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Francesca Mezzadri inedita. Lita

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Milano, 1983

 Il 23 percento di tutti i personal computer in uso in Italia è in Lombardia.

 Sono 674 le imprese di informatica che operano a Milano.

 Alla Galleria di Philippe Daverio e Paolo Baldacci, mostra di Ruggiero Savinio.

 Il milanese Bettino Craxi è il primo socialista presidente del Consiglio.

 Giovanni Paolo II a Milano: è la prima visita di un papa dopo 565 anni.

 Debutta lo stilista Franco Moschino. Morirà giovanissimo nel 1994.

Lita stava diventando nervosa. Si chiedeva se fosse possibile invitare della gente ad una festa con tema lurex e poi non riscaldare la casa. Una festa Groenlandia, sarebbe stato meglio. Almeno ci si sarebbe coperti. Mica ci si possono fare maglioni con il lurex, oh dio, sì, c’ è chi li fa, ma in ogni caso, per lei il lurex era concepibile solo sulla pelle nuda e molto sottile.

Così adesso, con il suo abitino di lurex d’argento – 2 bande a coprire il seno e la gonna tanto leggera che pareva neanche ci fosse – stava rabbrividendo davanti al caminetto semi spento, mentre ogni tanto lanciava occhiate sconsolate alla coppia che aveva di fronte. Lei, truccata al limite del perverso, impazzita nello sforzo di sostenere un cappellino di piume alte mezzo metro, lui con la faccia da viveur di provincia accanito frequentatore di discoteche, e bische clandestine. Si capiva che erano una coppia perché, oltre il fatto che sì assomigliavano, lei ogni quarto d’ora sollevava la mano, accarezzava meccanicamente il braccio di lui, per ripiombare poi nella primitiva rigidità. Forse pensavano che quello fosse il giusto contegno per la festa di un marchese, ed erano così calcolati nel ruolo da scordarsi il freddo. 

Beati loro. Oltre il vano della porta, nel salone d’argento, le danze impazzavano per quanto lo permetteva il freddo e la musica, swing anni ’40; proprio quello che ci voleva per scaldare l’ambiente ma anche questo era tipico di Ludovico. Perduto nei suoi sogni e nelle sue disagiate abitudine di un’aristocrazia decaduta, non era da lui preoccuparsi del benessere degli ospiti che in ogni caso, affollavano le sue feste, per poter dire poi, di essere stati invitati da un marchese.

Nella confusione d’industrialotti padani, mogli di professionisti, parrucchieri, finocchi, artisti locali e tutta la fauna che popola in genere questo tipo di intrattenimenti, spiccavano signore in nero dai capelli vagamente monacali e dame in bianco da look new Ofelia. 

Ma soprattutto spiccava lui, lo straniero, scuotendosi dal suo torpore, l’aveva immediatamente isolato tra la folla di volti tutti uguali, tutti ugualmente imbronciati ad imitazione dell’ultimo fotomodello in auge, tutti ugualmente imbrillantinati.  Lui no. Questo era il punto. Lui no, lui era diverso. Non che non fosse imbrillantinato, questo no, ma la sua mascella   era veramente dura, i suoi occhi azzurri, veramente cattivi. Vederlo e collegarlo alla targa tedesca dell’automobile parcheggiata nello spiazzo davanti alla casa, era stato tutt’uno per Lita.

Sì, era vero che ci vuole sempre qualche straniero per dare un tocco di piccante alle feste, bisognava ammetterlo, ma almeno questo era proprio un gran bell’ esemplare. Alto due spanne di sopra della porta, portava negligentemente uno smoking perfettamente nero, senza concessione alcuna al lurex, mentre il viso era illuminato da una sciarpa di seta portata con altrettanta noncuranza. Sembrava perfettamente a suo agio, tranquillo, sicuro. Pareva non essere vittima del freddo né della frenesia del divertimento. A Lita piacevano gli stranieri, le schiudevano mondi nuovi, le davano l’illusione di evadere da quella grande provincia che si chiama Milano, di cui conosceva fin troppo bene riti e usanze.

Sapeva per esperienza, per via di precedenti relazioni, che se si fosse messa con uno straniero, vuoi per la diversa lingua, voi per le differenti abitudini, ci avrebbe impiegato due mesi – se le andava bene forse tre – per scoprire che il tipo in questione era altrettanto stupido quanto il ragazzo della porta accanto. Ma intanto altri mesi piacevoli erano assicurati. Certo che con quel gelo, era assolutamente impensabile fare una qualunque manovra di avvicinamento. Oltretutto non era neanche tattico.

