Un appello: “Israele appartiene al mondo e ai valori della sinistra. Senza il sostegno della sinistra del mondo Israele muore”.
L’essenza di un paese: “Che cos’è Israele? È la casa e la patria degli ebrei che sono stati per secoli dispersi in un mondo che si è sempre riservato di giocare con i senza potere, con tutte le misure della discriminazione, dalla chiusura nel ghetto allo sterminio nei campi. Solo pochi milioni di ebrei vivono in Israele, lo Stato istituito dall’Onu nel 1948, insieme al progetto di uno Stato gemello palestinese che le potenze arabe del petrolio hanno impedito ai palestinesi di proclamare”.
Una presa di coscienza: “La sinistra dovrebbe aprire gli occhi su ciò che non è resistenza, ma progetto bene organizzato, bene armato, bene finanziato e apertamente annunciato di cancellazione di un popolo. La destra dovrebbe avere il coraggio di denunciare il vero pericolo: non è in atto alcuna guerra di civiltà, non sta per venire la fine del mondo. Ma potrebbe venire la fine di Israele”.
È in libreria La fine di Israele di Furio Colombo, giornalista, politico e scrittore italiano appena scomparso (Baldini+Castoldi 2024, pp. 160, € 18).
In questo saggio intenso e personale, l’autore ci conduce in un viaggio attraverso la storia d’Israele, tracciando un quadro vivido di un Paese che vive in uno stato d’allerta permanente, sotto la minaccia di nemici e spesso frainteso da un’Europa che sembra aver dimenticato le comuni radici antifasciste.
Colombo fonde precisione giornalistica e passione civile, soffermandosi sull’isolamento di una nazione che, nata dalle ceneri della Shoah quale simbolo di liberazione e democrazia, rischia di essere ignorata proprio mentre subisce un’ostilità diffusa e paralizzante.
L’autore ripercorre con cura e attenzione le tensioni interne ed esterne di un conflitto perpetuo, enfatizzando come l’idea stessa di Israele — dai kibbutz idealisti ai check-point soffocanti — risulti spesso banalizzata o distorta.
A emergere è la solitudine di Israele in cui, da un lato, risuonano voci autorevoli come quelle di David Grossman e Benny Morris, tese a una difficile ricerca della pace, dall’altro si confrontano accuse, come quella di apartheid, che finiscono per oscurare la complessità del dramma politico, morale e umano.
Ne nasce un grido d’allarme che, pur mostrando errori e colpe di ogni parte, invita a non voltare lo sguardo e a interrogarsi sulla sorte di una democrazia moderna, nata per contrastare il più feroce dei regimi e oggi costretta a difendersi, spesso da sola, di fronte al riemergere di nuovi e vecchi pregiudizi.
Un’opera, dunque, che non è solo una denuncia o un lucido esame di tensioni geopolitiche, ma un appello per un dialogo più equilibrato e per una comprensione più profonda delle sfide, nel percorso verso pace e sicurezza, che Israele affronta ogni giorno.
Carlo Tortarolo
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La divisione del mondo islamico non c’è più. È finita non con l’11 settembre, ma con la risposta all’11 settembre che ha dichiarato nemici tutti gli islamici, chiamandoli dunque a raccolta contro il mondo non islamico. Israele è il pezzo di mondo non islamico immerso nel mare islamico. La chiamata alla guerra santa dopo l’11 settembre – benché non riguardi Israele e la presunta contrapposizione fra cristiani e musulmani tanto cara ai nuovi guerrieri – proclama Israele, che da sessant’anni è parte del Medio Oriente e lo ha cambiato, una entità estranea.
Eppure, nel Medio Oriente sessant’anni sono molti. Sono tutta la storia di tutti i Paesi nati nella regione, con i loro re finti e i loro confini tracciati nel club dagli ufficiali inglesi e francesi, prima di un cocktail e dopo avere brutalmente sedato una rivolta. Il capolavoro perverso realizzato con la guerra generale seguita alla spaventosa vicenda dell’11 settembre è stata di unire e saldare – attraverso il legame islamico – Paesi islamici arabi e non arabi, il vicino e il lontano Oriente. La conseguenza è stata di stringere Israele in una morsa infinitamente più dura di quella a cui ha finora tenacemente resistito. Non ha solo resistito. Ha avviato, varie volte in ciascun decennio, nonostante le guerre, progetti di pace, alcuni riusciti (Egitto, Giordania, Marocco), alcuni giunti addirittura alla definizione dei confini, alcuni arri- vati alla vigilia della cerimonia conclusiva che avrebbe posto fine al focolaio che invece era apparso – e adesso appare di nuovo – inestinguibile. Crimini odiosi avvenuti all’interno di ciascuna delle due parti (l’assassinio di Rabin dentro Israele, l’assassinio di Sadat dentro l’Egitto, lo scatenamento della seconda Intifada dentro la Palestina) hanno ritardato, bloccato, liquidato progetti e speranze di pace.
Due disegni paralleli andavano consolidandosi, ciascuno costruito con un misto letale di buone ragioni, disperazione, strategie sbagliate, speranze frustrate, caso e sfortuna (la morte di Sharon, la vittoria di Hamas, l’ingresso nel governo israeliano di Avigdor Lieberman) hanno consolidato blocchi nazionalistici di destra o di estrema destra da entrambe le parti. Per Israele prevale su tutto la lotta per sopravvivere. Per i palestinesi la sola alternativa accettabile è diventata la morte di Israele.