Un breviario geografico, storico e culturale declinato grazie a toni splendidamente letterari. Possiamo incominciare in questo modo a “leggere” Tempo e marea. La lunghissima vita dei paesaggi dell’inglese Fiona Stafford, pubblicato da Mimesis nella collana “Ultima Thule”, con la luminosa e levigata traduzione di Donatella Caristina. A partire dal prologo, l’autrice apre un percorso tra luoghi dell’Inghilterra che si articola, passo dopo passo, tra resti architettonici romani e il vischio della contea dell’Hereford, nibbi reali la grotta di Fingal, le acque del Solway e le oche che attraversano i cieli sulla contea di Cork, l’isola di Staffa e l’Humber Bridge. Il viaggio scende in profondità, attarverso paesaggi terrestri, marini e aeriformi, nella consapevolezza che lo sguardo “definitivo”, se mai qualcosa di definitivo possa esserci nell’atto del viaggio – fisico come letterario – non può esulare dalle infinite stratificazioni di cui sono fatti i luoghi, “costruiti” nel tempo da storia e geografia, miti e folclore, natura e cultura, vite umane e racconti. Il viaggio di Fiona Stafford, che trova sottili parentele nel lavoro fatto da Pedrag Matvejevic in Mediterraneo. Un nuovo breviario o, per certi versi, da William Least Heat Moon in Strade blu, ha il potere di strascinare in profondità nei territori, di farli vivere, in una posizione che si discosta con forza da qualsiasi forma di “turismo”. Ogni tappa, ogni avvicinamento, può nascere da un particolare infinitamente piccolo. È il caso di una tavoletta di cioccolato avvolta in una carta che rimanda a un quadro di Joseph Turner, Staffa, Fingal’s cave, i cui colori riportano all’isola di Staffa, dove il pittore giunse nel 1831 per raccogliere materiale per illustrare una nuova edizione delle poesie di sir Walter Scott. La narrazione parte da quella carta per espandersi via via attarverso un pecorso che tocca i battelli a vapore in servizio all’epoca, la sabbia bianca scintillante della vicina Iona, gli abitanti delle Ebridi, l’arrivo sull’isola di John Keats, i saccheggi dei vichinghi, le colonne di basalto della scogliera, colonne tronche di forma esagonale che tracciano il cammino verso la grotta di Fingal. “Mito e memoria fluiscono e rifluiscono. Le grotte marine risuonano degli echi delle onde, delle raffiche di vento che spazzano via voci umane e, se mai le riportano, queste sono ormai frammentate e trasformate. Keats immaginava qui Lycidas assopito sul marmo freddo e nudo della cattedrale del mare”. Nello sguardo della Stafford, le fenditure angolari della roccia dell’isola rimandano alla forma delle lettere runiche, e la grotta di Fingal, chiamata dalla gente del luogo anche “grotta musicale”, rimanda a Felix Mendelssohn, che “rimase profondamente turbato dal trovarsi all’interno di questo immenso organo nero e risonante, assolutamente senza scopo, e del tutto solo, con il vasto mare grigio dentro e fuori”. Tutti i luoghi toccati dal percorso ri-prendono vita, diventando narrazioni di narrazioni che si nutrono, allo stesso tempo, della dimensione visibile immediatamente fruibile, ma anche dell’infinito patrimonio “invisibile”, della memoria dei luoghi che attraverso la parola scritta trova sostanza e, a sua volta, ri-torna a vivere. Con Tempo e marea si supera la dimensione del semplice viaggio e si entra in quella che si può definire “aura dei luoghi”.
Paolo Melissi
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Quando l’intrepida scrittrice del XVII secolo, Celia Fiennes, attraversò a cavallo l’Inghilterra negli anni 1690, percorse tratti ignoti di campagna senza avere la minima idea di cosa
avrebbe visto o di quanto si sarebbe protratta la sua giornata, e lasciò una testimonianza inestimabile di ciò che catturava la sua attenzione. Non ho mai cavalcato all’amazzone indossando una gonna lunga, per cui le convenzioni femminili di trecento anni fa la rendono per converso ancora più eroica ai miei occhi. È un fantasma buono da intravedere su una strada sconosciuta o su un sentiero costiero: una donna che notava le cose ma non si curava troppo di essere notata. Annotava ciò che vedeva e sentiva e spesso interpretava in modo un po’ erroneo. Quando partì per York, il suo viaggio la portò ad attraversare l’antica contea di Huntingdonshire, lì rimase affascinata da una grande distesa scintillante “come il mare”.
Il terreno circostante era umido e fangoso, solcato da stretti canali che correvano verso l’ampio specchio d’acqua. La terra piatta e paludosa offriva ben poco su cui i venti che soffiavano da est o da nord potessero abbattersi, sferzando i viaggiatori a cavallo e bruciando loro le mani e il viso. Ascoltò storie di tempeste che si scatenavano dal nulla, attraversando il mare aperto per abbattersi sui velieri prima che se ne accorgessero, proprio come se fossero in mare aperto. E sentì il nome Whitlesome Mer. Whitlesome, Whittlesea, Whittlesey: nomi scivolosi, sfuggenti come il luogo che cercano di fissare. Qui i vasti cieli passano a gran velocità dal blu chiaro al bianco tenue delle scaglie di maccarello, all’ardesia liscia, al grigio plumbeo e al carbone scuro. In una pianura come questa, il cielo è dominante ma raramente immobile. Nuvole mutevoli si adattano al territorio sottostante, che è cambiato più lentamente ma non meno drammaticamente. Il grande lago che aveva sorpreso Celia Fiennes non c’è più. Chi ha portato via il mare da Whittlesea?
A piedi, le cose non sono così nette e distinte come sullo schermo: nessun palloncino scarlatto a localizzare il luogo. L’area tuttora denominata Whittlesey Mere si estende su campi punteggiati da turbine eoliche, fattorie isolate, vecchi mulini privi di pale e alte ciminiere sottili in mattoni. Stretti sentieri chiamati Gosling’s Drove o Two Pole Drove risuonano di attività ormai perdute. Lontano, all’orizzonte, la guglia della chiesa di Whittlesey delimita l’antica città mercato, che ancora oggi accoglie il traffico in avvicinamento con una barca piena di fiori battezzata “The Spirit of Whittlesey”. Ma lo spirito di Whittlesey si percepisce con maggiore intensità nella pianura un tempo coperta dalle acque del grande lago.