Scrivere di morte per celebrare la vita: si potrebbe partire da qui. Due pesi di una stessa bilancia che nel romanzo di Fabio Massimo Franceschelli si alternano continuamente, due fenomeni inevitabili che camminano, fianco a fianco, seguendo e inseguendosi lungo un tragitto tortuoso quanto uno di quegli infiniti sentieri che si inerpicano nell’Appennino umbro-marchigiano, imprescindibile scenario in cui si muovono i nostri. Una mappa topografica e metaforica che parte da Villa di Cima per salire sempre più in alto.
Si cammina parecchio in queste pagine, camminano tutti. Triade famigliare più moglie.
Cammina Carlo Castello, padre e giornalista, corrispondente al fronte che dalla seconda guerra del Golfo alle vicende curdo siriane, di vittime e barbarie s’è foderato l’esistenza. Cammina per rifugiarsi lassù, in quella villa sperduta tra gli alberi e il silenzio nel tentativo di somatizzare tutto il male assorbito negli anni per ricavarne un libro di memorie.
«Alla fine volete sapere cos’è la guerra? È sangue, sangue che perdi dalla bocca, dalle orecchie, dal naso e dalla fronte, da un buco sulla pancia, da uno squarcio sulla coscia. Ma il sangue non si può far vedere né raccontare, turba la borghesia, spaventa i bambini e non ha valore politico; non si costruiscono sogni o prospettive sul sangue. Il sangue che si perde è volgare. Le guerre, ragazzi miei, sono tutte uguali, hanno tutte lo stesso colore, rosso sangue, e noi giornalisti che raccontiamo storie di guerra mentiamo tutti. Non ci sono storie, c’è solo sangue».
Cammina anche Sandro, il primo dei due figli ma arranca con lentezza, senza più uno stimolo che non sia il semplice sostentamento vitale. La sua gamba destra si porta addosso le cicatrici indelebili inferte dopo il giorno della Cosa. È il suo modo di chiamarla, la Cosa: una tragedia famigliare di cui è fautore e che si è portata via il suo unico figlio, lasciando al suo posto una voragine di silenzio e zavorre che gli piegano schiena e spalle dandogli l’aspetto di un morto vivente.
«Se tutti mostrassimo le nostre imperfezioni vivremo più in accordo con la natura».
Di tutt’altre movenze invece è il figlio più giovane, Stefano Castello, alias l’Alieno, leader carismatico di una nuova corrente politica che lui stesso ha battezzato Futura e che promette una rinascita del paese priva di schieramenti, nel cui carteggio convivono echi pasoliniani, dannunziani, moti futuristi che alimentano pulsioni pionieristiche in grado di risollevare una nazione ma incapaci, come si vedrà, di far alzare in volo una semplice mongolfiera.
E poi c’è Sonia, seconda moglie di Carlo, docente di Storia Medievale a La Sapienza, che di trasferirsi a Villa di Cima non ne vuole sapere ma adora nei weekend perdersi tra le escursioni architettoniche delle chiese romaniche in zona, caldeggiando l’idea di scrivere un romanzo storico sulla vita di un eretico marchigiano del XIV secolo. Sonia non ama la montagna, il suo rapporto con la natura inospitale e gli animali selvatici la respingono: il suo è il punto di vista esterno, la bussola che orienta la marcia famigliare senza imporne la direzione.
«Scrivere è un po’ come andarsene da casa senza sapere quando tornerai», viene detto a un certo punto, può essere una scalata, può durare anni. Lo stesso sforzo fisico e temporale richiesto per elaborare un lutto o per dare forma a un sogno. È un processo che richiede accettazione e lucidità, dedizione, la stessa che traspare dalla prosa in essere.
Una messa in scena per atti autoconclusivi che non sfigurerebbe in una sceneggiatura teatrale e che all’autore ha richiesto più di quaranta mesi di costante indagine nella sofferenza per essere portata a termine.
«E quindi cosa siamo noi? Sciacalli che si nutrono spiritualmente della sofferenza altrui? Costruiamo consapevolezze illuminate sulle disgrazie degli altri? D’altronde, mi chiedo e mi giustifico, l’umanità evolverebbe in assenza di sofferenza? Non è la sofferenza che ci spinge verso Dio, la scienza, la riflessione?»
Viene da muoversi con cautela tra le vicende di questi quattro borghesi naufraghi delle proprie vite. Le loro scelte, i dialoghi, le decisioni che prendono a volte possono risultare respingenti, irritanti, così come possono esserlo le persone che ci circondano ogni giorno, ed proprio in questo senso di macchiettistico realismo che il romanzo si forgia di una tridimensionalità che travalica le polverose imposizioni letterarie.
Bandite le parabole aristoteliche di improbabili eroi o eroine, nell’opera di Franceschelli c’è spazio “solo” per le persone. Individui i cui lutti, i sogni, gli sbagli e le speranze sono lo specchio di una società di cui tutti siamo complici senzienti e di nuovo, in questo dispiegarsi, senza una precisa geografia esplicita dell’intreccio, il romanzo può forgiarsi di basamento ideologico tra i più solidi visti di recente.
Camminano tutti, si diceva, e cammineremo anche noi, con loro, nel dispiegarsi, capitolo dopo capitolo, di una montagna onnipresente, senziente, gravida di una vivacità minacciosa quanto rivelatrice. Cammineremo e rifletteremo, assieme ai personaggi, gli spunti saranno molteplici: esistenza, conflitto, scrittura, identità. Cammineremo arricchendoci: la cosa più preziosa che possa fare un buon romanzo perché ciò che emerge dalle lettere post belliche di Carlo, dalla rielaborazione della tragedia famigliare di Sandro, dall’accanimento mediatico di Stefano o dalla testardaggine di Sonia è una natura fin troppo umana e per questo labile, riconoscibile, limitata ma anche capace di ricalibrare la propria esistenza davanti al miracolo della vita che vi si ripropone nonostante tutto.
Che sia il parto di un capriolo o lo smarrimento nella boscaglia più inospitale, una volta privati delle nostre appendici tecnologiche, dei nostri siparietti sociali, di tutte le inutili protezioni anestetizzanti che ci hanno cucito addosso, da divoratori ritorneremo divorati, da professori ci stupiremo nuovamente allievi, da lettori ne riemergeremo ammaliati e, mai come in questo caso, davanti all’imponenza della scalata, lo smarrimento sarà fonte di mesmerico stupore.
Stefano Bonazzi
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Introduzione alla mia morte
Fabio Massimo Franceschelli
Del Vecchio Editore
17,00 euro — 240 pagine