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Federico Roncoroni inedito. L’ultimo Natale di Cosimo Alessi

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Federico Roncoroni

In esclusiva web per Satisfiction pubblichiamo il racconto inedito scritto da Federico Roncoroni uscito sul quotidiano “La Provincia di Como, Lecco e Sondrio” alla Vigilia di Natale con la commovente introduzione d’autore di Carla Tolomeo Vigorelli. Federico Roncoroni è autore della Grammatica Italiana più venduta del mondo, de “Il Grande libro degli Aforismi” (uscito per Mondadori e giunto alla 28esima edizione). Il suo ultimo romanzo, acclamato da critica e lettori, è “Un giorno altrove” edito da Mondadori.

Caro Federico, continuo a chiamarti così, come quando ci incontravamo a Luino, a Como, a casa di Piero Chiara e non sapevamo di vivere i migliori anni della nostra vita. Non vorrei tornare indietro, neppure di un minuto, ma mi piace ricordare e, nel ricordo, rivivere, soprattutto condividere con chi ha provato la bellezza di quei momenti. Ho letto e riletto il tuo racconto di Natale, piangevo e rileggevo perché la tua “storia” è il capitolo finale di tante vite, soprattutto di chi ha dedicato i suoi giorni a scrivere e ha rimandato il grande impegno di “scriversi” a quando i tempi avessero permesso di dedicarsi interamente all’ultimo romanzo, quello che giace nel profondo di ogni scrittore. Ma la vita non concede patteggiamenti e le forze mancheranno, le mani non obbediranno, la scrittura non uscirà dalla penna a depositarsi sul foglio bianco. Saranno segni indistinti, sarà disperazione.

La disperazione e la solitudine di chi non riesce a esprimersi, l’impotenza dell’intelligente che sa, ma non può e non vuole comunicare al mondo la fine della sua esistenza reale, quella legata ai suoi libri, ai suoi scritti, ai suoi pensieri che diventano parole, al suo “Verbo” che si incarna.

Il tuo scritto mi ha riportata ai giorni estremi di una grande vita alla quale ho assistito con dolore, senza poter far nulla se non amare e amare e amare, anche se tutto l’amore del mondo non bastava a colmare quella disperazione.

Hai descritto come nessuno avrebbe saputo questa “senilità “, concludi con un’apertura quasi religiosa, ma certamente e assolutamente di speranza cristiana. Ho ripensato alle parole di Don Primo Mazzolari: l’ ‘importante è mettersi in viaggio seguire la Stella”

Grazie Federico

Carla Tolomeo Vigorelli

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Non c’è niente da fare. Ogni anno, verso la metà di dicembre, c’è uno stupido che ti chiede dove passi il Natale. Tu vorresti strozzarlo, quello stupido, lui e i suoi pari, ma se lo facessi priveresti il mondo di quasi tutti i suoi abitanti. Quello, poi, per Cosimo Alessi – il professor Cosimo Alessi – non era proprio l’anno giusto per reggere a una simile domanda, innocua certo, tuttavia per lui, in quel momento, più fastidiosa di quanto non fosse stata per l’addietro. Il suo stato d’animo non era dei migliori. Altro che Natale e Natale. Ne aveva già abbastanza di tutto e di tutti. Arrivato ai settant’anni, infatti, Cosimo aveva deciso di tirare i remi in barca, come diceva con un’elegante metafora marinara per evitare di confessare che smetteva di lavorare. Voleva far credere, a chi gliene chiedeva il motivo, che lasciava il suo ruolo di dirigente editoriale per potersi dedicare ai suoi libri e non a quelli degli altri, e godersi, cosa che non aveva mai fatto, la vita o, meglio, quello che gli rimaneva della vita. Sì, perché in realtà, diversamente da quanto dichiarava a parenti e amici, non è che avesse rinunciato di sua volontà al lavoro che fino ad allora gli aveva dato molte soddisfazioni. A indurlo a un passo che non avrebbe mai immaginato di compiere così presto era stata una malattia che in breve tempo, e proprio mentre stava lavorando intensamente al suo secondo romanzo, gli aveva lasciato in eredità un’insopportabile spossatezza che – aggiunta ai risultati non brillanti di un intervento alla schiena – lo aveva dapprima stupito perché non aveva mai provato prima nulla di simile e poi l’aveva piombato in un buco nero da cui non riusciva a uscire. Come suo solito aveva tenuto la cosa per sé e non avendo frequentazioni professionali o private con chicchessia ma solo rapporti occasionali con persone legate al suo lavoro di editor e scrittore (presentazioni di libri, firmacopie, giri promozionali, discreti fine settimana in compagnia di qualche amica), la sua uscita di scena non era stata notata più di tanto e poco a poco aveva visto l’interesse nei suoi confronti spegnersi progressivamente come i cerchi che increspavano la superficie di un laghetto o di uno stagno quando da bambino vi gettava dentro un sasso. I colleghi e gli amici di un tempo lo avevano bensì cercato qualche volta per invitarlo a cena o a una conferenza, ma di fronte ai suoi ripetuti dinieghi alla fine avevano desistito. Con le amiche, che già il calo degli ormoni aveva rarefatto, gli fu abbastanza facile dar loro un educato benservito. Tra gli amici ne restavano due, due campioni di riservatezza, capaci di tenere diritta la barra dell’affetto senza nulla chiedere, e tra le amiche una fedelissima che, consapevole che sarebbe stato inutile insistere per stanare quell’orso che era dalla sua tana, si limitava a circondarlo di tenerezze telefoniche.