Se non s’ingannava, questo era il tipo da trattare con assoluta indifferenza. Guai a mostrargli interesse, era già anche troppo abituato a facili conquiste, guai a guardarlo, a questo ci pensava già abbastanza lui, doveva aver gli specchi consumati nella sua casa. E poi, se anche non fosse stata irrigidita dal freddo – non c’era niente come il freddo che ti tolga la voglia di dir battute spiritose – a che pro fare tanta fatica; era uno come gli altri, come cento altri.

E se invece? Se invece dei laghi nordici dietro i suoi occhi si nascondesse il sapore di lunghi inverni passati davanti al camino a raccontare di fate folletti? Meglio andarsi a prendere del vino, ammesso che ce ne fosse ancora, già che ce n’era tanto poco all’inizio, ammesso di riuscire a non rompersi l’osso del collo giù per gli scalini sbrecciati del 400, in cui si erano impigliati tanti tacchi a spillo.

Percorrendo la sala in direzione della scala che portava la taverna, Lita sentiva il nervosismo, momentaneamente sopito dall’onda romantica a cui s’era abbandonata, tornare ad assalirla e a trasformarsi a poco a poco in una rabbia sorda contro tutto; gli ospiti, il padrone di casa, una rabbia che la faceva avanzare a testa bassa, senza guardare niente e nessuno. Benedetto il freddo, benedetta la rabbia benedetto il caso, il gran Dio del caso che sempre favorisce i suoi figli più devoti.

Se Lita non fosse stata così irritata, avrebbe chiesto d’accendere a testa alta e con un sorriso gentile, non con tono scostante e gli occhi bassi come stava facendo adesso, adesso che chi le accendeva la sigaretta era proprio lui, lo straniero, deluso e già incuriosito dalla sincera indifferenza di lei. Che fosse interessato a lei, Lita l’aveva percepito immediatamente da un che di vivo nel suo sguardo, da un leggero protendersi in avanti, quell’aria generale di tensione, come di un galletto che arruffi le piume e che gonfi il petto, atteggiamento tipico di un certo tipo di maschio, latino o Sassone che sia, quando si prepara alla conquista.

Ma si era accorta di tutto questo un attimo troppo tardi, aveva perduto l’istante in cui poteva fermare il suo sguardo, una battuta, indurlo in conversazione, insomma fermarlo. Meglio così, forse. Il non averlo guardato chiudeva questa prima mano 1 a 0 per lei.  Meglio lasciare un’altra volta tutto al caso, che se aiuta ripetutamente i giocatori di poker, poteva benissimo aiutare ancora lei, un’altra volta. Qualcosa intanto stava cambiando nell’ atmosfera della festa. La grande sala veniva sgombrata, gli ospiti erano pregati di ritirarsi per un momento nelle stanze laterali, in modo da lasciar spazio a chi stava montando il grande telone bianco per le ombre cinesi. Dopo le ombre cinesi ci sarebbe stato un duo al pianoforte, e infine un’orchestrina jazz. 

Era quel momento – c’è sempre in una serata – in cui l’eccitazione raggiunge il culmine, il trucco delle donne finalmente prende e appare luminoso naturale, le piume non sono ancora cadute e i lustrini non ancora impastati di sudore e fondotinta, quel momento in cui la gente, animata dal vino e dalla musica, chiacchiera ride, si cerca un partner per non doversi trovare poi, fine serata, ubriaca tra le braccia di qualcuno ancora più ubriaco. A forza di accalcarsi insieme agli ospiti erano riusciti a scaldarsi, e lo spettacolo che si presentava a Teresa all’ingresso della sale di affreschi era quello di tante feste, gruppuscoli che si scambiavano l’ultimo pettegolezzo “ma hai visto l’Angela? Maria è talmente ingrassata che ha non ha osato alzarsi dalla sedia per tutta la sera” eh.. gonfia di psicofarmaci te lo dico io”.  D’altra parte, si sapeva che sarebbe finita così. Ragazze che flirtano e commercianti lanciati alla conquista dell’attricetta. Nell’angolo su un divanetto bianco damascato una sagoma nota abbracciata a una meno nota. Ci avrebbe scommesso non poteva essere così. Il nordico era con una donna: un’amica? Scialba, insignificante, con nessun particolare che la distinguesse dalla folla: proprio quello di cui lui aveva bisogno. Bene se quella era l’amica, lei, Lita, sarebbe stata qualcosa di più e di guerra gliene avrebbe data quanta ne voleva. Sapeva lei come tenere sul filo un uomo. Non dargli mai tregua mai la sicurezza di possederla. Conosceva bene i giochi. Se quella era la minestra di tutti i giorni, lei sarebbe stata il curry, il pepe, lo zenzero.

