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Filò. Intervista a Pierfrancesco Trocchi

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Questa settimana, per Le Tre Domande del Libraio su Satisfiction, incontriamo Pierfrancesco Trocchi per farci raccontare il libro, da poco uscito per Metilene Edizioni, «Filó». Il volume inaugura “Passage”, la nuova collana di narrativa contemporanea curata da Matteo Moca per la casa editrice toscana. Pierfrancesco Trocchi (1991) è emiliano e lavora come redattore per una casa editrice specializzata in libri scolastici. Ha scritto diversi racconti pubblicati su riviste letterarie (tra cui Bomarscé, Malgrado le mosche, Risme, Galápagos, L’Appeso, Topsy Kretts)e Filò, uscito da pochi giorni, è il suo primo romanzo.

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Pierfrancesco, ci racconti il tuo percorso nella scrittura e come sei arrivato alla pubblicazione con Metilene, dopo averci spiegato cosa ti ha ispirato a scrivere Filó? C’è un evento o un momento particolare che ha acceso la scintilla per questa storia?

Arrivo al romanzo dopo avere sperimentato diversi canali di espressione. Il primo approccio in assoluto è stato quello alla scrittura poetica, poi a quella musicale e infine a quella in prosa. Dopo avere pubblicato alcuni racconti su riviste, nel 2020 mi sono convinto di potere scrivere qualcosa di più articolato. Avevo la necessità di portare su carta le esperienze mie e delle persone a me vicine per soddisfare l’intima esigenza di dare una forma e un nome a tutto ciò che si era accumulato sul diaframma della mia vita. Il silenzio della pandemia mi ha motivato a parlarmi, a farmi compagnia: dalle mie parti, nella profonda pianura bolognese dove il romanzo è ambientato, “fare filò” significa appunto stare insieme. Scrivere, così, è stato un modo per passare tempo con me stesso riattivando memorie e desideri. Si è trattato di un processo intenso, durato più di un anno, durante il quale più di una volta mi sono ritrovato a piangere, a ridere da solo. Ogni lettera era lo scalino di una catabasi che, al suo compimento, si è rivelata catartica. La pubblicazione di questo viaggio nella provincia dentro e fuori di me non sarebbe stata possibile senza Matteo Moca. Ha accolto il manoscritto quando era nella sua fase primordiale e mi ha fornito chiavi essenziali per esaltarne ritmi, lingua e messaggio. Matteo ha poi proposto Filò a Metilene, che ha deciso di farne il primo titolo della sua nuova collana di narrativa, Passage, il cui curatore è proprio Moca.

Una villa decadente e un gruppo di ragazzi pronti a condividere un segreto in una notte tumultuosa. La provincia e il contesto sociale in cui si muovono questo gruppo di amici sono molto vivi nel romanzo. A partire da quanto conta l’ambiente per te nella costruzione della storia, ti va di raccontare nel dettaglio i rapporti tra i vari personaggi che animano questa narrazione, entrando nel vivo della trama e spiegando anche cosa volevi raccontare sulle relazioni umane?

Filò è prima di tutto un romanzo sull’amicizia e sulla provincia, appunto. I suoi protagonisti vivono più o meno volutamente fuori dal tempo in uno spazio altrettanto atemporale, ossia quello di un infinitesimale paese della bassa pianura bolognese. Le loro interazioni sono condizionate da questa lontananza del centro, che talvolta declina in una vera e propria assenza di un fulcro a cui tendere. In provincia la dimensione del sentimento, del pensiero e della memoria prende il sopravvento e definisce i ritmi del mondo più di quanto non lo facciano le azioni, che quando infine si concretizzano risultano assolute e totalizzanti. I personaggi del romanzo, dunque, sono ragazzi e ragazze che, imbevuti di rappresentazioni e vite da altrui vissute, vanno alla frenetica ricerca dell’autenticità. Tutte le vicende, o quasi, si svolgono in una sola sera, quando il giovane Tancredi raduna nella propria villa gli amici più cari per dire loro addio. Tancredi, infatti, sta per morire, ma ne è a conoscenza soltanto Luca, suo migliore amico e voce narrante. Così, accorrono tutti e tutti hanno una storia destinata a raggiungere il proprio culmine risolutivo, alternativamente tragico o liberatorio. Il rendez-vous vive di diadi, che talvolta mutano in triadi. Ci sono Agnese e Fiamma, che sono sorelle, i cui destini si si intrecciano con quelli di Tancredi e Luca, ma anche di Nico, il più contraddittorio dei personaggi. Ci sono Sofia e Mino, coppia che vive un periodo di crisi in cui si inserisce Gaetano, a sua volta sfibrato dalla concettosità della sua relazione con Vicky. Ci sono Claudio, Davide e Riccardo, marginali nella geografia del gruppo, espressione del pantano esistenziale della provincia. Ci sono, infine, anche presenze fantasmatiche, che attanagliano in particolare Luca. Da questo carnage nessuno esce come è entrato, spinto alla risposta dalla «solennità dell’addio», come se la villa fosse un forno sacro.

Qual è stata la sfida più grande nel portare a termine il proprio romanzo d’esordio, anche dal punto di vista del lavoro fatto sulla scrittura, e, se hai in mente nuovi progetti, come pensi che Filó influenzerà il tuo percorso futuro come scrittore?

Quando scrivevo il romanzo, tenevo sempre a mente questa frase di Carlos Ruiz Zafón: «L’ispirazione viene quando si mettono i gomiti sul tavolo, il culo sulla sedia e si incomincia a sudare». Nella mia prospettiva, non esiste altro modo per produrre qualcosa che sia più lungo di una decina di pagine. La quotidianità della stesura ha permesso che Filò tenesse chiara e vivace la propria sequenzialità: è stato bellissimo e complesso, faticoso, talora affannoso. Ora che sto lavorando a un nuovo romanzo, Filò mi è particolarmente utile sotto diversi punti di vista. Mi suggerisce cosa rifare, e cosa no. Mi insegna a capire come la materia scrittoria sia, una volta decantata, un organismo dinamico con cui confrontarsi – per modificarlo o difenderlo – senza timori, come bisognerebbe fare sempre con quelle che sono parti di sé. La scrittura è un atto di manifestazione e, allora, il lettore ha bisogno di esattezza, cioè che l’autore si assicuri di avere portato sul foglio nella maniera più fedele il pensiero da cui sgorga la parola, cercando di tradirlo il meno possibile. Rileggere Filò o parlarne è come rivedermi allo specchio, cercare di ottenere la maggior coscienza possibile dei miei tratti e così capire come esprimere ciò che di me è ancora rimasto sotteso.

Buona Lettura di “Filó” di Pierfrancesco Trocchi.

Antonello Saiz

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