Comunque, a lui il fatto di essere rimasto solo non interessava più di tanto. Anzi in altri momenti non avrebbe potuto desiderare di meglio. Il problema era diverso, e gli bastarono due o tre settimane per capire che la vita in cui era finito non era quella che si era immaginato di vivere una volta vecchio quando “fosse andato in pensione”. Belle dormite mattutine, passeggiate in tenera compagnia d’inverno lungo le spiagge deserte dell’Adriatico e d’estate nei boschi dell’Engadina, serate di piacevoli letture protratte fino a che gli occhi non si fossero chiusi da soli sul libro che, scivolando dal letto, andava a sbattere sul pavimento e, soprattutto, la possibilità finalmente di scrivere, di riporre mano al romanzo da tempo iniziato e abbandonato più volte per far fronte a impegni editoriali sempre giudicati irrinunciabili, e magari completare il “Dizionario di linguistica” cui aveva dedicato una dozzina d’anni tra continue interruzioni e riprese. No, non era così. La spossatezza divenne cronica. Si sentiva sempre stanco; le gambe, oltre che non rispondere alla sua voglia, già non molto forte, di andare in giro, gli rendevano difficili anche brevi spostamenti e, ahimè, i suoi occhi faticavano a seguire le righe di un testo per più di qualche minuto. In breve tempo poi si manifestò un disturbo che non avrebbe mai pensato potesse capitargli: la mano destra, abituata a tracciare sulla pagina chilometri di parole al giorno si era, come dire, rimbambita e sul foglio ora vergava parole illeggibili. Il computer si era rivelato inadatto a risolvere il problema nonostante tutti gli ausili tecnologici di cui si era dotato. Si incupì progressivamente. Si sentiva come un atleta, un nuotatore o un corridore, che all’improvviso, a causa di un incidente, fosse costretto in carrozzella. Lui non era ancora arrivato a quel punto, ma aveva visto le sue passioni più grandi – leggere e scrivere – spente da “un incidente” provocato probabilmente dalla ribellione di una parte del suo corpo contro se stesso. Spesso cadeva nella disperazione e solo l’assidua presenza della governante e i suoi rimbrotti riuscivano a tenere lontani i pensieri più neri.

A lungo andare la situazione era diventata sempre più penosa, anche perché lui, così pieno di impegni e interessi e orgoglioso di sé fin quasi alla superbia, non voleva arrendersi all’idea di dover assistere, senza poter fare quasi niente, al progredire di una malattia che, lo sapeva bene, non era mortale e nemmeno incurabile ma inguaribile. Al limite della disperazione trovò infine un equilibrio, nato dalla consapevolezza dell’ineluttabilità di quanto gli stava succedendo, tanto più che, a parte un’inevitabile depressione, non aveva altri guai che esulassero da quelli previsti dalla malattia: stanchezza, inappetenza, difficoltà di lettura e impossibilità a scrivere, guai, questi ultimi, ai quali cercava di porre qualche rimedio rileggendo mentalmente le centinaia e centinaia di volumi già letti e, quanto allo scrivere, costruendosi in testa trame che forse un giorno avrebbe messo in carta. Quando non si può fare ciò che si vuole si cerca ogni sorta di alternativa. Insomma, si ritirò nel suo guscio e non si fece più vedere da nessuno.

