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Filippo Tuena. Michelangelo

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Leggere Michelangelo di Filippo Tuena significa lanciarsi in una avventura e amore per la vita che ci restituisce non solo la figura del Buonarroti nella sua fragilità e al contempo nella sua forza, ma ci rende soprattutto capaci di affondare nella scrittura di Tuena come si affonda lo scalpello nella carne del marmo. Significa provare empatia, amore e soprattutto quel desiderio minuto, ma imprescindibile, offre la giusta distanza per capire che ciascuno di noi è simile all’altro, tributa quel desiderio di amore per l’altro che ci permette di essere prima di tutto uomini di questo creato.

Nelle “avvertenze per un buon uso di questo libro”, Filippo Tuena ci spiega che il libro raccoglie tre testi editi e quattro ipotesi di lavoro. Una opera quindi monumentale che trova la sua forza proprio in questa apparente complessità. Sono testi che appartengono a generi diversi, si va dal romanzo, a un epistolario sul quale si appoggia lo scrittore, a monologhi teatrali, appunti e ipotesi di lavoro cuciti con un filo forte e una tessitura che solo in pochi riescono. Perché in questa avventura non ci si perde, anzi si entra e si esce dalle stanze che Tuena ha costruito per noi alla ricerca del nostro Michelangelo più amato.

Michelangelo, anzi come lui amava chiamarsi Michelagniolo, è così che ha firmato alcune sue opere e come gli altri del tempo lo chiamavano, è un uomo brusco, irascibile e solitario, insomma un carattere difficile eppure Tuena lo ama di un amore profondo e ce lo restituisce nella sua interezza e fragilità, raccogliendo a piene mani da quel suo essere, di Michelagniolo, profondamente uomo immerso nel suo tempo e al contempo della sua unicità.

E su questo voglio ragionare: tre momenti di una delicatezza che forse ci danno il senso del tutto o forse no, ma non ha importanza, perché sono un lavoro di cesello che non lascia indifferenti.

Michelangelo, come si usava ai tempi, venne dato a balia con la quale visse per alcuni anni, lontano dalla famiglia. E la balia era la moglie di uno scalpellino. E’ così che Michelagniolo poppa latte sano e la polvere della pietra prodotto dallo scalpellino. E’ una immagine potente che Tuena ci offre, tanto che “il cibo manterrà per lui, sempre, nella sua più essenziale connotazione, un qualcosa di perfetto, di sacro, d’incorruttibile, ancorché sempre pronto a trasformarsi all’interno del corpo umano in qualcosa di infetto, diabolico, corrotto”.

Michelangelo cresce e vive in un periodo storico terribile, percorso tra la tirannia dei Medici e i tentativi di nascita della Repubblica. Conteso tra Roma e Firenze, Michelangelo non nasconde il suo odio viscerale per il Duca Alessandro che lo porterà ad allontanarsi da Firenze e non farne mai più ritorno. Anche qui Filippo Tuena sembra quasi prenderci per mano e con una lanterna ci guida nella “penombra” michelangiolesca, scostando di volta in volta i veli, dove l’incompiutezza e le opere rotte possono essere metafora della viscerale ricerca di perfezione, la perfezione che falla di Michelangelo. Entriamo cosi nel labirinto di Michelagniolo perché quella ricerca della perfezione può portare alla rottura del marmo, quell’ultimo tocco nervoso può essere fatale… “Ma chi fa, falla”. Francesco Amadori, detto Urbino, scalpellino e domestico e forse il grande e unico amore di Michelangelo uomo, ci racconta “M’insegnò che in ogni marmo c’è una venatura fallace, un punto di rottura infallibile e certo. Così è delle speranze: tirale a lucido, riducile all’osso e si spaccano”

Michelangelo ombroso, anoressico, omosessuale, Michelangelo che vive miseramente ed è ossessionato dal demone della avidità in questo modo lo raccontano, mentre Tuena riesce a farci distinguere le sue fragilità dalla sua grandezza e come questa grandezza non sarebbe stata possibile se non attraversando con tutto il corpo michelangiolesco le proprie fragilità … ed ecco che torna ancora il marmo “I vecchi cavatori lo ricordavano. Possedeva il segreto, dicevano, di guardare dentro il marmo. E io avevo chiesto loro di raccontarmi tutto. Quello che faceva… se li ascoltava; se li carezzava; se ne saggiava la scorza con pochi colpi di scalpello; se raffinava tra le dita la polvere di marmo; se produceva scintille e bruciature tra i marmi e annusava l’odore di bruciato per valutarne la consistenza… (Daniele Ricciarelli da Volterra, pittore e scultore).

E così è stato fino alla fine perché Michelagniolo ha cercato le macchie o come le chiamano in terra toscana le madrimacchie. Perché ogni buon marmo si dice ha una intrusione di talco, ferro, pirite e più la madremacchia sembra profonda, più attrae come una calamita le impurità del marmo… sicché intorno ad essa quello è candido e puro come neve appena caduta.

Maria Caterina Prezioso

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Michelangelo/Filippo Tuena/il Saggiatore/ pp.604/29,00 €

 

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