mai, in alcun modo, belli e buoni o rassicuranti. Ma l’autrice offre la possibilità di accostarci a loro nonostante tutto e, forse, proprio perché non sono personaggi positivi a tutti i costi. Vitali si muove tra vicissitudini sentimentali e difficoltà lavorative, ricordi di un’infanzia travagliata e tentazioni alcoliche. E ce lo si trova davanti in tutta la sua “concretezza”, resa palpabile in poche righe: Vitali, oggi, ha pancia e stomaco opulenti. Rassegnato all’incessante accumulo dei chili nel corso degli ultimi venti anni, lo ritroviamo spesso costretto nella compressione dei vestiti che si ostina a non sostituire con altri di taglia più acconcia. Vitali è sciatto, la sua casa al Nomentano è sciatta come lo è la sua automobile, e ha i piedi piatti. La narrazione va intessendosi Intorno alla figura di Vitali, come intorno alle altre, compresa quella della fidanzata Jolanda, in certi casi prendendo il sopravvento su quella dei fatti propriamente investigativi e legati al “giallo”. E qui sta la forza e la capacità di questo romanzo di catturare l’interesse di chi legge, perché Il gufo è, prima di tutto, un romanzo, e il colore giallo – pur se progettato in maniera del tutto consona e con tutti gli ingredienti giusti – è un intelligente e indovinata struttura che tiene insieme il tutto. Così, quando arrivano i messaggi firmati da “Madre disperata” – che tra l’altro cita Sherlock Holmes, Baudelaire e Gabriel Garcìa Màrquez – non si può far altro che lasciarsi trascinare da un ulteriore richiamo, che ci farà addentrare un passo alla volta nel caso che impegnerà l’investigatore, ma continuando – e qui sta il grande merito dell’autrice – a rimanere irretiti nella progressiva “scoperta” della personalità di Vitali, della sua vita, delle sue abitudini, delle sue passioni, del modo in cui si muovono i suoi pensieri. Mentre la presenza della Madre disperata si trasforma in una sorta di ossessione, e si va addensando il sospetto di qualcosa che dal passato riemerge, piena di spigoli e di ruvidezze la figura di Vitali – bisogna ammetterlo – attrae e incuriosisce sotto la lente di ingrandimento che gli si muove intorno, con l’effetto di renderla “simpatica” perché, probabilmente, potremmo – in un modo o nell’altro – riconoscerci in essa o in parti di essa. La tentazione di tornare ad attaccarsi alla bottiglia c’è, ed è forte. È forte il pensiero di quell’appagamento, del bruciore, della tanto smaniata vertigine e poi dello stordimento che consola. La necessità di annebbiare i ragionamenti è un tormento con il quale gli è automatico pensare di convivere per tutta la vita. È forte il desiderio della nebbia alcolica, accidenti. Vorrebbe annacquare la realtà. Vitali è in difficoltà. E chi non lo è?