Tutto ciò durava da un anno – dal mese di gennaio in cui la malattia era stata individuata, denominata e messa sotto controllo con mezza tonnellata di pastiglie rosa, verdi e gialle, a fine dicembre –, allorché a rompere quel precario equilibrio non si fece vivo dal Canada suo cugino Severino che, dopo aver parlato di questo e di quello – in particolare della sua nuova moglie, la terza –, era uscito, per primo, battendo tutti gli altri, nella fatidica domanda, del resto per lui usuale: “Dove passi il Natale quest’anno?”. Cosimo sopportò tranquillamente la sua richiesta mandandolo tra di sé a quel paese, anche perché se gli avesse risposto male Severino gli avrebbe chiesto la ragione di una simile reazione. E lui non voleva dare spiegazioni in proposito. Ma quando neppure la segreteria telefonica gli permise di eludere le chiamate di Antonio, Paoletta e Laura e fu costretto a riascoltare la domanda, fece molta fatica a trattenersi, si morse la lingua e, invece di rispondere chiaramente che dove avrebbe passato il Natale erano affari suoi, si limitò a dire che non aveva ancora deciso. Però un paio di giorni dopo, quasi per confermarsi e confortarsi nella sua decisione di tenersi per sé il suo Natale, si trovò a rievocare quelli passati cercando la ragione della sua insofferenza per una festività che non era mai riuscito a farsi piacere. Gli unici Natali di cui serbava un buon ricordo erano quelli dell’infanzia, quelli fino ai sette anni, quando il saputello di turno, in Seconda elementare, gli aveva chiesto: “Ma tu credi ancora a Gesù Bambino?”. Scoprire che una cosa che gli sembrava tanto bella era invece un imbroglio gli provocò una delusione terribile, anche se per un anno finse di crederci per non rovinare, pensava, la festa pure alla sua sorellina. I Natali successivi non gli dissero più nulla: era una noiosa giornata, carica di tensioni familiari e aggravata dall’obbligo di mostrarsi contento. Il peggio venne quando fu costretto a celebrare due Natali nello stesso giorno. I suoi si erano separati e insieme alle sorelle dovette pranzare con la mamma e il suo nuovo compagno e cenare con il papà e la sua nuova compagna: due aperture di doni, due festosità una più falsa dell’altra, due panettoni e due palle indescrivibili. A diciannove anni ottenne la libertà natalizia, cui non avrebbe più rinunciato, con esiti diseguali. Il primo anno andò a casa di un compagno di Liceo e le cose andarono bene fino al momento in cui si rese conto che la madre dell’amico, la padrona di casa, gli riservava troppe attenzioni arrivando a chiedergli se non gli sarebbe piaciuto festeggiare con lei, “da soli”. Non gli andò meglio l’anno dopo quando, ospite nella famiglia di una compagna di Università, ebbe l’impressione che il padre e la madre della ragazza pensassero fosse il suo fidanzato, tant’è che lo sottoposero a una sorta di interrogatorio volto ad appurarne le qualità, i vizi e le virtù. Prese la fuga a gambe levate. Molto meglio andarono i Natali che seguirono, forse perché ormai viveva quel giorno come un giorno festivo qualsiasi, senza più preoccuparsi dell’insanabile dissidio tra il Natale come festa religiosa e il Natale come celebrazione spinta del consumismo. Così finì che i Natali successivi si appiattirono uno sull’altro diventando tutti uguali, quelli trascorsi a New York, quelli trascorsi a Cortina, quelli turistico-alberghieri trascorsi a Miami piuttosto che a Singapore o quelli passati a casa propria solo, tra scrivania e divano o in compagnia di qualche amica. Certo, in quella sorta di dolciastra poltiglia spiccavano nella memoria i Natali – tre o quattro in totale – passati in casa del padre, tra la malinconia dei ricordi e l’ancor più invasiva presenza dei chiassosi nipoti cui, come è giusto, andava l’attenzione di tutti. Saggiamente il babbo, pago di essere attorniato una volta ogni tanto dall’intera tribù, diceva: “Cosa vuoi, il Natale è la festa dei bambini”. Appunto, è la festa dei bambini.

Come avrebbe dunque potuto trascorrere il Natale di quell’anno che si annunciava così diverso dai precedenti? Proprio non lo sapeva. La prospettiva non si presentava piacevole. Stare da solo? Accettare l’invito dei cugini? Andare da un’amica? Nessuna di queste soluzioni gli pareva opportuna, considerato altresì che al momento non si sentiva né di rimanere solo in casa né di andare fuori con qualcuno né tanto meno di ospitare qualcuno. Comunque, per fortuna, al Natale mancavano ancora tre giorni. E in tre giorni poteva accadere di tutto, magari la fine del mondo. Doveva solamente aspettare che qualcosa accadesse: aspettare, l’unica cosa che ormai poteva fare in ogni campo. Aspettare che gli abbuonassero vent’anni di vita passata o futura? O forse aspettare di fare l’abitudine a quanto gli capitava, anche se ciò significava arrendersi, e questo non intendeva farlo? Aspettare e basta? Il pensiero gli corse lontano, fuori dalla finestra, oltre i tetti delle case davanti, oltre le basse colline dietro le quali si stagliavano le vette già innevate delle montagne, e si perse nel cielo dove si accendevano le prime stelle. Fu in quel momento, mentre la sua disperazione andava come sciogliendosi in quell’immensità, che gli apparve davanti agli occhi la moltitudine di uomini e donne che, proprio in vista del Natale ormai vicino, si era messa in viaggio, alla volta dello stesso luogo. Gente semplice, di ogni tipo, persone diverse ma che avevano nei volti una speranza comune, che illuminava perfino le loro povere vesti e la loro stanchezza: braccianti; pescatori; pastori; contadini con la zappa e la vanga sulle spalle; operai delle vigne; acquaioli; artigiani; mercanti; madri con i figli per mano o tra le braccia; massaie con la sporta della spesa; mendicanti; qualche soldato; uno scrivano con la sua cassetta; lavandaie con il loro carico di panni; e tanti, tanti altri, soli o in gruppo, di cui era difficile decifrare il mestiere o la provenienza e, un poco indietro – confuso tra la folla, in mezzo a pecore, cammelli, un bue e un asino senza padrone –, un uomo con in mano le briglie di un asinello su cui sedeva la moglie incinta. Cosimo ci pensò su qualche minuto, si scosse, si guardò intorno e poi decise di partire anche lui per andare a raggiungere quella schiera di viandanti dovunque fosse diretta.

Federico Roncoroni

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