Non la preoccupava di certo quella lì. Bene. Aveva visto quanto bastava, adesso era il momento di fare quattro salti, tanto più la musica era finalmente cambiata. Lo swing anni quaranta che nessuno sapeva ballare, era stato sostituito da musica da discoteca più familiare, e tutti si erano precipitati a ballare in attesa dell’orchestrina Jazz.

La sorpresa di Lita era stata grande quando, al salire dei musicisti sul podio, si era accorta che il sax tenore, era, un’altra volta lui. Questo aggiungeva indubbiamente elementi al suo fascino e a tutta la storia. Dopo aver girato un po’ le cantine di Monaco e di Berlino, decide di tentar la sorte in Italia. E questo può placare per un po’ la sua inquietudine romantica. In Italia vita bohemienne, altre cantine, altro vino, altre notti in bianco e infine l’incontro con dei musicisti squattrinati a Milano. Decidono di mettere su un gruppo, ed eccoli qui. Il cantante non era male, con quel suo stile a metà Dalla e Caputo, ma la vera attrazione, la vera anima del gruppo era lui, che si piegava l’indietro, e poi di nuovo in avanti, che faceva luccicare il suo sax, assorto e ironico insieme, ammiccando al pubblico con gli occhi brillanti.

Lita, tuttavia, non era la sola essere attratta dal binomio artista / straniero. Già alcune ragazze stavano fendendo la folla per guadagnare i posti sotto l’orchestra e, una volta arrivate, agitavano frange lustrini, assumevano movenze da baiadere, dimenando la testa e i fianchi per farsi notare da lui, che tanto la notte era già abbastanza inoltrata da permettere, almeno al primo dei veli del pudore, di cadere. Lui le guardava tutte, confermato nel suo fascino, contento del suo trionfo, contento di essere sul palcoscenico, ma Lita sapeva ch’erano per lei gli sguardi più intensi, quasi già d’intesa. Lo sapeva, quella sicurezza della reciproca attrazione, quell’istinto che ti fa sempre sapere quando attrai e sei attratto. Il blues si snodava in lunghe spirali di energia, che sembravano passare attraverso la folla come scariche elettriche e costringevano i piedi a muoversi, il bacino a ruotare, i fianchi a ondeggiare.

Tanto piacevole era la sensazione di abbandonarsi alla musica, di amalgamarsi con gli altri e formare un tutto unico, perfettamente armonico, che alla fine del concerto la delusione e il rimpianto del pubblico, come quelli di un bambino a cui abbiano tolto il giocattolo preferito, erano quasi tangibili. Ma Lita non poteva permettersi di rimpiangere la musica, era venuto il momento di agire, adesso che lui era ancora carico del successo riscosso, quindi più disponibile. Si sarebbe unita, come per caso al gruppetto con cui stava parlando, e poi si sarebbe introdotta nella conversazione. Forse poteva dire qualcosa in tedesco, lui si sarebbe certamente stupito, le avrebbe chiesto dove l’aveva imparato e poi, da cosa nasce cosa, e avrebbero cominciato a parlare. 

Ecco che lui stava dicendo qualcosa: “vedi Graziella ce lo dici tu poi alla Stefania che noi siamo andati a mangiare una pizza…. no il Corallo adesso è chiuso… alla Conchiglia verde…” 

Oh no, queste non erano le erre gutturali le esse lievemente sibilanti, la musica dell’italiano parlata da uno straniero da cui Lita voleva farsi cullare. Quest’ erano le vocali aperte, le esse pesanti di un puro accento emiliano.  Come tessuti preziosi, di cui si cominci per gioco a tirare un capo e si continui poi, come ipnotizzati a sfilate trame e ordito, fino ad avere nelle mani nient’altro che un minuscolo gomitolo tutto raggrinzito, così si sfilacciavano e si raggomitolavano i sogni di Lita. Tornando a casa, rannicchiata nel sedile posteriore della macchina, avvolta nella nebbia pesante familiare, Lita pensò che alla prossima festa ci sarebbe andata in jeans e maglione. 

Francesca Mezzadri

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