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Francesca Mezzadri inedita. Teresa

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Asso, 1965

Groppe che sfumano dai vapori della pianura, ridenti: lingue di buona agricoltura. Come ti inoltri, le strade si fanno pigri serpenti snodati a seguire le alture che una dopo l’altra procedono fin dove cogli odori e presenze di terre e bosco. L’estate declina mollemente, settembre è alle porte, sole ancora generoso ma ombre sempre più lunghe. Teresa trova familiari i luoghi, come se tornasse dopo una breve lontananza.

E dopo aver tanto letto Pavese.

#

TERESA

Rimossa, negata la città convulsa e dalle troppe parlate forestiere. Ogni giorno è un giorno dopo l’altro. Monotono trascorrere di chiacchiericci obbligatori nella professione di vendeuse in un negozio di lampade, a silenzi da domestica nella casa della proprietaria del negozio, nel bel palazzo al centro di Milano. Nel limbo lei dura da sette anni. Tre anni consumati aspettando. Che cosa? Non se lo chiede più. In lei solitudine, solitudine e noia hanno lasciato sogni. Trentadue anni e occhi disincantati, ferite che non si cura di nascondere. Gli occhi asciutti tolgono vitalità alla figura. Le belle mani non portano l’anello.  L’anello non c’ è mai stato. Tre anni di un rapporto senza scosse con uno che non aveva voglia di niente. Neanche di divertirsi. Per il resto attesa. Una famiglia “quasi” come tante e una professione decorosa. La città, il lavoro, il chiuso del suo mondo: Teresa era sul punto che grani sulla clessidra ne rimanevano pochi. Una giostra ferma nel silenzio e nella nebbia dei baracconi. Quando la fiera chiude. Dal dottore a chiedere un ricostituente, in via Torino. Per quegli occhi cerchiati di stanchezza, sonni non riposanti. Risveglio cattivo: un altro giorno.

Nello sguardo del medico, quando Teresa gli era capitata davanti, aveva letto l’insofferenza.

Una delle tante. Quali disturbi? Ogni cosa senza entusiasmo, paura. Paure. Giorni da trascinare a sera. Sere vuote. 

Alcuni esami da fare, con comodo.

Teresa glieli aveva messi davanti, gli esami fatti la settimana prima, a quello di Via Torino. Esami normali. 

Bene, aveva detto il medico. Bene. Esami normali? La prova che non c’era niente! Forse il lavorare in famiglia e nello stesso tempo in negozio. O il traffico. Milano: che città “invivibile”!

Le aveva dato due settimane, sorrideva allusivo nel salutarla. Che facesse un bel viaggio e non dimenticasse la cartolina!

Finito il turno, Teresa si è trovata con davanti due giorni da riempire con niente. Non ha amicizie.  Ha amiche, parlare con le quali non regge più: le noie del letto, le malattie dei bambini, le ferie ad Alassio. Conversazioni che condivideva ma in cui non si trovava. Conversazioni di cortesia. 

Ecco perché Asso. Nonostante l’eterea magrezza di Antonia, Livio suo marito, era un intenditore di buone cucine. Qualche volta la domenica, con Teresa, che considerava come una figlia, con la Austin grigia batteva trattorie. In ciascuna la cerimonia del ritrovarsi con le notizie delle novità.  Teresa veniva complimentata per la bella cera e l’ottimo appetito. Livio commentava i piatti.  Era esigente e stilava pagelle, serio e compreso come un notaio. Il dieci con lode non si sprecava e pochi piatti lo meritavano. Le formaggette delle malghe verso San Primo l’ebbero sempre. 

Teresa si è trovata con due giorni da riempire. La calura rendeva indistinto il profilo delle montagne: come un miraggio. Andare, fare qualcosa pur che sia, non pensare, distrarsi. Rivivere bei ricordi in quell’agosto agli sgoccioli con una Milano svuotata e senza parole. Tornare nella zona del Triangolo Lariano tra quella gente così cordiale che l’avevano sempre fatta sentire in famiglia. Quanti l’avrebbero capito? Se vai tra Asso, Magreglio, il Ghisallo a fine agosto, non avverti l’autunno che incalza. Non c’è tristezza tra la gente o in quelle valli.

Asso, case raccolte, strade d’altri tempi. D’altri tempi la Locanda Maggiore situata nella zona più alta del paese.

Dove nessuno la riconosce per dirle che è più donna dall’ ultima volta. Meglio così. Non è ancora il momento di dire “sono tornata”, se mai verrà il momento. Teresa riconosce invece il caldo sorriso della Signora e della figlia, che nella maternità si è illeggiadrita. Gli stessi volti dell’ultima volta, forse un po’ più segnati dal trascorrere del tempo.

