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Francesca Bonafini anteprima. La strada ti chiama

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Leonardo, Dimitri, Oliver, Yves. Quattro ragazzi, una solida amicizia e un momento che spinge verso una nuova fase della vita. Tutti e quattro amano giocare a hockey, tutti e quattro ipotizzano l’esistenza di un tesoro da trovare, ma che risulta differente per ognuno di loro.

È questo, grosso modo, l’ambiente e la “morale” che Francesca Bonafini regala al lettore de La strada ti chiama – da oggi, 11 novembre, in libreria per i tipi di Sinnos.

Al secondo romanzo YA, l’autrice veneta sposta l’azione in Canada, a Toronto, durante l’estate del 1976. L’anno della XXI olimpiade, quella successiva ai fatti di Monaco.

Bonafini costruisce attorno al gruppo dei quattro ragazzi una storia vitalistica, dove la propulsione verso la vita (e il futuro) da parte di questi tredicenni è carica di gioia e solarità.

Sono tutti figli di immigrati, con genitori provenienti dall’Italia, dalla Grecia ecc. Proprio questo li fa soggetti desideranti, capaci di porre le loro vite in un fluire di speranze e proiezioni verso quanto sarà.

Fra loro, l’unico ad avere una strada apparentemente tracciata è Yves. Se non fosse che il destino, a volte, cambia direzione. Sarà così per lui e per la sua voce angelica, che lo porta a cantare in giro per il mondo.

Lui vuole proprio questo: cantare. Il suo desiderio è quindi restare nel mondo della musica classica, nell’ambiente concertistico. Un desiderio che alla fine si avvererà, anche se in un modo per lui inaspettato.

Diviso in quattro macrocapitoli, più un epilogo affidato alla voce di Leonardo, La strada ti chiama offre il proscenio a tutti i protagonisti, lasciando loro spazio per raccontare se stessi e contemporaneamente accordare la propria alle altre voci.

Ogni capitolo è una “mappa” per arrivare al tesoro di cui i quattro raccontano, ma che alla fine rappresenta la possibilità di guardarsi dentro e di conoscere se stessi, come singoli e come gruppo.

Bonafini scrive una storia profondamente archetipica (fra le altre cose ci sono il viaggio, la cerca, la scoperta…), capace di far immergere il lettore non solo dentro le sue pagine ma anche, con grande naturalezza, dentro l’universo maschile preadolescenziale.

L’autrice conferma qui, come nei precedenti romanzi, una stupenda capacità di analisi per quanto riguarda ogni personaggio messo in campo. A questo si aggiunge la conferma della gestione della lingua. Ne La strada ti chiama non è mai piatta, sempre ben articolata, in equilibrio magnifico fra una possibile contemporaneità e lo slancio lirico narrativo.

Ultima cosa per comprendere meglio il romanzo. Il personaggio di Yves è liberamente plasmato sulla figura di Yves Abel, un grande direttore d’orchestra, sulla sua infanzia trascorsa proprio a Toronto. Il suo posto perciò non era di stare in poltrona, ma «dietro le quinte, in attesa di entrare in scena». Così è stato.

Sergio Rotino

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Arretro. Raggiungo un ponticello, lo attraverso, procedo sicuro fino a quando mi trovo davanti a un bivio. Due strade.

Cosa mi aspetta su una e cosa sull’altra non so prevederlo, ma devo scegliere. E se poi mi accorgessi che non è la via per il tesoro? Avrò il tempo, questa volta, di tornare indietro?

Mi siedo sopra una grossa pietra un po’ scomoda, poggio a terra lo zaino, estraggo il coltello, taglio il limone, su una metà faccio sciogliere lo zucchero. Addento e rabbrividisco. Mi godo l’asprezza del succo, la dolcezza del saccarosio e l’amaro della buccia. Dove saranno adesso i miei amici?

La strada che scelgo si addentra nel bosco. Mi inebrio dell’odore del muschio, della resina delle cortecce; mi incantano i raggi che bucano il fitto delle fronde, lame di luce che dal cielo toccano terra. Potrei stare tutto il giorno qui, a contemplare.

Il canto degli uccelli è un coro sacro che punteggia i miei pensieri di gratitudine.

Yves mi ha raccontato di una partitura per pianoforte e orchestra intitolata Réveil des oiseaux, il risveglio degli uccelli, scritta da Olivier Messiaen, che compose l’opera prendendo le mosse dalla trascrizione sul pentagramma del canto degli uccelli nella foresta, dalla mezzanotte al mezzogiorno: ci sono l’usignolo, l’upupa, la civetta, il torcicollo, la tottavilla, il succiacapre, il canapino, il tordo, il pettirosso, il merlo nero, il codirosso, il cucù, il fringuello, la cornacchia, la capinera, il picchio e non ricordo più quanti altri.

Zaino in spalla, riprendo il cammino. Ma lentamente, perché tutto rapisce i miei occhi, e mi trattiene, e mi dice: non essere distratto, non perderti nulla, questa meraviglia è per te.

Appoggio le mani sulla corteccia grigia, rugosa, marcata da solchi profondi, di un quercus macrocarpa, un albero maestoso che vive anche duecento o trecento anni, a volte arriva perfino a quattrocento.

E noi umani? Cos’è il tempo per noi? Perché siamo qui? Cerchiamo risposte. Ma qualcosa è imprendibile.

Giocavamo a hockey sull’asfalto di Aldwych Avenue, una sera come tante. Leonardo, che molto aveva corso senza risparmio, si fermò ansimando, chinandosi in avanti col busto, per appoggiarsi, con le palme aperte, alle ginocchia: «Ci riposiamo un po’, va bene?».

«Ma che cavolo, Leonardo! Proprio ora che stavamo vincendo!», si lamentò Dimitrios.

Yves alzò gli occhi al cielo e disse: «Guardate!». Spalancammo la bocca per lo stupore. Favoloso era il nero stellato, quella notte, davanti al quale io mi sento sempre così minuscolo, così minuscolo…

Senza dire una parola raggiungemmo Aldwych Park e rimanemmo a lungo distesi su quel lembo di prato, sul ciglio della nostra via, nel grembo della notte luminosa.

«La metafisica, della quale io ho il destino di essere innamorato…», disse Leonardo sottovoce, quasi temesse di profanare il silenzio.

«Che palle! Giusto per non ammettere che una vera ragazza te la puoi soltanto sognare…», lo prese in giro Dimitrios.

«La metafisica è qualcosa che va oltre a ciò che possiamo vedere, toccare. La metafisica è l’inconoscibile, il mistero, l’infinito. Per questo la amo».

Silenzio. Silenzio ancora. E poi ancora. Anche il tempo, di fronte a quello spettacolo

sublime, non esisteva più.

Infine Leonardo, come risalendo da un pozzo profondo ricolmo di parole potenti che aveva trovato dentro a un libro, in un soffio che tuttavia arrivò alle nostre orecchie con nitore e forza formidabili, disse: «Due cose riempiono l’animo di ammirazione e di riverenza sempre nuove e crescenti, quanto più spesso e più a lungo il pensiero vi si ferma su: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me».

Credo che nessuno di noi abbia afferrato del tutto il senso di quella frase, forse nemmeno Leonardo che la pronunciava. Eppure intuivamo che era l’essenziale, e che era bellissimo, e che poteva bastare.

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