La camera collocata al piano più alto, domina la vallata verso la cascata di Vallategna e Canzo. Lo strapiombo occhieggia affascinante, c’è inquietudine nell’aria, le ombre si fanno lunghe nel silenzio del tramonto. Logora imporsi di non pensare!. Agosto agli sgoccioli e nessuna parola…Teresa lascia a fatica la finestra. L’arredo della camera è semplice: letto alto con il piumone e di un legno che odora di buono, la brocca e il lavamani. Cena alle sette e mezza, si è raccomandata la Signora. Le buone abitudini della Valassina: cenare presto perché non manchi il tempo per due parole, per un goccio di grappa. Teresa fa in un attimo. Non ha bagaglio. Da Milano non ha portato niente. Soltanto il ricordo della famiglia. Il salone è preparato come per una gran festa.  O un matrimonio.  Una tavolata unica dove prende posto, con il bicchiere dell’aperitivo ancora in mano, tanta gente che parla fitto. Teresa non sa che fare. Forse ha sbagliato sala. Le viene in aiuto la Signora. Che ottenuto il silenzio, chiede se la giovane è bene accetta nel gruppo. Ma certo, chiunque è bene accetto nella tavolata dei medici scrittori! Qualche applaudo, tanti sorrisi, l’immediata voglia di darsi del tu. Teresa è già nel gruppo, è già parte di quella tavolata gioiosa: alle sette e mezza precise. 

Le portate si mescolano con parole tranquille e con vini che sentono di fragola. C’è calore all’intorno. Teresa avverte qualcosa dipanarsi dentro di lei.

Allenta le difese, contagiata da sollecitazioni garbate e da sorrisi buoni. Lui ha negli occhi una tacita preghiera, una malinconia tentatrice. Ha detto soltanto il nome, Diego. 

Al suo “Teresa” si è galantemente ripresentato: “Francesco”. Un vezzo da scrittore che si auspicava che la sua interlocutrice apprezzasse.

“Lettere a Teresa” di Francesco De Sanctis, il padre della letteratura. 

Così è cominciato il gioco di parlare come se tra loro il velo fosse una notte daltri tempi. È bastato poco a Teresa per capire l’insoddisfazione di lui: condotto nell’ alto maceratese, neve da ottobre a Pasqua, lui di Grado, mare, nebbia, aperta parlata veneta, salmastro, improbabile ritorno. Ma bisogna pur fare qualcosa. Ci si abitua a tutto. Il condotto non ha tempo, non ha grandi orizzonti, gli passa anche la voglia di avere famiglia. Scrive cose che nessuno leggerà.

Anche a lei non dispiace il negozio di arredamenti esclusivi, in special modo lampade. Pezzi unici disegnati da grandi artisti. La città è grande, convulsa, impersonale. La gente va senza alzare gli occhi, un milione di estranei in movimento. Ma bisogna tirare avanti.

Lui ha letto e legge tanto. Le dice qualcosa Buzzati? Uno che subiva la fascinazione di Milano. Oppure subiva la malia di una milanese. Parlano e dicono mezze verità. Frasi allusive: Diego e Teresa.

Che cosa le piace di lui? La parlata veneta? Che stia al gioco delle mezze verità? O la bugia nel darle venticinque anni? O l’incredulità che non abbia l’anello o un uomo che l’aspetti? Possibile, un fior di ragazza ancora in attesa di qualcuno? 

Diego e Teresa sembrano soli. Silenzi, sorrisi, ancora parole. Mezze verità. Frasi allusive. 

Lasciano il salone per ultimi. La veranda ancora calda dell’ultimo sole è uno spazio di luce nella vallata buia, nel silenzio stellato dell’ultimo giorno d’agosto. Nell’aria pulita si avverte l’autunno. Dalla pianura salgono regoli freschi. Stanno vicini quasi a proteggersi, Diego e Teresa. 

Non più parole, non più mezze verità. 

Hanno fermato il tempo in quello spazio di luce. 

Loro due soli, fuori dal tempo. Mettono insieme ricordi. 

Qualcosa della vita lontana dal mare e dal salmastro affiora.

Lui rivive come in un sogno: neve, silenzio, oppressione. Un fabulare dolcissimo, una tranquilla malinconia.

…Davanti alla mia finestra/cresce un muro di neve/dal cielo chiuso/fiocca come grani/dalla clessidra che un tempo/donava/scintillanti ore di gioia/da viversi centellinando. /Al cielo chiuso e silente/a te che mi sai parlare/ se quel gelo e queste paure/siano un male che passa/o il segno del declinare/domando. 

Notti fredde tra gente forestiera. Intimità negata.

Oppure la furia dell’onda che il vento spinge in laguna. Per ogni onda un destino segnato, quando tira libeccio.

“Vedi il Condotto non ha tempo, non ha che orizzonti chiusi. Scrive cose che nessuno leggerà. Tu sei la prima…chissà perché ti parlo di certi ricordi…la neve.. il mare…chissà “.

Le si avvicina quasi a proteggerla. O per esserne protetto.

Ma quando la notte è alta e il dondolio che ha cullato il loro stare insieme si arresta, Diego, senza una parola, lascia il cono di luce. Non osa chiedere o dividere la luce. 

L’albergo è senza rumori. Luci fioche, scale, corridoi, finestrelle: una casa di bambole. La camera odora di buono. Dallo specchio un volto giovane con gli occhi ridenti. Teresa si agghinda con cura e con studiata lentezza. Gioiosamente disordina il letto. Ricompare nella luce amica del corridoio, si aggira tranquilla. Una fiaba da cominciare: una porta da schiudere. 

Il cuore batte forte quando Teresa avverte nel buio, la presenza dell’uomo. Notte fonda, alba lontana.

Non vuole altri giorni da trascinare al tramonto. Cerca ore da vivere.

Per cominciare a vivere. Vuole dire a qualcuno “sono qui”.

Francesca Mezzadri

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